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Tag: folk

Diario di una Band – Capitolo Sei

“Quando domani ci accorgeremo che non ritorna mai più niente, ma finalmente

accetteremo il fatto come una vittoria”

 

Francesco De Gregori

 

 

Bisogna saper lasciare andare, lasciarsi andare nel momento in cui il freno del dubbio inizia a fare presa. E’ una fatica bestiale lo so, e sembra facile scriverlo nero su bianco, come se poi chi scriva un articolo o un libro abbia tutte le risposte in tasca e riesca a catalizzare in pratica le parole che gli passano per la mente. Lasciamo questa convinzione alla pari della leggenda del Bigfoot o del mostro di Lockness.

Vero un cazzo, ammetto, è proprio una fatica bestiale, arriva spesso e non volentieri. Scrivere è un messaggio verso se stessi, il messaggio è quello dello sfogo, dallo sfogo poi ne scaturisce tutto il mondo conseguenziale, che ognuno interpreta in base alle proprie esigenze e al periodo.

Diciamo che scrivere è una radura dove esercitare le proprie inquietudini, le proprie paure. Le paure formano uomini e storie, costruiscono fantasmi e valorizzano la luce quando ritorna dopo un buio che sembrava non dovesse finire mai. La paura ha creato canzoni e speranze, ha distrutto vite e ha regolamentato guerre.

La paura va lasciata andare, va affrontata e addomesticata se possibile, bisogna imparare a conviverci e si deve per rispetto non trasportarla sulle spalle di chi si ha vicino. Invero la paura va condivisa come parte di un legame, di un collante aggiuntivo a un sentimento già forte e consolidato, ma non va scaricato come si scarica una vagonata di ghiaia su di un prato verde o come si fa con l’iva o le spese mediche ecco, non è un tornaconto e l’uomo non è nato per indole e spirito ad essere ilpungiball di qualcun’altro.

Si perché le persone non si legano solo nel bene, capita che le relazioni o i rapporti indissolubili nascano dopo un crash, dopo una mancanza di aria e ossigeno che quasi finisce per ammazzarti, se non fuori, sicuramente dentro.

Quindi? Devo stare a guardare che le paure prendano decisioni al posto mio o che il timore di stare bene faccia capolino? Devo preoccuparmi oggi perchè ho il terrore di non essere sereno domani? Ma oggi non sono sereno, e quindi pretendo di esserlo domani? No, per carità no, non voglio diventare un cane che si morde la coda all’infinito. Il rischio è grosso ma non posso permettermelo, nei confronti di me stesso e delle paure stesse.

Quindi devo agire, devo andare a prendermelo io il crash tanto agoniato e temuto, le devo provare a cambiare io le cose prima che loro cambino me e tutto quello che orbita intorno alla mia esistenza. Quel mondo costruito con sacrificio e una passione smisurata deve essere figlio della mia sconfitta o del mio riuscire, ma deve essere una mia fase, non ci possono essere elementi alienanti in questa guerra silenziosa.

Lo stress ha dato modo ai mostri sacri della musica di realizzare i capolavori che li hanno resi tali, la depressione ha fatto le fortune dell’ascoltatore, mai dell’artista. E’ bene idolatrare e santificare la genialità di un individuo, è giusto riconoscergli il valore artistico, compositivo e carismatico.

Proviamo però ad addentrarci nella paura interiore, a vedere sotto un’altra ottica la creazione di una canzone. Inseriamoci nella lotta quotidiana, nella speranza che come una fievole candela giornalmente si spegne per l’artista chiamato in causa, nella sua stessa causa. Il disagio come croce, una dote che non ci si può godere appieno come delizia.

E cosi il sapore dolce del talento si inasprisce di tormento, retrogusto di capolinea, come una spugna gettata troppo presto intrisa di troppo poco sudore perché la partita per quanto avvincente è durata davvero troppo poco.

Il talento a volte non basta, i soldi non bastano, la fama, la celebrità, la copertina, la Macchina, il sistema, le luci e i riflettori…non può essere tutto li, infatti la storia dimostra che non lo è. Come dice la frase di una band di Roma, i miei cari amici del Branco citano cosi: “avere ciò che vuoi non vuol dire che si avverano i sogni”. Sacrosanto.

E quindi cosa è meglio? Cosa devo cercare dentro a una paura? Cercare di arredare la facciata e rischiare di morire di freddo, nell’ombra dell’insoddisfazione e della “possibilità” come scopo unico e primario? Oppure arredare una stanza, magari più piccola, comoda, sigillare una quiete senza pressioni, mantenere un equilibrio che può avere le sembianze di un compromesso?

Non mi sono mai piaciuti i compromessi e la pago da una vita questa condizione.

Quindi magari resta solo scrivere, produrre pensieri e propositi, combattere i fantasmi giorno dopo giorno, senza fretta, sulle macerie, sulle risate e sulle favole che sempre troppo hanno giocato un ruolo increscioso per quanto allettante, ma è bene mantenerlo un contatto diretto con con le favole perché è un bene invisibile atto allo sviluppo delle percezioni in un costante ricircolo con l’obbligo del sopravivvere.

