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Tag: glory hole records

Oremèta “Saudade” (Glory Hole Records, 2021)

Il Maestrale trasporta musica esotica, la samba si mischia con le risate di tre ragazzi sul balcone.

Ma qui non siamo a Rio, siamo a Ostia.

E qui, non stiamo festeggiando il Carnevale, siamo in lockdown.

I loro ricordi, le loro esperienze ora diventano racconti, le idee si trasformano in speranze per il futuro.

Uno di loro ha una chitarra, strimpella qualcosa mentre l’altro butta giù due frasi. La ragazza guarda lontano verso l’orizzonte. Dopotutto sono fortunati, loro hanno il mare. 

Quello che all’inizio era un passatempo si evolve, cresce, fino alla creazione di una band, gli Oremèta (Chiara Pisa voce e testi, Dario Cangreo testi e voce, Giulio Gaigher compositore) che presentano il loro primo album Saudade, una serie di storie dai profumi esotici, una bossa nova romana che narra di malinconie, di viaggi, di claustrofobia, di routine temporaneamente sospese e affetti lontani.

Chiusi nelle nostre case bramiamo spazi aperti, i banconi appiccicosi dei bar, gli abbracci, la calca dei concerti; soffochiamo nella nostra fame d’aria. La malinconia ci schiaccia, appiattendoci al suolo, e l’unica via d’uscita per la sanità mentale è ricercare nella memoria i momenti in cui ci sentivamo liberi, e rivivere quella sensazione. Se fatto in gruppo poi, diventa più potente. 

Con il loro sound particolare diventa difficile “etichettare” il loro stile, si passa da testi molto profondi, temi delicati e flussi di coscienza prosperosi, a tracce molto commerciabili, fluttuando con la bossa nova in un universo contaminato dall’hip hop, invaso dall’elettronica e dal soul.

Questo album ha un cuore, poderoso, che batte dentro a tutti i brani.

Rime eleganti che feriscono come spine di rose, un flow vellutato in Pangea (feat Soulclore); la nostalgia tagliente per gli affetti lontani è il tema di Se alle Sei, la cui intro è una telefonata vera della nonna di Chiara durante il primo lockdown e racchiude tutta la saggezza che solo gli anziani hanno con la frase “Quando sei obbligato vorresti uscì”.

Il tema degli affetti al di là del mare è anche in Bakarak, la storia di un loro amico congolese, della nostalgia di casa sua, del lavoro al porto che lo fa sentire quasi vicino alla sua patria.

Saudade e Interludio sono il frutto di ricordi di un viaggio in Brasile, versi nostalgici su come il progresso alla fine approdi anche nel paesino di pescatori sperduto, e distrugga la semplicità di una vita che bastava a se stessa. Le rime serrate, affilate, colpiscono nel profondo, Dario possiede un flow autentico, caldo.

Meta, quinto brano dell album, è una ballata pop, uno sfogo post lockdown, pieno di solarità e positività, si poteva di nuovo uscire, sembrava la libertà e, altezzosi, si poteva ripensare a quel periodo di clausura quasi sorridendo.

La rabbia verso gli oppressi scoppia violenta in un hip hop denso e scomodo in Passaporto; i toni rimangono accesi in Diario, condanna verso i pestaggi di Ostia, Salvini e Casa Pound, delle spedizioni punitive ai campi di rom di Torre Maura.

Da un balcone di un palazzo di fronte al Lido di Ostia questi tre ragazzi non ci parlano solo di nostalgia e mancanza, ma anche di speranza e rinascita. Abbiamo bisogno di esprimerci, di lasciare un pezzo di noi per buggerare la morte, un motivetto che continua ad essere canticchiato rende eterna la storia di qualcuno.

