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Tag: francesca di salvatore

Daughter “Stereo Mind Game” (4AD, 2023)

Il mio primo incontro con i Daughter è stato qualche anno fa, guardando una serie tv che al momento nemmeno ricordo, ma ricordo che, a un certo punto dell’episodio, nella colonna sonora compariva il loro singolo Youth, uno dei loro primi pezzi (correva l’anno 2013) ma che sicuramente è rimasto tra i più noti della discografia gruppo. 

Ricordo soprattutto che quella canzone mi colpì perché l’avevo percepita come una carezza, nonostante il peso delle sue parole: delicata ma allo stesso tempo malinconica e travolgente. Il merito era tutto della voce di Elena Tonra e dell’arrangiamento musicale che ancora oggi mi fanno venire qualche brivido dall’emozione. 

E anche con il loro ultimo lavoro, Stereo Mind Game, si vede come questi elementi costituiscano ancora i punti di forza della band. La voce di Tonra, a distanza di qualche anno, continua a colpire come la prima volta. Eterea, carezzevole per l’appunto, ma in grado di sposarsi benissimo con dei testi che possono invece di fare male come lame. 

Stereo Mind Game è infatti un album estremamente introspettivo, ma lo è in modo poetico e figurativo. “I’ve been trying to read your mind by stripping all the poems / I’ve been watching dandelions grow and die and grow / and it’s a shame, because I only came here for the love of you” recita Dandelion, probabilmente la traccia più struggente dell’intero disco, anche se musicalmente procede su toni meno drammatici. 

L’introspezione arriva ad assumere addirittura i toni di una lettera: Junkmail ad esempio è un pezzo che sembra essere più letto che cantato, con un ritmo concitato e un arrangiamento ripetitivo, battente e quasi ansiogeno, coerentemente con il messaggio sull’eterna lotta tra essere e apparire in pubblico. 

La costante dell’album è l’idea che sembrano quasi tutti usciti da un sogno. Saranno le chitarre in purezza, saranno gli archi dell’orchestra 12 Ensemble che fanno un’incursione qua e là, sarà la voce un po’ distante di Tonra, ma davvero la sensazione che si ha durante tutto l’ascolto è quella di un fluttuamento costante. Stereo Mind Game culla l’ascoltatore pur parlandogli di vuoti, paure, rimpianti e amori non esattamente a lieto fine.

L’unica critica che si può muovere a questo lavoro è che tutte le tracce si assomigliano tra loro e assomigliano ai loro predecessori. Manca un po’ di vena sperimentale, ma d’altronde questo è il loro modo di fare musica e di farla anche bene. 

Accompagnando testi fortemente emotivi (e non nego che alcuni brani mi abbiano commossa), la cifra stilistica di questo album – ma in realtà a questo punto dell’intera discografia dei Daughter – è proprio la delicatezza con cui la band londinese decide di raccontarti dolcemente i sentimenti più tristi.

Del resto, se si cerca un po’ di conforto, è sempre bello sapere di poter contare su un riferimento stabile, anche se parliamo di musica. 

 

Daughter
Stereo Mind Game
4AD

 

Francesca Di Salvatore

Ron Gallo “Foreground Music” (Kill Rock Stars, 2023)

“This is foreground music you don’t need a background”

Canta così Ron Gallo nel secondo brano del suo ultimo disco, Foreground Music. Un album eclettico, sfaccettato, ma soprattutto difficile da tenere in sottofondo, perché altrimenti si rischia di perdersi delle chiavi di lettura (e forse anche perché appunto, come ci dice lui stesso, un sottofondo non ci serve).

Diverse le associazioni che si possono fare ascoltandolo: ci sono vibes (passatemi l’anglicismo) che ricordano gli ultimi lavori de The 1975 per un’associazione tra testi crudi e musiche a tratti allegre; altri pezzi invece – musicalmente parlando – ricordano vagamente gli Oasis (seppur in versione 2023), in particolare Vanity March e Yucca Valley Marshalls. Ma sarebbe riduttivo limitarsi alle associazioni con altri artisti, dato che l’album spazia dai chitarroni distorti a pezzi più dance passando per sentieri più malinconici.

Dunque malinconia, ma anche tanta ironia, quando non sfocia in vero e proprio cinismo. Questo fa sì che Foreground Music si ritagli il suo spazio in quel filone di prodotti artistici tipicamente millennial di cui la serie tv Fleabag è il massimo esempio internazionale: il racconto di una vita non esaltante e un po’ miserabile che si pone l’obiettivo di distrarre ma anche di far riflettere. Emblematica in questo senso è At Least I’m Dancing, dove appunto emerge un mondo che cade a pezzi, ma almeno si può ancora ballare.

Nessun accenno di poesia, anzi, tutto il contrario: da autore indie che si rispetti, Ron Gallo propone immagini estremamente prosaiche e quotidiane, come le tasse sempre in At Least I’m Dancing o i grandi magazzini in mezzo al deserto di Yucca Valley Marshalls. Tuttavia, sono proprio queste immagini quasi mediocri a raccontare sensazioni profonde e sentimenti  potenti: rabbia, solitudine, critica alla società della performance o all’idea che agli uomini sia tutto dovuto.

