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Tag: filippo duò

Calibro 35 “Momentum” (Record Kicks, 2020)

L’uscita di un disco dei Calibro 35 è sempre un evento speciale e particolare, capace di farci riassaporare sfumature musicali troppo spesso dimenticate ma ricche di umanità, forza ed energia. Momentum, il loro nuovo album pubblicato per Record Kicks, conferma pienamente tutto ciò, mostrando ancora una volta sfaccettature nuove dei cinque ninja della musica italiana, mai banali e amanti delle sperimentazioni. 

La band, costituita da quattro tra i più talentuosi musicisti italiani, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Massimo Martellotta e Luca Cavina, è completata dal produttore pluripremiato Tommaso Colliva, quinto membro a tutti gli effetti per il fondamentale apporto sonoro da lui conferito. Negli anni si sono contraddistinti per aver saputo ricreare agilmente e in modo estremamente attuale un sound tipico dei film polizieschi italiani anni ’70, ricchi di inseguimenti e sparatorie. Da un paio di lavori, però, questo format è stato progressivamente lasciato sullo sfondo per cercare nuove vie, nuove strade inesplorate, e anche nel caso di Momentum è stato così, proponendo un immaginario inedito, figlio di nuovi ascolti.

Le dieci tracce del disco godono di estrema compattezza sonora, con una coerenza concettuale in grado di legarle tutte. L’impronta funk-jazz dei cinque rimane inalterata, ma è possibile percepire influssi post-rock ed elettronici di notevole fattura. Come sempre, la produzione di Colliva è estremamente raffinata e bilanciata, il mix è incredibilmente preciso e dettagliato, sembra quasi di osservare una goccia di sangue al microscopio. Le cose vengono messe in chiaro già nel brano d’apertura, Glory – Fake – Nation, dove ci accoglie il drumming potente e inconfondibile di Rondanini su cui si innesta un loop di voce campionata unito a stratificazioni di synth, chitarre e bassi, creando un’atmosfera rarefatta e spaziale. Il secondo pezzo della tracklist è anche il primo singolo estratto dall’opera, Stan Lee, e vede la collaborazione del rapper americano Illa J, esperimento tutto nuovo per la band, che raramente in passato aveva collaborato con cantanti all’interno delle loro composizioni. Il risultato è decisamente ben riuscito, regalando coloriture hip-hop e soul perfette per il tessuto sonoro dei Calibro. Questi ultimi sono molto bravi ad adattarsi ai vari contesti per via della carriera parallela di sessionmen, e qui non fanno eccezione, mettendo a punto un beatmaking alla DJ Shadow. 

Un altro brano sulla scia di questo mood è Black Moon, dove la voce di MEI si amalgama ottimamente all’insieme, dando la prova che il gruppo sa guardare oltre i propri orizzonti con credibilità, senza snaturarsi. La tracklist scorre che è un piacere, con variazioni timbriche sorprendenti e calzanti, tra influenze derivanti da Tortoise, The Comet is Coming, Mogwai e Cinematic Orchestra, il tutto frullato con reminescenze morriconiane e fusion. 

Insomma, Momentum è l’ennesima conferma che i Calibro 35 sono molto più di una band tributo agli anni ’70, riuscendo ad alzare l’asticella sempre più in alto e portando il proprio pubblico in mondi inaspettati. Questo lavoro ci ricorda che la musica ben suonata e ben prodotta trasmette intense emozioni e bisogna essere eternamente grati a questi ragazzi, che, pur essendo stati campionati da gente del calibro di Jay-Z, Dr. Dre e Damon Albarn, negli anni non hanno cambiato approccio, continuando a divertirsi e a suonare come se fosse sempre la prima volta in una minuscola sala prove.

 

Calibro 35

Momentum

Record Kicks

 

Filippo Duò

Le Larve è un nome da tenere d’occhio

Le Larve è un cantautore in grado di spiccare decisamente nel mercato attuale: irriverente, diretto, fresco e con un personalissimo sguardo sulla realtà. Jacopo Castagna (questo il suo nome di battesimo) ha pubblicato su etichetta Polydor/Universal Music il suo ultimo singolo Ho Visto la Madonna l’8 dicembre scorso, una data sicuramente non casuale. Nel brano Le Larve racconta storie di vita quotidiana con un linguaggio di grande impatto, ben supportato da sonorità in bilico fra l’indie pop e il punk rock. 

Dopo i vari singoli usciti negli scorsi mesi, l’autore si conferma un nome da tenere d’occhio. Partendo da stilemi cantautorali molto contemporanei, esplora un sound che ricorda I tempi d’oro del pop punk, con una precisa attenzione alle parole e alla linea melodica. 

Per capire meglio il suo originale approccio alla musica abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui, parlando del nuovo pezzo e di molto altro. Ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Ciao! Vorrei partire parlando un po’ delle sonorità presenti nei tuoi brani e in particolare nell’ultimo singolo, in cui convivono cantautorato, indie pop e rock. Come lavori in fase di scrittura e produzione? 

“In genere durante la fase di scrittura nella mia testa concepisco anche uno scheletro di arrangiamento, o comunque mi immagino il sound; in fase di pre-produzione lavoro con il mio braccio destro Stefano Maura e insieme arrangiamo il brano, dandoci prima dei riferimenti. Il nostro sound ha una linea di coerenza per quanto la proposta tra i brani sia differente.”

 

Mi ha colpito molto il testo: ironico e dissacrante, con numerose immagini prese dalla vita quotidiana e di immediato impatto. Cosa ti ha ispirato per scriverlo?

“Dentro i tre personaggi protagonisti di questa canzone ci siamo un po’ tutti, nello specifico poi si tratta di un riassunto di una serata realmente accaduta, romanzato, certo, ma non troppo.”

 

Anche il video non lascia indifferenti, ha un aspetto vintage e ben si sposa con le liriche: svelaci qualcosa di più sulla sua realizzazione. 

“Ammetto di aver avuto ansia durante la scena della rapina, perché avevo il passamontagna e una scacciacani in una zona dove sarebbe stato plausibile potesse accadere davvero. Durante le riprese sono passate due volanti, per fortuna non mi hanno visto, si sarebbe creato disagio.”

 

Raccontaci un po’ qual è stato il tuo percorso artistico finora e cosa ti ha spinto a fare il cantautore. 