La paura di crescere e perdere di vista il bivio di una famiglia, scoprire i vizi troppo tardi e non sapere reggere il confronto con le assuefazioni, lo sgarro morale e lo sgretolarsi delle certezze. Abbiamo paura di crederci in sti maledetti e benedetti sogni ogni giorno che spunta un capello bianco contornato da una piccola ruga in più, quasi a sancire una piccola sentenza quotidiana che punzecchia ma non ferisce ma che alla lunga lascia lividi e impercettibili gocce di sangue.

Ai giovani posso solo consigliare di fare tesoro delle paure, rendendoli sensibili al fatto che  in questi tempi storici infausti diviene un privilegio raro avere delle percezioni sensoriali acute e interessanti.

Anna Antoniazzi, scrittrice che cura il folklore Romagnolo in tutte le sue sfaccettature cita una grande verità:

“Abbandonare le storie tradizionali e le fiabe, al contrario, significa privarsi della palestra per esercitare le proprie inquietudini e i propri timori e, spesso, ancora più drammaticamente, abbandondare le armi e procedere a mani nude verso l’ignoro”.

Abbiate nella paura di scoprire un alleato, diffidate dalle paure che limitano la necessità di scoprire, voi stessi e il mondo intorno a voi, altrimenti si resta fermi sul posto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

I racconti al chiaro di luna degli Avantasia

C’era una volta Avalon, un’isola misteriosa avvolta dalla nebbia e dal mistero. Le sue sponde erano abitate da creature magiche e sfuggenti: fate, maghi, cavalieri, re e regine. 

Avalon era la patria di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Merlino e Morgana; una terra lontana e incantata che ha sempre suscitato un fascino viscerale tra scrittori e artisti.

Nel 2000 un giovane cantante tedesco Tobias Sammet, frontman degli Edguy, ha un sogno; quello di creare un super gruppo metal che riunisca insieme alcuni dei più grandi nomi del panorama internazionale. Ed è da questa idea e da una crasi tra le parole Avalon e Fantasia, che nascono gli Avantasia.

Nel loro primo album intitolato The Metal Opera Part I, del 2001, Avantasia, traccia numero 9 del cd, viene presentata come un mondo al di la’ dell’imaginazione umana in cui si svolgono le vicende raccontate nei 13 brani che compongono l’opera.

La band nata come un side project degli Edguy ad oggi è forse la creatura più riuscita di Tobias, quella a cui dedica più tempo e sopratutto quella in cui riesce ad esprimere al meglio le sue doti sia di polistrumentista che di autore.

La formazione attuale comprende oltre al cantante Tobias Sammet, Sasha Paeth alla chitarra, Miro Rodenberg alla tastiera e Felix Bohnke alla batteria.
Accanto a loro però nel corso degli anni, e degli album, si sono avvicendati tutti i grandi nomi del panorama metal mondiale: da Alice Cooper a Michael Kiske ( degli Helloween), da Rudolph Schenker (degli Scorpions) a Marko Hietala (dei Nightwish) per citarne alcuni.
Gli Avantasia ci propongono un metal di tipo operistico con brani spesso lunghi, che a volte superano i 10 minuti, e che ci proiettano in un mondo fiabesco e fatato. Ogni concept album ci racconta una storia diversa ed ha un suo filo conduttore.

Quello che li rende un unicum nel panorama musicale mondiale è l’abilità di spaziare da un genere ad un altro regalandoci un carosello di sonorità che vanno dal power metal al symphonic, dal folk all’hard rock, senza però stranire l’ascoltatore.

L’alternarsi continuo di generi infatti si sposa con il cambio di cantanti e di timbriche, con l’introduzione di un coro o di una voce femminile, che va a rendere la musica di Tobias non solo armonica ma anche ipnotica.

Le canzoni dei loro album si susseguono in un turbinio di generi ed emozioni che ti prendono e ti trasportano in un mondo magico al di là dello spazio e del tempo.

Dal 2001 ad oggi gli Avantasia hanno prodotto 8 album l’ultimo dei quali, Moonglow, é uscito lo scorso 15 febbraio ed è accompagnato da un tour mondiale.

Secondo Sammet Moonglow, che è costato alla band due anni di fatiche, sarebbe l’album più dettagliato che abbiano mai prodotto; non solo ambizioso ma ricco di amore per i particolari.

Come si può evincere dal titolo le canzoni prendono spunto dalla luna e dalla notte. Si tratta di 12 tracce piuttosto cupe che si ispirano ai romanzi di matrice vittoriana e che parlano di creature che si muovono nelle tenebre in cerca di qualcosa.

C’è chi ispirato dalla luce lunare abbandona le proprie convinzioni per inseguire i propri sogni, chi aspetta un segno e chi vuole ritrovare se stesso.

La notte e la luna, che dall’alba dei tempi sono fonte d’ispirazione per gli artisti, sono riuscite a catturare l’attenzione del frontman tedesco che con questo album, ha dato il meglio di sè.

Per tutti gli amanti del genere, ma anche per gli appassionati di fantasy, gli Avantasia saranno all’ Alcatraz di Milano il 31 marzo per l’unica data italiana del Moonglow Tour. Un appuntamento da non perdere per chi vuole farsi trasportare dalla loro musica; per chi vuole chiudere gli occhi e immaginare di trovarsi tra le Nebbie di Avalon.

Laura Losi