Insomma, i temi sociali non si sprecano e spesso quello che racconta è in netto contrasto con le sonorità adottate, molto più allegre e ballabili. D’altronde lo stesso artista ha definito l’album “what an existential crisis would sound like if it could also be fun”.

E probabilmente ha ragione: un’ipotetica, divertente crisi esistenziale suonerebbe proprio così.

 

Ron Gallo
Foreground Music
Kill Rock Stars

 

Francesca Di Salvatore

Paramore “This Is Why” (Atlantic Records, 2023)

Sono passati sei anni dall’ultimo album dei Paramore, After Laughter, che aveva dato il via a quella che aveva tutta l’aria di essere una nuova era per la travagliata band statunitense simbolo della scena emo-pop-rock dei primi anni duemila.

After Laughter rappresentava un’era fatta di colori pastello e sonorità synth-pop a tratti dance e infatti non tutti – me compresa – avevano apprezzato fino in fondo questo cambio di rotta. 

Un’era però che sembra già finita con This Is Why, loro ultimo album in studio. Si tratta di un’ulteriore evoluzione, ma stavolta dai toni un po’ più dimessi e meno colorata, anche solo a guardare la copertina. 

La band non ritorna di certo ai rabbiosi fasti di Riot! e Brand New Eyes, ma d’altronde come potrebbe? Sono passati quindici anni da allora e i suoi componenti sono diversi, più adulti, quindi non potrebbe essere altrimenti ed è giusto così, che ci piaccia o no. Ci danno anche un consiglio brutale nella prima traccia, che ha lo stesso titolo dell’album: “you’re either with us / or you can keep it / to yourself”.

Al primo ascolto si ha l’impressione di essere di fronte a un disco un po’ disilluso, come disillusa è adesso – soprattutto dopo anni di pandemia – la generazione cresciuta con loro. Ma non c’è solo disillusione: quella loro rabbia che abbiamo imparato a conoscere diventa più sottile, più ironica. Lo si vede anche nelle sonorità adottate, che si avvicinano più a un post-punk o a un alternative-rock, senza abbandonare le sperimentazioni e le contaminazioni.

Ascoltare quest’album può poi essere un’esperienza di autocoscienza. È infatti facile immedesimarsi in una persona che, pur di non essere sommersa da brutte notizie, vuole spegnere la televisione come in The News (forse il pezzo che più ricorda i Paramore del 2007); in una che annaspa costantemente contro il tempo come in Running Out Of Time oppure in una che sente di aver perso la propria direzione, come in Figure 8. 

This Is Why però non vuole essere solo un manifesto o un tentativo di fare da specchio alle preoccupazioni di una generazione. È prima di tutto un album estremamente personale, dove Hayley Williams dà voce in primis al suo vissuto di questi ultimi, folli anni e quelle tematiche sociali che le stanno a cuore.

Soprattutto le ultime tracce, da Liar a Thick Skull, si fanno più intime e diventano quasi una confessione della cantante. “I’m a magnet for broken pieces / I am attracted to broken people”, canta Williams all’inizio di Thick Skull come se fosse una sorta di j’accuse verso se stessa. 

La fine di quest’album mostra quindi un ripiegamento su di sé, un’espressione delle proprie emozioni e insicurezze con franchezza e senza autoindulgenza.

Probabilmente questi brani non suoneranno come le loro canzoni più note, quelle che hanno reso i Paramore famosi anni fa, ma, così come sono cresciuti loro, siamo cresciuti anche noi e forse questo atto di introspezione non è poi così male.

 

Paramore
This Is Why
Atlantic Records

 

Francesca Di Salvatore

Måneskin “RUSH!” (Epic/Sony, 2023)

“C’era una volta una band che passò da Via del Corso a Las Vegas ad aprire il concerto dei Rolling Stones.”

Quante volte abbiamo sentito paragonare la storia dei Måneskin a una favola? Più o meno un’infinità. 

Delle novelle Cenerentole, che cominciano suonando tra le strade di Roma e, grazie alla spavalderia tipica degli animali da palco e a una buona dose di talento, passano prima da X-Factor (pur non vincendolo), poi al Festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest (questi, vincendoli entrambi).

Il resto, come si suol dire, è storia: Rolling Stones, valanghe di premi, tour mondiale.

Però, in questa favola, qualcosa si è incrinato.

Il loro ultimo album, RUSH!, si discosta nettamente dai loro lavori precedenti e in particolare da Teatro d’ira – Vol.I, che, anche se non un secondo volume, quanto meno lasciava presagire un proseguimento su quella strada. 

Invece RUSH! è un album frutto della foga degli ultimi due anni, della contaminazione statunitense e dell’apertura al mercato internazionale, ma forse dai singoli pubblicati in questi ultimi mesi – da Mammamia a Supermodel – potevamo aspettarcelo. 