“Ciò che mi ha spinto e che continuerà a spingermi a farlo, finché lo farò, è l’esigenza comunicativa. Ho iniziato a scrivere ormai otto anni fa e sin da subito ho iniziato ad esibirmi. Ciò che è cambiato in me, e quindi nella mia scrittura, è che prima vedevo la musica come un mezzo per arrivare agli altri, ora la vedo come un modo per tirarsi fuori.”

 

Ci sono degli ascolti che ti hanno particolarmente segnato?

“Certo, tra i miei album di riferimento Transformer di Lou Reed, Californication dei Red Hot Chili Peppers e in Italia, per esempio, Il padrone della festa di Silvestri, Fabi e Gazzè.”

 

Musicalmente parlando, come valuti il fermento attuale in Italia e come ti poni nei confronti della scena?

“Sono contento di vedere che sempre più gente si interessa alle nuove proposte; io per primo da sempre vado a cercare progetti inediti che possano piacermi. C’è bisogno di musica e, anche se ammetto che non tutto ciò che sento mi piace, penso che farla o ascoltarla non sia mai cosa sbagliata.”

 

Una curiosità: come hai scelto il tuo nome d’arte?

“L’ho scelto male.”

 

Sappiamo che, parallelamente alla musica, hai una carriera da doppiatore, ce ne parleresti? 

“Sì, è un lavoro che ho iniziato a fare da bambino; sono uno di quelli che chiamano figli d’arte. Tutta la mia famiglia lavora nel doppiaggio, nel cinema e nel teatro da generazioni. E’ un lavoro che mi piace e che non penso che abbandonerò mai, comunque vada con la musica.”

 

Uniamo le tue passioni con una domanda un po’ particolare. Se dovessi scegliere un film o una serie tv per cui ti sarebbe piaciuto lavorare alla colonna sonora, quale ci diresti?

“Probabilmente Skins, una serie che ho doppiato e che mi è piaciuta molto.”

 

Per salutarci, cosa prevedono i tuoi progetti futuri?

“Tanta musica e tanti concerti.”

 

Filippo Duò

 

Testacoda: un cantautore fuori dagli schemi

Testacoda è un cantautore decisamente particolare, dallo stile musicale e comunicativo molto personale. Classe 1994, originario di Como e di base a Milano, da meno di un anno ha pubblicato il suo primo EP, Morire va di moda, e il 20 dicembre esce il suo nuovo singolo guasto. 

L’amarezza dei testi è compensata da una musicalità calda e ben struttura, organica e piena. Chitarre, tastiere e programmazioni ritmiche si intrecciano molto bene supportando al meglio le liriche. 

Anche in guasto non mancano tutti questi elementi, esemplari di una certa estetica essenziale e lo-fi tipica del suo approccio alla musica, molto spontaneo, diretto e sintetico, proprio come lui. 

Abbiamo deciso, per l’occasione, di fare quattro chiacchiere con Testacoda per farci raccontare qualcosa su di lui, sul suo lavoro e sui suoi ascolti di riferimento. 

 

Ciao! Innazitutto parto subito chiedendoti una curiosità: da cosa deriva il tuo nome d’arte?

“Il nome suonava bene e ho deciso di usarlo, è figo anche il fatto di poterlo ribaltare su Instagram.” (il suo nickname è @codatesta, NdR)

 

Ci parleresti un po’ del tuo nuovo singolo guasto? Come è nato e cosa vorresti esprimere?

“All’inizio pensavo di chiamarlo pastiglie ma sarebbe stato troppo banale. Parlo di Gesù Cristo che per qualche strano motivo si è guastato.”

 

Come avviene il tuo processo compositivo? Quali fasi lo compongono?

“Scrivo e trovo una melodia quasi nello stesso momento, poi arriva la base e il brano si completa.”

 

La produzione è molto essenziale e diretta, per certi versi anche lo-fi: come è avvenuto il lavoro in tal senso?

Ah io chiedo quello che mi piacerebbe avere e se i ragazzi sono presi bene lo facciamo.”

 

Parlando del lato visivo, mi ha colpito molto l’artwork che porta anche la tua firma: ce lo racconti?

Non saprei sinceramente cosa dire, sono andato a casa di Simone che si era offerto per fare la cover e ha avuto questa idea del bagno fuori servizio, abbiamo pasticciato e alla fine, su Photoshop, non so perché ma è arrivato il maialino di Minecraft.”

 

Facendo un piccolo salto all’indietro, cosa ti ha avvicinato alla musica e qual è stato il tuo percorso fin qui?

Ho sempre ascoltato musica e non credo smetterò mai di farlo perché è l’unica passione insieme ai videogiochi che non si è mai placata.”

 

Hai degli ascolti che ti hanno influenzato nel corso della tua vita e che vorresti consigliarci?

Vi consiglio alcuni dischi che a me fanno impazzire: Trash Island, Blonde, Warlord e Don’t Forget About Me Demos.

 

E oggi, in questo nuovo panorama, chi apprezzi di più?

“Ora come ora sono tutto per ECCO2K, fatico a trovare qualcosa di innovativo in Italia e io per primo cerco di distaccarmi il più possibile dalle mie influenze (che non sono quelle che ho consigliato sopra) ma è molto difficile e come lo sento con me stesso così lo sento con gli altri.”

 

Per salutarci, cosa ci dobbiamo aspettare da te nel prossimo futuro?

“Nuove canzoni che cerco di rendere sempre diverse da quelle precedenti.”

 

Filippo Duò

 

AvA e l’era del matriarcato musicale

Il 25 ottobre è uscito Lo squalo, l’album di debutto di AvA, cantante e produttrice romana dall’attitudine forte e originale, assolutamente unica per il panorama italiano. 

Il suo genere di riferimento, infatti, è il moombahton e lei è la prima artista a proporre in Italia queste sonorità di stampo house, influenzate dalla latin wave e dall’afrobeat. Su queste sonorità vengono presentate nei brani tematiche pungenti, in cui la cantante affronta la realtà con ironia e con l’utilizzo di immagini dirette e chiare, che non lasciano troppo spazio all’immaginazione.

L’album è stato anticipato dal singolo Shazam, in cui vengono poste delle provocazioni, con il suo stile irriverente e personale, ad alcuni artisti trap del panorama nostrano, proponendo un punto di vista totalmente femminile sul mondo, in cui si auspica un vero e proprio ritorno del matriarcato.

Per l’occasione abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei per scoprire più cose sul suo progetto ed ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao AvA! Ci parleresti un po’ delle tue esperienze passate e del tuo percorso che ti ha portato fin qui?