Non che questa svolta pop-punk con velleità sempre più trasgressive (ma comunque senza abbandonare qualche elemento più melodico e stile ballad) sia brutta tout court. Anzi, ci sono tracce pregevoli – Gasoline e Timezone su tutte – ma non mi azzarderei a dire che hanno portato quella rivoluzione alla musica italiana che ci stavamo tanto immaginando.

RUSH! è infatti un album che di italiano ha molto poco: si vede già nella distribuzione linguistica, dato che solo tre tracce su 17 sono in italiano. La sensazione che si ha è quella di un album fatto a uso e consumo del pubblico americano e/o abituato a sonorità di questo tipo già da tempo, che quindi non percepisce nulla di nuovo e men che meno di rivoluzionario. 

Ed è un po’ un peccato, perché ci si poteva aspettare qualcosa di più dalla band che sembrava stesse riportando il pop-rock nostrano in auge anche all’estero senza il bisogno di conformarsi a modelli già noti. Ci stavano provando e avevano raggiunto già bei risultati con quel grande pezzo che era Coraline nel disco precedente (e a cui cercano di avvicinarsi timidamente con Il Dono della Vita).

Hanno fatto bene? Hanno fatto male? Non sta a me giudicare, ma sicuramente resta un po’ di amaro in bocca per quello che poteva essere e – evidentemente – non è più.

 

Måneskin
RUSH!
Epic/Sony

 

Francesca Di Salvatore

VEZ5_2022: Francesca Di Salvatore

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Cara Calma Gossip!

Terzo album e terzo strike di fila per la band bresciana che, per quanto mi riguarda, non sbaglia un colpo e continua a essere uno dei gruppi più interessanti della scena rock nostrana. Visti live durante il loro tour estivo, l’energia del disco trova il suo habitat naturale nei concerti dal vivo e loro si confermano animali da palco. 

Traccia da non perdere: Kernel

 

Rancore Xenoverso

Quattro anni dopo Musica per Bambini e con una partecipazione a Sanremo nel frattempo, Rancore pubblica un concept album che potrebbe tranquillamente essere una via di mezzo tra un romanzo di formazione e uno di fantascienza. Il suo rap diventa sempre più raffinato e curato e di canzone in canzone, un po’ come di capitolo in capitolo, noi che ascoltiamo ci addentriamo sempre di più in questo mondo futuristico, dove si può viaggiare tra i mondi e nel tempo. 

Traccia da non perdere: Le Rime (Gara tra 507 Parole)

 

Stromae Multitude

Se non erano dieci anni che Stromae non faceva uscire niente di nuovo, poco mancava. E per fortuna questi nove anni di distanza da Racine Carrée non l’hanno minimamente scalfito. Stromae è tornato con un album perfetto sia per ballare a una festa in casa sia per piangere, dipende se preferite prestare maggiore attenzione alla musica o al testo. Non mi aspettavo niente di meno.

Traccia da non perdere: Santé

 

Imagine Dragons Mercury – Act 2

Dopo un Mercury – Act 1 uscito lo scorso anno senza infamia e senza lode, il secondo atto risolleva le sorti di questo lavoro da 32 canzoni in tutto pubblicate su due anni.
Mercury – Act 2, pur mantenendo le sonorità più radiofoniche a cui ci hanno abituato negli ultimi anni, ricorda almeno in parte i loro dischi precedenti e a cui sono estremamente affezionata, essendo stata la band che mi ha fatto avvicinare in modo più strutturato alla musica. 

Traccia da non perdere: Higher Ground 

 

Taylor Swift Midnights

L’album che mi ha stupito di più quest’anno, se lo mettiamo in relazione alle mie aspettative pressoché inesistenti. Un album intimo e sincero che riprende temi e sonorità da quell’indie pop ormai sdoganato dalla scena internazionale. Il duo con Lana Del Rey in Snow on the Beach ha fatto prepotentemente risvegliate la quattordicenne che alberga nascosta dentro di me.

Traccia da non perdere: Anti-Hero 

 

Honorable mentions 

Pinguini Tattici Nucleari Dentista Croazia – Un bellissimo ritorno alle origini.

Gazebo Penguins Nubifragio – Un fulmine a ciel sereno, un ritorno inaspettato. Canzone meravigliosa.

Francesca Michielin Bonsoir – Una bellissima lettera d’amore.

Imagine Dragons Love Of Mine – Il 2022 è stato il decennale del loro primo LP, Night Visions, quindi la band ci ha regalato tutte quelle canzoni che non erano rientrate nella prima versione. Vince il premio “Viale dei Ricordi”.

La Rappresentante Di Lista Ciao Ciao – La mia personale vincitrice di Sanremo 2022 e non accetto alternative.

 

Francesca Di Salvatore

Elephant Brain “Canzoni da Odiare” (Libellula Music, 2022)

Un inizio strumentale non scontato e inaspettato: 43 secondi di chitarra e un po’ di malinconia. Così si presenta Canzoni da Odiare, secondo album della band perugina Elephant Brain uscito a quasi tre anni di distanza dal loro primo lavoro Niente di Speciale e di cui rappresenta a tutti gli effetti la naturale prosecuzione. 

L’introduzione pt. 1 (canzoni) apre così un cerchio e, parallelamente sul finale (ma questa volta a base di tastiera), pt. 2 (odiare) ne costituisce intuitivamente la chiusura. E quando sulla coda i suoni si distorcono, non si può fare a meno di pensare a dove la band potrà spingersi in futuro, dopo aver chiuso questo cerchio.

All’interno di questo anello troviamo sette tracce accomunate da un fil rouge: l’errore e la paura, l’insicurezza e la precarietà, tutti temi piuttosto cari e – a tratti forse anche spaventosi – per chi sta diventando adulto nel 2022 e che sono stati riuniti emblematicamente nel primo singolo Anche Questa È Insicurezza. 

Lo stile rimane simile a quello già sperimentato nel loro lavoro precedente, dove le chitarre sono preponderanti ma sanno anche lasciare spazio a sonorità più malinconiche e quasi introspettive, come nel caso di Rimini. Tuttavia, non è detto che queste due anime debbano escludersi a vicenda, anzi, possono anche coesistere nello stesso pezzo, come nel il caso di Come Mi Divori, terzo singolo pubblicato. D’altronde, questo modus operandi, che parte in maniera più intimista per poi esplodere, è funzionale alle sensazioni e soprattutto alle paure che vengono raccontate in questo album, dove la musica resta uno – e forse il solo – punto fermo di chi canta. 

Se in una delle loro prime canzoni, Ci Ucciderà, la musica si nutriva di dolore e richiedeva lividi per poter essere realizzata, adesso in Mi Sbaglierò diventa antidoto per non sentirsi morti, qualcosa che si contrappone e ci salva dagli altri, troppi, errori che si sono commessi e si commetteranno. 

Le canzoni sono quindi da odiare, come ci suggerisce il titolo: per la loro franchezza, per il loro potere, per il dolore che richiede realizzarle. 

Ma allo stesso tempo, sembra che non se ne possa proprio fare a meno. 

 

Elephant Brain
Canzoni da Odiare
Libellula Music

 

Francesca Di Salvatore

The 1975 “Being Funny in a Foreign Language” (Dirty Hit, 2022)

Prima che potessi ascoltare l’ultimo album in studio de The 1975, era stato il titolo ad attrarre maggiormente la mia attenzione: Being Funny in a Foreign Language. 

Essere divertente, far ridere in una lingua straniera, è forse la cosa più difficile che si possa fare in una lingua che non è la propria e che magari nemmeno si padroneggia alla perfezione. Richiede delle capacità e delle conoscenze notevoli. Quindi la prima domanda che è sorta nella mia testa ancora prima di ascoltarlo è stata: “cosa ci sarà di così difficile, di così complicato in quest’album?”

E forse la risposta è la sincerità.

La sincerità che serve per dire “ti amo” nella programmatica I’m in Love With You e la stessa sincerità necessaria ad ammettere di aver bisogno di sentirsi dire lo stesso nella ballad All I Need to Hear. Oppure ancora la sincerità nell’autocritica e nel mettersi in discussione, chiedendosi se certe idee sono più una posa che non una posizione, come in Part of the Band. 

Rispetto al loro precedente lavoro, Notes on a Conditional Form – uscito nel 2020 – Being Funny in a Foreign Language sì sperimenta, ma segue comunque un fil rouge comune di indie-pop che strizza un occhio, a volte due, al passato e in particolare alle sonorità degli anni ‘80 (tanto che alcuni passaggi di Wintering mi hanno pericolosamente ricordato Dancing With Myself di Billy Idol). 

Come definito dallo stesso frontman, Matty Healy, l’album rappresenta più un insieme di polaroid che un unico quadro, come se fosse dato da tante immagini separate ma che rimangono comunque coerenti tra loro. Al massimo, in alcune tracce come Happiness e Looking for Somebody (to Love) si può intravedere un po’ l’effetto “meme delle due case colorate” (che potete trovare qui per capire di cosa sto parlando): i testi – che non raccontano storie esattamente felici – sono la casa nera; la parte strumentale, con un tripudio di synth e ballabilità anni 80, la casa colorata. 

Ma soprattutto Being Funny in a Foreign Language è, oltre a un album di tracce-polaroid, un lavoro estremamente personale e in cui i riferimenti alla vita privata della band e di Healy stesso si sprecano. Un disco che cerca disperatamente di essere empatico ma di mantenere comunque allo stesso tempo una vena di sarcasmo. 

Tutte cose, come da titolo, parecchio difficili da fare. 

 

The 1975
Being Funny in a Foreign Language
Dirty Hit

 

Francesca di Salvatore

Pinguini Tattici Nucleari @ Balena Festival

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• Pinguini Tattici Nucleari •

 BALENA FESTIVAL

Arena del Mare (Genova) // 26 Luglio 2022

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Ma chi l’avrebbe mai detto! 

Espressione di stupore che spesso si accompagna a frasi di piacevole sgomento, ad esempio: “ma chi avrebbe mai detto di riuscire a riempire i palazzetti”. Altre volte invece si accompagna a frasi non altrettanto piacevoli, come “chi avrebbe mai detto che prima di poter ripartire in tour sarebbero passati più di due anni”.