Ciao, io sono una cantautrice e produttrice romana e per quasi dieci anni ho portato avanti un progetto elettropop chiamato Calypso Chaos. Dalle ceneri di quel progetto è nata AvA, figlia dell’esigenza di approcciarmi a dei concetti molto più forti ed espliciti di quanto avessi fatto in precedenza, avvicinandomi a un genere musicale che rispondesse meglio a questa necessità.”

 

A tal proposito, sei infatti esponenete di un genere non comune per il mercato italiano, ovvero il moombahton, e nei tuoi brani possiamo trovare influenze di vario tipo, dal Sudamerica all’Africa. Come ti sei avvicinata a queste sonorità?

Il moombathon è un genere nato in America negli anni 2000 e che in Italia possiamo ascoltare nei club da circa 5-6 anni, è sempre stato un genere di musica che amavo, e tutt’ora amo, ballare. Il mio avvicinamento a queste sonorità è avvenuto, quindi, in modo abbastanza automatico e naturale, decidendo così per prima di applicare ad esse dei testi in italiano. Inoltre, volevo anche dimostrare che nei testi appartenenti a questo mondo sonoro non bisogna per forza dire delle stupidaggini.”

 

Ci sono degli artisti di riferimento che ti hanno ispirato in questo senso? 

“Il principale esponente a livello internazionale di questo genere è Major Lazer, quindi sicuramente questo progetto è stato di grande ispirazione. Poi ti posso citare tutta la Latin Wave sudamericana che ha contaminato anche la produzione di artisti di punta del pop internazionale, come Beyoncè, Jennifer Lopez o Nicki Minaj.”

 

Raccontaci della lavorazione del tuo album: come ti sei approcciata alle fasi di scrittura e produzione?

Tendenzialmente scrivo in maniera piuttosto spontanea e automatica, non mi metto mai seduta a tavolino a pensare a cosa dovrei dire. Di solito scrivo sempre prima la musica, su cui poi inserisco i testi: è comunque un approccio cantautorale nel vero senso del termine, l’unica differenza è che, invece della chitarra, utilizzo un computer.”

 

Figura portante del progetto è quella dello squalo: che significato ha per te?

Lo squalo rappresenta il mio animale guida (ciò deriva da un incontro ravvicinato quando ero molto piccola) nonché il mio alter ego, era la figura perfetta per impersonificare il personaggio di AvA. A sua volta quest’ultima è l’alter ego di Laura, che è una persona tendenzialmente molto riservata, moderata e pacata, che non ha mai approfittato della propria immagine e, dato che sono stata aspramente criticata per questo motivo, AvA fa l’esatto contrario. È stata un po’ una liberazione del mostro che avevo dentro, e, piuttosto che combatterlo, ho deciso di lasciarlo libero, dando vita ad un personaggio molto estremo che lancia messaggi inequivocabili. Dunque, lo squalo era la metafora perfetta per questo concept.”

 

ava04

 

Nei tuoi testi si possono osservare messaggi di forte indipendenza e autodeterminazione, cosa vuoi trasmettere con le tue parole? 

“Io mi auspico un ritorno dell’era del matriarcato, sia in ambito musicale che nella vita quotidiana. Non dobbiamo dimenticarci che la società occidentale, contrariamente ad altre, nasce proprio dalla forza del matriarcato e, di conseguenza, è necessario il ritorno di una figura femminile non solo pari all’uomo, ma anche superiore. Questo lo dico non per discriminare, ma proprio per una questione di contesto culturale attuale. Le donne potrebbero tornare ad essere le padrone del mondo, mettendo fine a questo sistema maschilista. Il problema spesso è rappresentato da quei gruppi di donne assuefatte da questa mentalità che non fanno nulla per ribellarsi, anzi paradossalmente legittimano il maschilismo più degli uomini.”

 

Parlaci del videoclip del tuo ultimo singolo Shazam, come lo avete ideato? 

“È stata un po’ una follia mia e del regista Adriano Giotti, abbiamo deciso di realizzare questo videoclip dai colori piuttosto scuri, per differenziarci ulteriormente dall’immaginario molto frivolo e colorato tipico del moombahton internazionale, capace di scadere anche questo, purtroppo, nel maschilismo. In questo caso abbiamo voluto mettere in risalto la fisicità di AvA e di tutti ballerini per sottolineare che noi donne non siamo solo belle ma possiamo dire anche cose serie.”

 

Nei testi fai anche molto riferimento al panorama musicale italiano, come lo vedi oggi e come ti collocheresti al suo interno?

“Il panorama italiano attuale lo vedo molto appiattito, ci sono produzioni musicali monotematiche e dal suono tutto uguale. Basta prendere una qualsiasi playlist di Spotify per accorgersene, sembra di ascoltare un’unica lunga canzone di 45 minuti: vengono costantemente ripetuti gli stessi beat, c’è una totale assenza di composizione a livello di armonia e una quasi totale assenza di radiofonicità, per non parlare dell’abuso dell’autotune. Insomma ciò ha reso i brani italiani praticamente tutti simili, faccio molta fatica a distinguere i vari artisti l’uno dall’altro. La discografia italiana, che a livello mondiale conta praticamente nulla, preferisce puntare sui cloni di nomi già noti per andare sul sicuro piuttosto che rischiare con progetti del tutto originali. Per le donne la vedo ancora peggio, dal momento che a differenza degli uomini hanno una data di scadenza, un equivalente femminile di Ligabue non potrebbe mai esistere.”

 

Per concludere, una domanda di rito: quali sono i tuoi progetti futuri anche dal punto di vista live?

“Sicuramente nel 2020 faremo diversi live, il progetto di AvA si esplica al meglio in tale contesto, dove può avere completa realizzazione. Anche in questo caso ci distinguiamo particolarmente dagli show come vengono solitamente concepiti, nonostante sia un genere molto danzereccio e complesso da portare dal vivo, suoniamo tutto, senza ricorrere a delle basi. Poi, una peculiarità sono i miei musicisti, che hanno un’identità segreta e suonano con dei copricapi a forma di testa di squalo. Tra di loro posso menzionare il batterista, lo Squalo 1, che utilizza una batteria digitale in grado di produrre suoni acustici, il primo in Italia a proporre una cosa così e il dubmaster, ossia il deejay, il quale suona in real time tutte le sequenze, i bassi e i synth. Abbiamo il controllo totale di tutte le tracce per agire in prima persona su di esse e dare un’impronta di volta in volta diversa alle esibizioni. Non c’è l’effetto karaoke di chi canta sulle basi, sembra quasi un immenso dj set. A livello tecnico e a livello fisico è molto faticoso, è come fare un unico grande medley.”