Il concerto del 26 luglio al Balena Festival dei Pinguini Tattici Nucleari non era dentro un palazzetto, ma era comunque sold out, quindi rientra a pieno titolo negli eventi piacevoli descritti da quella semplice frase che introduce il loro singolo Verdura e che avrebbe dovuto dare il nome al loro primo tour nei palazzetti nella Primavera del 2020. 

Oggi il tour ha un nome diverso, tocca più città di quante avrebbe dovuto toccare due anni fa e anche i Pinguini nel frattempo sono un po’ cambiati, con un successo inaspettato in primis per loro, come hanno detto sul palco.

Lo show è stato anche un modo per fare una passeggiata sul viale dei ricordi, per ricordare com’erano, da dove sono partiti – a bordo di un furgone usato per andare a fare interventi odontoiatrici in Croazia (probabilmente il racconto più divertente della serata) – e dove sono arrivati adesso, con tutta la loro gratitudine per poter essere di nuovo su un palco a suonare accompagnata forse ancora da da un po’ di stupore nel vedere tutta l’Arena del Mare cantare le loro canzoni. 

Canzoni e racconti per ricordare, per riflettere e per divertire. Uno spettacolo di due ore piene, a tratti teatrale: lo abbiamo capito fin dall’inizio, quando la voce di Riccardo Zanotti in apertura ci ha raccontato a modo suo l’epopea di rinvii che questo tour ha dovuto subire mentre tutto – anche noi stessi – attorno a noi stava cambiando, per poi iniziare a intonare Ridere e far sciogliere i presenti in una canzone. 

Le abbiamo cantate tutte, dalla prima all’ultima, dalle più vecchie alle più recenti, e ci siamo divertiti a capire quali avessero inserito nel medley della “storia pinguina”, che per cinque minuti ha creato un’atmosfera quasi da villaggio vacanze, ma senza la parte fastidiosa. 

Ma soprattutto le abbiamo cantate tutti, dai ragazzi ai “giovani wannabe” passando per i genitori che hanno accompagnato bambini più piccoli. Ed è stato divertente, fin liberatorio in alcuni momenti, poter ballare e gridare in quel modo. Com’era ovvio ci sono stati anche momenti più emotivi, momenti altrettanto sentiti e partecipati per natura diversa. D’altronde, sfido a non restare coinvolti dalle parole di Freddie o di Pastello Bianco oppure a non ripensare a posteriori al significato di Cancelleria.

Anche il finale è stato teatrale. Non so se sia usanza anche negli altri paesi urlare una loro versione nazionale di “se non metti l’ultima noi non ce ne andiamo”, ma ieri sera c’è stato un momento – dopo che un The End aveva già campeggiato sullo schermo dietro di loro ma noi ci aspettavamo ancora le battute finali – in cui ho seriamente pensato che avrebbero potuto davvero fare un coup de théâtre e chiuderla così, anche se non ci sembrava di certo il loro stile. E infatti, per fortuna, così non è stato e sono riusciti per intonare Tetris prima e Pastello Bianco poi.

E ancora, dopo tutti i ringraziamenti, ancora qualche frase al pianoforte, quasi come se non volessero lasciarci andare.

“Perché noi siamo
Fuori dall’hype
Fuori dall’hype
Fuori dall’hype
Comunque vada io non piango mai
Fuori dall’hype
Fuori dall’hype
Fuori dall’hype
E vaffanculo a te che te ne vai”

Una sorta di manifesto.

Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe finita così.

 

Francesca Di Salvatore

foto di Ingrid Zambrano

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Thurston Moore + Manuel Agnelli @ Balena Festival

Arena del Mare (Genova) // 21 Luglio 2022

 

Che la serata del 21 luglio del Balena Festival di Genova sarebbe stata diversa da quello a cui sono abituata l’ho capito appena varcati i cancelli e vedendo le sedie schierate sotto il palco principale del festival: per una frazione di secondo mi sono sentita portata indietro all’anno scorso, quando le sedie dovevano essere la normalità per qualsiasi concerto. Poi sono tornata alla realtà, allo spettacolo che avrei visto, e ho pensato che tutto sommato, quelle sedie poteva avere la loro ragione di esistere.

Il Balena infatti ha schierato due pezzi da novanta: Thurston Moore – chitarrista dei Sonic Youth – con la sua band prima, e Manuel Agnelli dopo.

A intervallare, Dellacasa Maldive e Cara Calma, alternando cosí in un denso cartellone vecchie glorie e nuove leve. Davanti al palco dove si sono esibiti loro però le sedie non c’erano e infatti sarebbe stato strano il contrario. Giovani ed energiche, le due band hanno accompagnato e fatto ballare la serata più “adulta” (passatemi l’aggettivo) dell’intero festival. 