 

Filippo Duò

Cappadonia “Corpo Minore” (Brutture Moderne, 2019)

Una gemma rara

 

È arrivato il secondo atteso lavoro da solista di Cappadonia, musicista e cantautore che, dopo anni di tour con nomi importanti della scena alternativa del calibro di Pan del Diavolo e Sick Tamburo, ha deciso di esprimere la sua arte in un progetto solista in grado di dare libero sfogo al suo immaginario. Dopo il primo capitolo pubblicato nel 2016 e la parentesi del progetto Stella Maris, esce per Brutture Moderne il suo nuovo album, Corpo Minore. 

Interamente prodotto e arrangiato dallo stesso Ugo Cappadonia, il disco è relativamente breve, nove tracce, ma questo è molto probabilmente un punto di forza. Infatti, una maggior compattezza sonora permette all’opera di essere estremamente incisiva, priva di riempitivi, ogni cosa è essenziale ai fini del racconto. La coerenza del sound si percepisce fin da subito, tutte le composizioni sono guidate dalle chitarre, siano esse acustiche o elettriche, che si stratificano in arrangiamenti curati nel dettaglio. Qua e là troviamo sprazzi di sonorità noise a colorare il tutto, basti pensare alla title track, dove compare come ospite Alessandro Alosi dei Pan del Diavolo, capace di donare al pezzo un’atmosfera decisamente particolare. Il suo sodale compagno di band, Emanuele Alosi, invece, compare in tutto il disco come batterista, e la cosa si fa sentire. Le rullate e i tocchi percussivi sono raffinati e potenti allo stesso tempo, ottimi per accompagnare il crescendo emotivo dei pezzi. Un ulteriore ospite illustre è Federico Poggipollini, storico chitarrista di Ligabue, presente in Sotto Tutto Questo Trucco con un assolo di chitarra immediatamente riconoscibile. Il pezzo è uno dei più rock e tirati del lotto, ha una vera carica esplosiva. In generale, Cappadonia è stato abile nel mantenere nella totalità dell’album un’atmosfera in bilico tra il cantautorato classico e un sound più prettamente rock, piacevolmente calibrato per alternare momenti riflessivi ad altri di maggiore forza e impatto. L’autore è un musicista a tutto tondo e non lesina sul sound design, estremamente a fuoco grazie ad inserti di synth, hammond e piano mai scontati. 

I testi sono piuttosto intimi e personali, riguardano principalmente esperienze di vita dell’artista ma con l’uso di immagini universali in cui è facile riconoscersi. È percepibile grande sincerità creativa, l’insieme tocca le corde emotive giuste fino a farsi quasi catartico. Ciò è possibile grazie alla potenza granitica conferita da Cappadonia ai brani, in un continuo gioco di rimandi fra passato cantautorale e contemporaneità sonora. 

Il lavoro sembra seguire un concept legato al mondo dell’universo e delle galassie, utilizzati come punti metaforici di partenza per descrivere esperienze puramente umane. Ogni elemento, nel suo complesso, è messo al punto giusto, dalle parole ai suoni. Dunque, nonostante il forte impeto, vi è anche una intelligente spazialità, che rende il progetto di totale gradevolezza per l’ascoltatore. A tal proposito, si passa dalle chitarre distorte e fuzz di Stelle Latenti alle dolcissime acustiche di Fango con grande facilità e coerenza. La canzone di chiusura, l’emblematica Siamo in Tempo, è senza dubbio la più originale, basandosi per gran parte della sua durata solo su un intreccio di chitarre elettriche e voce che esplode in un muro di suono finale, perfetta conclusione dell’opera. 

Insomma, Cappadonia si dimostra essere un artista completo, capace di raccontare se stesso e il mondo con estrema attualità e contemporaneità, inseguendo, però, sempre la sua visione sonora, libera da vincoli e barriere di mercato. Se già in passato la sua produzione ci aveva fatto ben sperare, Corpo Minore è l’ennesima conferma che siamo di fronte a un autore di grande talento, dall’attitudine coraggiosa e indipendente, una gemma rara nel panorama italiano.

 

Cappadonia

Corpo Minore

Brutture Moderne, 2019

 

Filippo Duò

La riscoperta del territorio come forma di creatività

La Linecheck Music Week ha offerto la possibilità di assistere a panel di approfondimento senza dubbio unici e in grado di mostrare prospettive nuove sul mondo musicale.

Uno di questi è stato l’incontro avvenuto sabato 23 Novembre in una delle learning rooms di BASE Milano, il cui tema è stato il turismo culturale e la costruzione di una comunità come occasioni per rilanciare un territorio. A intervenire alla discussione, moderata da Alessandra Di Caro di Butik, erano presenti Maurizio Carucci, cantante degli Ex-Otago, con la sua compagna Martina Panarese, proprietari di Cascina Barban e promotori del Boscadrà Festival, Daniela Frenna di Farm Cultural Park e Federica Verona del Festival delle Periferie di Milano.

Il focus del panel era volto a comprendere come poter riqualificare meglio una zona geografica tramite attività culturali capaci di coinvolgere gli abitanti e non solo. A tal proposito sono degli ottimi esempi quelli portati da Daniela Frenna e Federica Verona. La prima si occupa di Farm, una vera e propria galleria d’arte e residenza per artisti situata a Favara, in provincia di Agrigento. È il risultato del recupero di un quartiere fortemente colpito dalla criminalità e dall’abbandono sociale, in cui si è inserita una realtà nuova, con l’obiettivo di raggiungere una rigenerazione urbana. Il luogo è caratterizzato da una serie di edifici collegati tra loro in cui sono ospitati workshops, installazioni e attività di vario tipo pensate anche e soprattutto per i giovani. Dopo alcune diffidenze iniziali il progetto si è rivelato vincente portando un ottimo flusso turistico nel paese, favorevole per l’indotto economico.

Simile è ciò che è accaduto con il Festival delle Periferie di Milano, nato con la speranza di dare voce alle zone più periferiche e marginali della città, permettendo uno scambio di prospettive, idee e influenze tra coloro che ci abitano grazie a eventi interdisciplinari. I promotori del festival hanno girato per due anni Milano quartiere per quartiere, intervistando i residenti e scoprendo una grande varietà di storie troppo spesso ignorate. Il tutto in un’ottica che possa far ragionare sul tema della gentrification, sempre più d’attualità.

Maurizio e Martina hanno raccontato della loro esperienza di agricoltori e produttori di vino in una realtà come quella della Val Borbera, in Piemonte, al confine con la Liguria, dove si sono trasferiti da Genova, loro città d’origine, una decina di anni fa. In Val Borbera non sono presenti infrastrutture moderne e si respira un’atmosfera ancora piuttosto rurale, che permette loro di mantenere il contatto con la gente del posto. La cascina in cui vivono è appunto la Cascina Barban, che nel corso del tempo ha spinto in maniera significativa per una riscoperta della lentezza tipica della vita quotidiana sull’Appennino. Maurizio ha posto un’interessante riflessione, secondo cui bisognerebbe ripensare a cosa si intende per “tutto” e “niente”, dato che molto frequentemente ai due termini viene attribuito un significato univoco ben preciso, che, però, può essere rimodulato. Per portare avanti questa idea il cantautore ha così promosso la realizzazione di un documentario di prossima uscita, intitolato Appenino Pop, con il desiderio di mostrare il grande numero di meraviglie naturali e di sentieri presenti in Val Borbera, valorizzando una zona d’Italia dimenticata e sottovalutata in molti casi. A tutto questo si aggiunge il Boscadrà Festival, organizzato dalla coppia il primo fine settimana di Luglio ogni anno dal 2012, da loro definito come “festa rurale”, dove i loro ospiti si riuniscono per stare insieme, bere buon vino e ascoltare la musica sotto le stelle immersi nella natura. Un’esperienza decisamente significativa che negli anni si è ingrandita sempre di più fino ad arrivare a quasi 1000 presenze nell’ultima edizione. Maurizio e Martina hanno sottolineato come la loro non sia stata una fuga volontaria dal mondo urbano, non rifiutano affatto la città, hanno semplicemente trovato un modo nuovo di affrontare la modernità, riscoprendo le cose semplici di tutti i giorni. Maurizio non ha dubbi nel considerare tale contesto favorevole per la sua creatività, la quale riesce ad essere maggiormente stimolata dal contatto umano più profondo e dall’assenza delle distrazioni talvolta eccessive tipiche delle metropoli. Molte canzoni degli Ex-Otago sono nate tra le pareti della Cascina, dove il cantante della band ha anche un piccolo studio casalingo attrezzato per la registrazione. Infatti, tutte le voci degli ultimi dischi le ha registrate lì, dimostrando, dunque, che vivere in provincia non sia necessariamente un fattore negativo per un lavoro come il suo.

Ascoltandoli parlare si ha la netta impressione che l’arte possa vivere ed essere florida ovunque si creda, basta soffermarsi sulla realtà con maggiore attenzione, cogliendo un possibile grado poetico in qualunque cosa. Significativa, allora, una frase di Maurizio, perfetta per sintetizzare l’idea alla base del panel: “In questi luoghi apparentemente non c’è nulla, ma proprio per questo forse c’è tutto.”

L’incontro è stato la prova che la musica e le produzioni artistiche non hanno vincoli spaziali e geografici, mettendo in luce un prezioso sguardo laterale. Insomma, come ogni anno il Linecheck si conferma essere un raccoglitore di prospettive non scontate e utili per immergersi nel mondo musicale con punti di vista inediti.

Filippo Duò

Tananai e l’importanza di seguire sempre il proprio istinto

Tananai è senza dubbio un artista eclettico, dalle idee chiare e precise, in grado di rappresentare molto bene il suo immaginario sonoro e visivo. È uscito da poco il suo nuovo brano Calcutta, il cui titolo non parla della città ma proprio del cantautore capostipite della nuova generazione indie, con in mezzo tutta una serie di riferimenti alla cultura pop, da Cambiasso a Scamarcio.

Il pezzo è il suo quarto da quando ha deciso di lasciarsi alle spalle il passato da dj e producer. Fino a due anni fa era, infatti, noto come Not For Us. Ora è arrivata una nuova fase della sua carriera in continua evoluzione, che lo ha portato a scrivere testi in italiano e a raccontarsi come mai aveva fatto prima.

Siamo stati alla prima data del tour al Serraglio di Milano, organizzata da Culture Club e Humble Agency, e nell’occasione abbiamo fatto una chiacchierata con lui sul suo percorso artistico e non solo. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao Tananai! È uscito da poco il tuo ultimo singolo Calcutta, ci puoi raccontare un po’ come è nato e di cosa parla?

“Il singolo parla, in modo un po’ ironico e un po’ no, di un problema che non riguarda solo me, ma che immagino sia anche di altre persone, ovvero quello di cercare di rifarsi ai propri idoli, non per forza nel settore musicale. Magari, all’inizio, in una cosa ritieni di non essere molto bravo e pensi: “Vorrei essere bravo a calcio e giocare nell’Inter come Cambiasso” oppure “Vorrei essere in grado di scrivere come Calcutta.” In linea di massima però è importante riuscire a trovare se stessi e il proprio modo di esprimersi. Infatti nel video prendo consapevolezza di questo e arrivo a spegnere, metaforicamente, con un estintore le fiamme di quell’inferno che ti porta costantemente a paragonarti agli altri.”

 

Il video segue in maniera coerente il concept alla base del pezzo. Come lo hai ideato e successivamente realizzato? 

“L’ho ideato con l’aiuto fondamentale dei miei videomaker, ma prima di tutto amici, Olmo e Marco, che mi seguono nei miei progetti fin dall’inizio. Abbiamo sempre realizzato video molto “street”, fuori dai canoni della comfort zone di un set. In questo caso, invece, volevamo trasmettere un messaggio un po’ più intimo, dal momento che il pezzo avrebbe potuto essere facilmente frainteso. Quindi abbiamo deciso di girare su un set, realizzandolo noi e seguendo fin dal principio tutto. Ho trascorso gran parte dell’estate così e nel mese e mezzo in cui lo abbiamo costruito ho visto più i commessi del Brico che i miei genitori. Spesso abbiamo dovuto superare delle difficoltà, infatti le pareti a volte tenevano e a volte no, abbiamo cercato di recuperare qualsiasi oggetto possibile, persino un ventilatore abbandonato per strada, vecchie foto e vecchi giocattoli. C’è da dire che è stato molto bravo in questo Marco, che si occupa più prettamente della produzione: ha creato una squadra di ragazzi che volevano fare qualcosa di bello, i soldi non sono mai stati un elemento portante in questo lavoro. Inoltre, abbiamo collaborato con Nico Cacace, un direttore della fotografia veramente bravo, conoscendo così il suo team. Insomma, c’era proprio una bella atmosfera, sono venute anche le nostre mamme sul set a farci da mangiare, abbiamo formato una squadra molto casereccia di persone davvero forti e siamo decisamente contenti del risultato.”