Ad ogni modo, le sedie avevano ragione di esistere perché i due spettacoli sul palco principale sono stati una forma di rapimento. Osservare le dita di Thurston Moore muoversi come se avessero vita propria lungo la chitarra richiedeva una certa attenzione, oltre a suscitare stupore tra tutti i presenti. Per un’ora abbondante il chitarrista dei Sonic Youth avrà staccato le mani dal suo strumento – maneggiato con la cura con cui si maneggia un oggetto prezioso e allo stesso tempo usato con la gioia di chi sta giocando al proprio gioco preferito – per quelli che saranno stati dieci minuti in tutto, a voler stare larghi. Nessun effetto speciale, nessun abito stravagante: solo lui, la sua band e la musica. 

È stato diverso, ma è stato anche uno Spettacolo (lettera maiuscola voluta), uno di quelli dopo il quale non puoi fare altro che chiederti come sia possibile che esista un talento del genere.

 

20220712 manuelagnelli pistoia letiziamugri 23

 

Anche Manuel Agnelli era accompagnato dalla sua band, una band ringraziata a più riprese. Non a caso, la cosa che mi ha colpito di più probabilmente alla fine di questa serata è stata l’umiltà di cui hanno fatto prova tutti gli artisti presenti: grati della presenza del pubblico, grati per chi ha scelto di accompagnarli sul palco, grati per poter essere semplicemente lí. 

Il concerto è stato un andirivieni tra pezzi recenti e successi degli Afterhours, durante i quali il pubblico ha dimenticato dell’esistenza di quelle sedie sistemate con precisione. Non sono neanche mancati i momenti di contatto con il pubblico: alcuni più didascalici – in primis quello sulla dignità dei “pezzi su commissione” prima di intonare La Profondità degli Abissi, pluripremiata canzone scritta per il film Diabolik – altri più emotivi, come quello che ha preceduto Padania, altri invece genuinamente divertenti, dato che Manuel Agnelli, oltre a dar prova di grande umiltà, si è dimostrato anche incredibilmente autoironico. 

Se Thurston Moore aveva la chitarra, Manuel Agnelli aveva la voce. Ovviamente non è il suo unico strumento (l’affiancamento alla tastierista Beatrice Antolini durante Proci o l’assolo di chitarra verso la fine lo hanno ampiamente dimostrato), ma ieri sera è stata sicuramente il suo asso nella manica. Una voce potente che risuonava in tutto il Porto Antico e al tempo stesso malleabile, tanto da riuscire ad adattarla e a modificarla, fino quasi a sembrare persone diverse, a seconda del pezzo. 

E ieri sera, mentre guardavo il pubblico urlare insieme a lui pezzi come Non si esce vivi dagli anni ’80 o Ballata per la mia piccola iena, ho pensato che se avessi avuto l’età che ho oggi tra gli anni ’90 e l’inizio del 2000, sarei stata una fan sfegatata di quei pezzi lì.


Francesca Di Salvatore

foto di copertina Roberto Mazza Antonov
foto nel testo Letizia Mugri

My Chemical Romance @ Bologna Sonic Park

Da quando i My Chemical Romance hanno annunciato il ritorno sulle scene e i biglietti per il tour di reunion sono passati più di due anni. 

Da quando io ho comprato i biglietti, 1 Febbraio 2020, ho fatto in tempo a laurearmi, vivere da sola e fidanzarmi, tre cose che tendo a legare alla vita adulta.

Ecco, invece il 4 Giugno 2022, per qualche ora, sono tornata quattordicenne ed è stato a tratti catartico. Tutte le x-mila persone presenti (eravamo tanti, tantissimi ma non saprei dare un ordine di grandezza. Qualcuno diceva 15.000, qualcuno 40.000… Insomma, gente ce n’era) sono tornate per qualche ora quattordicenni, perché alla fine questo significano i My Chemical Romance per la mia generazione. Una marea di persone, me compresa, che ha cominciato a seguirli poco prima che si sciogliessero o addirittura dopo la rottura e quindi mai avrebbe sperato di vederli live un giorno (e con delle articolazioni tutto sommato in grado di reggere un’intera giornata di coda per ottenere un posto nel pit).

Il concerto, un’ora e mezza di viale dei ricordi, è stato aperto da due band in qualche modo simili ai My Chemical Romance, gli Starcrawler e i Creeper, e dal cantautore Barns Courtney. La me di quattordici anni avrebbe molto apprezzato. La me di adesso, dopo dieci ore di coda, non gli ha reso troppo giustizia, ma cercherò di redimermi tramite il signor Spotify.

Tornando al viale dei ricordi: inaspettatamente, almeno per me, il gruppo ha scelto di aprire con il loro ultimo singolo invece che con qualche pezzo da novanta che avrebbe dato subito la carica giusta. Ma The Foundation of Decay, uscito il 12 Maggio, ha avuto senz’altro il pregio di stabilire il mood della serata. Per le urla ci sarebbe stato tempo più tardi, e infatti così è stato: da The Ghost of You a House of Wolves passando per DESTROYA, la band ha ripercorso praticamente tutta la propria discografia davanti a una folla di (ex) emo kids che spesso e volentieri si lasciavano andare non solo a urla arrabbiate ma anche a lacrime commosse. Perché sì, ci siamo anche commossi parecchio. Tra i momenti più emozionanti possiamo contare sicuramente le esibizioni di Famous Last Words e di Helena e ovviamente l’attacco di Welcome To The Black Parade, che anche dopo anni rimane riconoscibile dalla prima nota.