 

Parlando un po’ del tuo percorso artistico, sappiamo che hai un passato da producer elettronico. Come sei passato da Not For Us a Tananai decidendo di raccontarti in prima persona? 

Il passaggio è stato molto naturale. Ho sempre fatto, fin da quando ho 14 anni, essenzialmente musica elettronica e nel momento in cui è uscito il mio primo album come Not For Us, due anni fa, ho avuto una sorta di “depressione post-parto”. Per me quell’album non era solo il frutto di due anni di lavoro, era proprio la conclusione di un ciclo iniziato molto prima. Quando ho visto il disco concluso e pubblicato mi sono chiesto in che modo sarei potuto andare avanti con quel sound. Sentivo il bisogno di nuove sfide e ho attraversato importanti cambiamenti come l’andare a vivere da solo e la separazione dalla mia ragazza, mi sentivo una persona del tutto diversa. Questo, come Not For Us, non riuscivo a farlo trasparire. In generale, credo che non sia corretto continuare a fare un lavoro di un certo tipo se senti che stai attraversando una trasformazione. Penso, ad esempio, a grandi band come i Radiohead, che hanno pubblicato album diversissimi come The Bends e Kid A, assecondando la loro necessità di trasformazione artistica. Io sentivo che con l’elettronica quel che dovevo dire lo avevo detto e, influenzato dalla mia ragazza e dagli amici, ho ascoltato molta più musica italiana. Tutto ciò mi ha portato a scrivere in maniera estremamente diversa.”

 

A tal proposito, hai riscontrato particolari differenze di approccio in fase di scrittura e produzione? 

“Completamente. Non scrivo e non produco come facevo prima, sono molto più attento a quello che provo quotidianamente. In precedenza, quando andavo in studio e iniziavo il processo creativo, mi isolavo in tutta un’altra dimensione all’interno di cui lavorare. Ora, invece, osservo maggiormente ciò che mi circonda e ho ampliato la mia sensibilità.”

 

Ti trovi meglio a scrivere quando sei in un periodo negativo della tua vita o all’opposto, quando sei più felice? Perché spesso per molti artisti è più facile esprimersi in situazioni di difficoltà. Vorrei sapere cosa ne pensi, sulla base della tua esperienza.

“Bella domanda. Secondo me qualsiasi forma d’arte serve a controbilanciare una parte di te che non emerge facilmente. Io, essendo una persona estroversa, quando scrivo faccio uscire sempre un lato più malinconico che magari nella vita quotidiana non riesco a dimostrare. Ma, dall’altra parte, c’è anche chi può dare l’impressione di essere continuamente “preso male” e poi scrive testi al limite del satirico e della gag. Personalmente quando sono felice penso a vivere il flusso delle cose senza interromperlo, se ho un’intuizione magari la butto giù, ma più come promemoria, perché voglio lasciare spazio alle belle sensazioni di quel momento.”

 

Per concludere, ci potresti anticipare qualcosa sul tuo futuro artistico?

A breve faremo uscire un altro pezzo e poi sicuramente pubblicherò più cose possibili. Finora è uscita relativamente poca roba rispetto a quanta ne abbia effettivamente prodotta, per cui è arrivato il momento di farla sentire.”

 

Filippo Duò

Foto di copertina: Luca Ortolani

Il ritorno di Tota, un cantautore in costante evoluzione

Tommaso Tota, di origini umbre, si è avvicinato alla musica negli anni di studio all’università di Bologna, cominciando a scrivere le sue prime canzoni. Dopo una necessaria gavetta fatta di demo caricate sul web e registrazioni chitarra e voce, ha esordito live in apertura ad artisti come Gazzelle, Carl Brave, Franco 126 e Galeffi. A gennaio 2019 è uscito il suo primo album ufficiale per l’etichetta Grifo Dischi, Senzacera , caratterizzato da sonorità elettroniche ma, allo stesso tempo, in grado di rendere onore alla tradizione cantautorale italiana.

Oggi Tota è torna in grande stile, confermando ancora una volta le sue capacità autorali e alzando l’asticella anche in ambito produttivo con Gli Anni Che Ho è il suo nuovo singolo.

Gli Anni Che Ho segna una netta evoluzione sonora rispetto al passato per l’autore, che si è avvalso di una produzione più a fuoco, capace di mostrare ancora più sfaccettature dell’anima artistica dell’autore. Tota dimostra così di aver intrapreso un percorso di evoluzione e cambiamento, mostrando nuovi lati di sè.

Abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con lui per parlare un po’ di questa nuova avventura e per ripercorrere la sua carriera artistica. Ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Ciao Tommaso! Innanzitutto ripercorriamo un po’ il tuo percorso: come ti sei avvicinato alla musica e cosa ti ha spinto poi a diventare un cantautore?

Ciao! Mi sono avvicinato alla musica già nel periodo delle superiori e scrivevo testi su delle basi rap, senza però che mi venisse in mente di pubblicare qualcosa. Sono andato, poi, a vivere a Bologna per studiare all’università e un giorno ho voluto imparare a suonare la chitarra. Me la sono fatta prestare dalla mia ex ragazza e ho cominciato ad esercitarmi sempre di più, finché non mi sono venuti degli spunti di scrittura e di canto. Da qui in poi hanno cominciato a nascere delle mini-canzoncine, con accordi molto semplici, finché la scrittura è entrata a far parte della mia quotidianità.

 

Quali sono stati gli ascolti che ti hanno maggiormente influenzato nel corso della tua carriera?

Non vorrei essere banale dicendo che ascolto un po’ di tutto ma sicuramente spazio tra cose molto diverse tra loro. Il mio cantautore di riferimento senza dubbio è il grandissimo Fabrizio De Andrè. Sono comunque capace di passare dal rap a Enrico Ruggeri, da Adriano Celentano ai Beatles, che ultimamente sono diventati un mio ascolto quotidiano. Quindi ho influenze molto varie ma se devo sceglierne solo uno ti posso dire che De Andrè è sicuramente colui che mi ispira di più quando è il momento di scrivere.

 

Oggi esce Gli anni che ho, il tuo nuovo singolo. Ci racconteresti come è nato e di cosa parla?