Dunque, ci siamo commossi, ci siamo emozionati e ci siamo sentiti riportare all’adolescenza. Ed è stato bello anche sentire la gratitudine nella voce di Gerard Way mentre si rendeva conto che li avevamo aspettati, che eravamo rimasti. 

Un po’ cresciuti, ma comunque ancora, nemmeno troppo sotto sotto, emo kids.

 

Francesca Di Salvatore

 

PS: non sono solita a farlo ma l’organizzazione del concerto di ieri richiede una chiosa polemica.

Sono arrivata nel luogo dell’evento intorno alle 10.30 (la prima band di apertura ha iniziato alle 18 e i My Chemical Romance alle 21). Ho dovuto aspettare parecchio in coda, con i 30 gradi dell’estate bolognese (e per fortuna il cielo era coperto, altrimenti sarebbe stato nettamente peggio). Immediatamente ai primi cancelli, e con diverse ore di attesa prima di entrare nell’arena vera e propria, mi hanno fatto buttare la mia bottiglia d’acqua, per cui mi ero premurata di creare una chiusura priva di tappo con pellicola ed elastico. Ho anche chiesto alla sicurezza se il problema fosse il tappo o la bottiglia di per sé ma mi è stato risposto un po’ sgarbatamente e sono stata invitata a buttare la bottiglia intera nella spazzatura.
Arrabbiata per aver sprecato mezzo litro d’acqua, mi siedo nella serpentina di transenne e aspetto l’apertura dei cancelli. Inizialmente sembrava che saremmo dovuti rimanere senz’acqua ma una serie di svenimenti e malori forse ha mosso a pietà l’organizzazione e sono arrivati i bancali: bottigliette di plastica da mezzo litro da distribuire alla folla. Per fortuna, ma ancora adesso non mi spiego il senso di far buttare la mia fin dall’ingresso.
Non era per lucrarci sopra (di nuovo per fortuna) perché ci sono state date gratuitamente.
Non era per una questione ecologica, perché le bottigliette erano di plastica e gli addetti che distribuivano non si facevano scrupoli a buttare i tappi per terra. A un certo punto era anche arrivata l’informazione di non buttare la bottiglia perché ce le avrebbero riempite presumibilmente con distributori. Non sono mai arrivati, però sono arrivate altre bottiglie di plastica, nonostante il #SonicParkIsGreen.

Oltre all’acqua, sicuramente non hanno aiutato i tempi biblici con cui siamo stati fatti entrare nell’arena: invece di controllare i biglietti e darci i braccialetti per il pit all’ingresso (dove però hanno fatto buttare l’acqua), i biglietti sono stati controllati da due addetti che camminavano in mezzo alla serpentina di transenne facendo lo slalom tra noi seduti sotto il sole delle 14. Al gruppo di mille persone arrivate per prime (gente che ha fatto nottata o era lì dalle 7 per capirci), il braccialetto è stato consegnato dopo di noi, secondo gruppo del pit, ritardando notevolmente tutta la trafila per entrare perché giustamente non potevano far entrare prima noi rispetto a loro, arrivati in qualche caso già dalla sera prima.

Infine, per le migliaia di persone lì presenti in coda ci saranno stati una decina di bagni chimici all’esterno dell’arena (per fortuna dentro era meglio, ma comunque dentro dovevamo ancora entrare) e basta, con risultato di code di intere mezz’ore per poter andare in bagno.
Insomma, bellissimo concerto, ma a organizzazione, molte, moltissime pecche.

The Zen Circus “Cari Fottutissimi Amici” (Capitol / Universal, 2022)

Tempo di bilanci

Per gli Zen Circus sembra arrivato il momento di tirare alcune somme e qual è il modo migliore per fare un bilancio se non con i tuoi amici più cari? Con gli amici di una vita, con quegli amici che potrebbero essere i tuoi fratelli minori e anche con gli amici che sono appena arrivati nel gruppo, perché è importante ascoltare anche le voci delle nuove generazioni.

Cari Fottutissimi Amici – e già il titolo mostra quanta confidenza ci sia in questa cerchia – è un disco immerso tra passato e presente, tra ricordo e consapevolezza. Ci sono picchi di nostalgia che vengono subito ridimensionati da uno sguardo verso il futuro sia nel sound, come si rivela ad esempio nella lunga coda strumentale di Caro Fottutissimo Amico (feat. Motta), sia nella scelta degli amici con cui condividere il microfono: da Speranza a Ditonellapiaga passando per Emma Nolde, classe duemila. 

Questo bilancio di quasi mezza età si esprime con i toni e con i generi più disparati, ma sicuramente predomina la consapevolezza di essere invecchiati. Si arriva a capire che la giovinezza ormai è passata, che i giovani d’oggi non si capiscono più, che si è diventati come i propri padri. Si guarda al passato con una nostalgia a metà strada tra il patetico e il romantico, come cantano in Ok Boomer (feat. Brunori Sas), traccia che apre il disco e serve da dichiarazioni di intenti: qui si parla anche di ciò che spesso non vogliamo sentirci dire.

E in questa consapevolezza non c’è rancore, quanto piuttosto disillusione. Una gran disillusione che accompagna quasi tutte le tracce del disco con immagini piuttosto nitide. Tre esempi su tutti: Voglio Invecchiare Male (feat. Management), Johnny (feat. Fast Animals and Slow Kids) e 118 (feat. Claudio Santamaria). In quest’ultima emerge proprio la stoica amarezza degli ultimi, di chi ha toccato il fondo e sa di essere usato dagli altri come termine di paragone per sentirsi meglio con se stessi. La voce di Claudio Santamaria è un contributo perfetto e rende la canzone particolarmente toccante e in un certo senso inquisitoria. 

Insomma, un disco eclettico ed eterogeneo accompagnato da un unico fil rouge che apre la strada a diverse riflessioni e si conclude con un finale inaspettato ma incredibilmente azzeccato. Salut les Copains (feat. Musica da Cucina) è una traccia esclusivamente strumentale in cui una serie di suoni prodotti con strumenti musicali e strumenti culinari creano un’immagine evocativa. Provate a immaginare mentre l’ascoltate: siamo in un salotto, o in un giardino se preferite, già che si avvicina l’estate. Si sta facendo tardi e dopo una bella serata passata insieme i nostri amici devono andare a casa. Si sparecchia, si tolgono le posate, i bicchieri, le bottiglie. I suoni di questo scenario sono esattamente questa musica qua. 

Perché in fin dei conti anche le serate più belle, con la miglior compagnia, prima o poi finiscono.

 

The Zen Circus

Cari Fottutissimi Amici

Capitol / Universal

 

Francesca di Salvatore

Rancore “Xenoverso” (Capitol / Universal, 2022)

Noi e l’altro

Parlare di questo album è complicato quasi quanto al liceo lo era parlare in modo improvvisato di cosa volesse dire Breton con le sue poesie surrealiste. Con Xenoverso, Rancore ha superato se stesso e qualsiasi aspettativa, già molto alte dopo il suo ultimo lavoro Musica per Bambini. Siamo di fronte a un viaggio difficile da decifrare, che ascolto dopo ascolto mostra nuove sfaccettature e nuove chiavi di lettura. Un diario di bordo che somiglia anche a un romanzo di formazione, una di quelle storie dove il giovane protagonista, lo stesso Tarek/Rancore a bordo della sua nave da cronosurfista, cerca di portare a compimento il suo percorso. 

C’è qualcosa di epico non solo nei testi dai toni concitati e quasi bellici ma anche nelle musiche, ancora più elaborate e curate dei lavori precedenti. Archi e tastiere si uniscono a elementi elettronici, perché d’altronde il futuro è già qui, tra viaggi nel tempo e tra le dimensioni. Tutto contribuisce a creare delle immagini così vivide da riuscire quasi a guardarle, ma allo stesso tempo veloci e difficili da decifrare, lasciando così solo atmosfere e sensazioni.

Si percepisce come queste diciassette canzoni vadano a comporre una storia complessa e studiata nei minimi dettagli, intervallata da due interludi parlati dove la voce di Tarek aiuta a contestualizzare meglio. Vengono lasciati ulteriori indizi per comporre il puzzle, si introducono nuovi personaggi in questa epica storia che è Xenoverso e che non possono non ricordarci alcuni archetipi della narrazione, dall’Aiutante al papabile Mentore. Ed è proprio grazie all’interludio che riusciamo finalmente a collocare la trilogia di singoli – Lontano 2036, X Agosto 2048 e Arkano 2100 – pubblicata a Marzo. 

Le storie ambientate nel futuro mantengono un sentore di passato e presente, declinazione di un eterno ritorno che emerge ancora più chiaramente in Federico, alter ego di Frederich Nietzsche che affianca il nostro protagonista nella terza traccia dell’album, dove si dipinge un’invasione di filosofi zombie. La vena colta e le citazioni – cifra stilistica di Rancore – sono ancora ben presenti e salde anche in questo suo ultimo lavoro.

Altro fil rouge che si lega al tema della battaglia è quello della comunicazione: quella tra Universo e Xenoverso, tra noi e l’altro, tra le parole che, in una scintilla di vita propria, arrivano fino a noi. Comunicazione già affrontata nel singolo Equatore, dove la collaborazione con Margherita Vicario ha portato alla luce una delle tracce più particolari e diverse dell’intero disco. 

Insomma, forse la difficoltà non sta tanto nel parlare di quest’album, quanto nel capirlo leggendo tra le righe. Le idee arrivano a chi ascolta con un certo décalage o addirittura si fermano prima perché incomunicabili, ma d’altronde le cose belle raramente sono immediate.

 

Rancore

Xenoverso

Capitol / Universal

 

Francesca di Salvatore