Il brano è nato quasi tutto in un pomeriggio di malinconia, non dettata da una delusione amorosa, ma frutto di una riflessione sullo scorrere del tempo e degli anni: infatti, ogni giorno mi accorgevo che le giornate trascorrevano inesorabili e mi sto avvicinando anche io ai 30 anni. Dunque il brano è una considerazione sul tempo che passa e sull’eccessiva importanza che diamo alle cose futili rispetto alle vere difficoltà. Quando abbiamo un problema lì per lì a noi sembra enorme per poi accorgerci che in realtà non lo è poi così tanto.

 

Rispetto al tuo primo album è evidente una netta evoluzione nelle sonorità, che qui si fanno ancora più raffinate e mature. Come ti sei approcciato stavolta alla fase di scrittura e di produzione?

Per quanto riguarda la scrittura, avvenuta chitarra e voce, il mio approccio è stato simile a quanto ho sempre fatto. La vera novità sta nella produzione artistica del pezzo e nel lavoro in studio. Per il mio primo album non avevo alle spalle esperienze di registrazioni professionali e, di conseguenza, sembrava tutto bellissimo ed entusiasmante. Avevo anche poca conoscenza di come sarebbe potuto suonare un brano, affrontando il tutto molto genuinamente, mentre in questo caso mi sono approcciato con molta più consapevolezza. Ciò che ha fatto la differenza è stata la scelta di suonare tutto dal vivo, utilizzando anche strumenti “reali” in grado di dare maggiore calore. Nell’album precedente la batteria era totalmente elettronica e programmata al computer, stavolta è suonata e si sente. Anche le chitarre hanno un feeling completamente diverso, molto più naturale, sono quasi grezze e ho, inoltre, cambiato la tonalità del mio cantato rispetto ai lavori precedenti, cercando di osare un po’ di più. 

 

Mi ha colpito molto anche l’artwork del brano, un disegno davvero originale. Come lo hai scelto? 

L’artwork è stato realizzato da Evelyn Furlan, una ragazza molto brava scoperta da Enea di Grifo Dischi, la mia etichetta. Aveva visto queste illustrazioni un po’ strane e particolari, in cui si vedono persone deformate nelle proporzioni del volto, il che è perfetto per accompagnare il tema del brano, il trascorrere degli anni e i conseguenti minimi cambiamenti che nel tempo emergono sulla nostra pelle. C’è una rappresentazione quasi satirica dell’individuo nei suoi lavori e questo mi ha colpito molto. I disegni di Evelyn sono belli e spiazzanti e accompagneranno anche il resto delle mie prossime pubblicazioni future, stiamo lavorando a illustrazioni dedicate ad ogni singola fase, dalle copertine fino a comprendere la scenografia live.

 

Tota Cover

 

Vorrei fare con te una riflessione generale sul panorama musicale indipendente e cantautorale italiano di oggi per quella che è stata la tua esperienza. Quali sono le tue impressioni e com’è fare il cantautore nel mercato odierno?

Quando si parla della musica indipendente che sta avendo successo nell’ultimo periodo io non mi sento di poter essere inserito totalmente in questa categoria. Ho cominciato a pubblicare le mie prime cose quattro anni fa su YouTube, quando gran parte dell’underground oggi diventato popolare si esprimeva lì rimanendo molto più di nicchia, mi viene in mente il primo Gazzelle, ad esempio. Quindi un po’ di gavetta sento di averla fatta, in un periodo in cui mancavano certe strategie di comunicazione che vengono utilizzate oggi. La scena musicale italiana attuale, a mio parere, è composta in parte da persone che lo fanno solo per il successo, cosa che si capisce subito ascoltando i brani, ma anche, fortunatamente, da tante persone sincere. Quando io mi approccio a un pezzo non parto mai con l’intenzione di farlo “indie”, parola che non mi piace molto, invece spesso certi testi sembrano scritti appositamente per essere inseriti nella categoria e non apprezzo questa mancanza di sincerità. La scena per certi versi si sta saturando, artisti che fino a pochi anni fa non erano conosciuti oggi sono arrivati fino ai palasport e adesso è un po’ il nostro turno di far cambiare idea alle persone che pensano che ormai si scriva solo di amori finiti male. In ogni caso se da questo mondo escono cantautori che si esprimono con la propria arte non posso che esserne felice, mi fa piacere vedere che si tratta di un periodo fertile per la musica indipendente. Io sono il primo a non avere un percorso di studi musicali alle spalle, quindi chi sono io per dire “non fatelo”?

 

Che programmi hai per il futuro? Ci puoi anticipare qualcosa sull’album e sui live?

Sicuramente usciranno altre canzoni molto diverse da come il mio pubblico si è abituato, influenzate tutte dal mood presente nell’ultimo singolo. Per quanto riguarda il live ci saranno degli appuntamenti ma non a breve, bisognerà aspettare ancora un po’. Però le cose nuove ci sono, ce le abbiamo pronte e non vediamo l’ora di farle ascoltare a tutti!

 

Filippo Duò

 

A EMERGO il live multisensoriale di Mr Everett

Mr Everett rappresenta un elemento di assoluta innovazione e diversità nel panorama italiano e non solo. La sua particolarità è quella di essere un progetto ibrido, dall’identità collettiva che sfugge alla tradizionale definizione di “band elettronica”, identificandosi piuttosto come live show performativo. 

Il concept alla base del progetto ruota attorno alla storia del cyborg Rupert e dei suoi compagni Mr Owl, Mr Fox e Mr Bear, Umanimals un po’ animali e un po’ umani. La compiutezza della loro proposta artistica si raggiunge prendendo parte ad un live: dal vivo sono in grado di creare un’esperienza audiovisiva, sensoriale e immersiva a 360°. L’interazione fisica di Rupert e il pubblico è uno dei momenti più forti e coinvolgenti delle performance. L’impianto scenico del progetto stravolge lo spazio del palco trasformandolo in una vera e propria dimensione parallela, tra il dancefloor del club e lo spettacolo audiovisivo completo di proiezioni, fumo e luci.

Il loro primo lavoro è l’EP Uman, del 2017, dalle sonorità sperimentali e internazionali, dove già possono scorgere i semi del futuro dei Mr Everett. Nel 2018 è uscito il primo album Umanimals, che ha portato avanti il loro racconto visivo e sonoro, ribadito in seguito anche nel nuovo brano Keep Breathing, ideale prosecuzione del disco. 

Il 27 novembre si esibiranno con Daykoda e Venerus nell’ultima giornata di EMERGO – Correnti per cambiare rotta, festival di installazioni, performance artistiche e musica che si terrà a Cesena nel corso di tutto il mese di novembre. EMERGO vuole dare la possibilità di organizzare attività culturali, di esplorare luoghi e spazi in apparenza decadenti o, al contrario, percepiti come inviolabili, un’attività intergenerazionale per cercare nuove rotte o, almeno, abbandonare un porto sicuro, non troppo al largo e guardando sempre il proprio faro. 

Per l’occasione abbiamo deciso di parlare un po’ con loro, approfondendo l’immaginario alla base del progetto e la loro personalissima idea di live. Ecco cosa ci hanno detto. 

 

Ciao, ci raccontate un po’ come è nato e come si è evoluto il progetto Mr Everett?

“Mr Everett è un progetto performativo a 360 ° che nasce dalla nostra idea comune di raccontare il rapporto tra umano, tecnologia e ambiente circostante (inteso come natura). Tutto è nato dalla macchina: il cyborg Rupert è stato costruito nel 2015 e da li tutto è cominciato. Mr Everett è figlio anche delle nostre esperienze pregresse nella danza, nella musica e nel teatro. Durante questi quattro anni di attività abbiamo collaborato con moltissimi artisti nei campi più disparati: dal design, alla danza contemporanea, all’illustrazione e persino la pittura. Come Mr Everett abbiamo sempre voluto far coesistere i numerosi input che ci dava il rapporto con la tecnologia.”

 

Il vostro immaginario visivo è senza dubbio di forte impatto, cosa lo ha ispirato?

“Gli immaginari visivi di riferimento sono numerosi, ma principalmente legati alle graphic novels: dai manga giapponesi come Ghost in The Shell, Neon Genesis e Akira, ai fumetti di Moebius e Dylan Dog. Non a caso in Umanimal – il nostro primo album – ogni pezzo è accompagnato da una tavola specifica, realizzata da Fabio Iamartino (in collaborazione con Grifo Dischi e Dischirotti), che rappresentava graficamente il racconto del brano. Durante i nostri live, i visuals, curati da Mr Bear sono parte integrante della storia: permettono a Rupert e gli Umanimals di ‘entrare’ in un ambiente diverso per ogni canzone.”

 

L’anno scorso, come avete anticipato, è uscito il vostro primo album, Umanimal, basato su un concept narrativo molto particolare, ce lo spieghereste?

“Umanimal contiene alcuni concetti che vorremmo comunicare come Mr Everett: il rapporto tra umano e natura, come quello tra umano e tecnologia, evitando di mettere l’uomo al centro. I brani parlano del viaggio di Rupert, un cyborg. In un mondo martoriato da un’umanità confusionaria e parassita, il cyborg Rupert viene inviato in un’altra dimensione per scoprire una via alla vita differente. Si risveglia qualche tempo dopo, incontrando gli Umanimals, suoi discendenti diretti, che decidono di riportarlo sulla terra. In questo viaggio Rupert ri-esplora se stesso, la natura umana e la natura terreste, tentando di capire il suo posto nel mondo.”

 

Ascoltando i pezzi è netta la prevalenza di un sound elettronico ma è possibile individuare anche molte varietà stilistiche, come avete lavorato in fase di produzione?

“Ci hanno definiti ‘post-club’: la nostra musica prende le atmosfere da club e le porta da qualche altra parte. Ogni brano ha una sua coscienza stilistica, che sicuramente si basa su delle sonorità elettroniche. Il lavoro è partito principalmente dalla voce, artificiale e umana. Mr Owl e Rupert comunicano con due vocalità apparentemente sconnesse, ma che si arrampicano l’una sull’altra. La maggior parte dei campionamenti che abbiamo utilizzato sono vocalizzi, originali e registrati. Allo stesso modo abbiamo cercato sonorità orientali, che richiamassero l’immaginario visivo dei manga come in Japanese Safari e Gamelan.”

 

Quali sono state le principali influenze sonore alla base del vostro lavoro?

“Numerose, chiaramente. La dolcezza pop di James Blake, la garage contemporanea dei Disclosure, così come FKA Twigs e The XX, dei quali abbiamo pubblicato una cover mash-up.”

 

È uscito da poco il nuovo singolo Keep Breathing: di cosa parla e come è stato realizzato?

“Keep Breathing è una sorta di saluto a Umanimal e un’apertura verso un nuovo corso di Mr Everett. Rupert è più introspettivo, nuota nel ‘wetware’, un ammasso di liquido e dati che rappresenta la sua mente confusa, e tenta di salvarsi continuando a respirare, tenendosi stretto alle cose che crede di sapere. Nel tempo non lineare di Mr Everett, Keep Breathing può trovarsi prima, dopo o persino durante Umanimal, non ha una collocazione storica precisa. Lo abbiamo mixato e masterizzato con Andrea Suriani, all’Alpha Dept Studio di Bologna, con il quale avevamo anche lavorato per Umanimal.”

 

La vostra forza è sicuramente il live: nei concerti create un’esperienza multisensoriale innovativa. Cosa volete comunicare al vostro pubblico?

“Nell’ottica di unione tra umano e altro, l’artista e il pubblico partecipano a Mr Everett. Il nostro viaggio non è soltanto musicale, come già detto, ma anche visivo e performativo. Rupert si muove tra il pubblico, balla con il pubblico e può essere persino suonato dagli spettatori. La danza, i visuals, la performance e la musica collaborano per rendere l’esperienza più coinvolgente.”

 

Quali sono i vostri progetti artistici per il futuro?

“Dopo quasi quattro anni di concerti abbiamo deciso di prenderci un periodo di pausa – uno stop dalle performance live, per ricaricarci e ricaricare Rupert. Non vogliamo svelare i piani futuri, per il momento preferiamo aspettare in silenzio.”

 

Il 27 novembre suonerete a Cesena in occasione del festival EMERGO. Cosa dobbiamo aspettarci da voi?

“Sarà l’ultimo live del 2019 e poi, come detto, ci prenderemo una meritata pausa. Siamo entusiasti di poter condividere il palco con due artisti speciali come Daykoda e Venerus, come siamo contenti di tornare a Cesena, dove abbiamo un rapporto duraturo con i ragazzi del Vista Mare che organizzano EMERGO. I nostri live sono sempre pieni di sorprese, quindi vedere per credere!”

 

Filippo Duò