 

Oremèta

Saudade

Glory Hole Records

 

Marta Annesi

Claver Gold & Murubutu “Infernvm” (Glory Hole Records, 2020)

Ho recuperato un articolo che avevo letto da qualche parte anni fa di Umberto Galimberti, nel quale viene raccontato di quando il linguista Tullio De Mauro aveva svolto nel 1976 una ricerca per vedere quante parole, conoscesse al tempo un ginnasiale: 1600 circa. Ripeté il sondaggio vent’anni dopo e il risultato fu tra i 600 e i 700. Prosegue Galimberti dicendo che a parer suo al giorno d’oggi il numero potrebbe essere circa 300, se non meno. 

Sull’origine e sulla veridicità di questo studio vi sono pareri contrastanti, per cui non mi va di farne una sorta di assioma, ma di gran lunga più interessante è come prosegue Galimberti nell’articolo, ovvero “come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”.

Ora: il rap, per sua stessa natura, per definizione, non può esistere senza la parola. Magari senza musica, ma senza parole proprio no. E solitamente nei dischi rap di parole ce ne sono molte, i testi tendenzialmente lunghi, i risultati a volte opinabili, a volte no.

Non voglio attirarmi nemici (ok, anche io a volte non resisto dal buttarmi nella caciara), ma oggi è possibile imbattersi in “Giuro l’altra notte è stato bello / Non esci più dal mio cervello / Non basterebbe un solo anello / Tu vali più di ogni gioiello”, il cui autore non renderò noto, oppure in “E lui che avrebbe superato ed aspettato / Per millenni per poterla rivedere pure solo un giorno / E si sarebbe, da abbracciati, addormentato fra i capelli / Per potersene portare il suo profumo in sogno”.

È un discorso un po’ antipatico, lo ammetto, ed anche leggermente estemporaneo; voglio dire, esiste Messi ed esiste Candreva, ed entrambi appartengono alla stessa categoria lavorativa, ma un paragone così forte e smaccato mi aiuta nel trasmettere quanto sia maestosa e mirabile l’opera (che di questo si tratta) messa in scena da Claver Gold e Murubutu. Scrivo con la pressione di trovarmi di fronte a qualcosa di così vasto da essere incapace di abbracciarlo tutto, di non riuscire a darne giusto merito e rilievo, ma ormai siamo qui e da qualche parte bisogna pur cominciare. Dunque Daycol Orsini, Claver, e Alessio Mariani, Muru, dopo essersi già incontrati in maniera più o meno episodica in passato, hanno deciso di unire le forze per cimentarsi in una rilettura della prima cantica dell’immortale lascito di Dante Alighieri, la Commedia. 

Infernvm, così s’intitola, si sviluppa lungo undici tracce, dalla minacciosa Selva Oscura (con un ispiratissimo Vincenzo di Bonaventura) al Chiaro Mondo, costituita da soli sample a tema infernale riassemblati da Il Tenente.

È una discesa agli inferi che parte dall’Antinferno (con il contributo di Davide Shorty, che ricorderete in un X-Factor di qualche anno fa) e prosegue grazie all’anziano traghettatore delle anime “Spinge fiero il vecchio legno nell’oscurità”, Caronte. Qui Murubutu, da professore quale è nella realtà, mi costringe a riprendere il dizionario perché le mie reminiscenze liceale naufragano (sic) di fronte a “Ogni devoto qua ha il suo psicopompo / divinità ctonia della verità”.

È poi la volta di Minosse, col suo beat spiccatamente anni ’90 ed un utilizzo squisito dell’italiano che non può lasciare indifferenti. E d’altronde meglio non correre il rischio di risultare irrispettoso nel trattare temi così alti usando un linguaggio non altrettanto elevato. 

E quale argomento migliore se non l’amore, qui affidato a Paolo e Francesca, forse, insieme alla successiva Pier l’empireo del disco, per non cambiare campo semantico. Giuliano Palma fornisce il suo apporto nel ritornello, mentre i due battagliano a chi è più ispirato, Paolo piange mentre Francesca racconta “io che mi esprimerò solo piangendo / e tu parlerai di te come Ginevra”.

Pier ci sbatte in faccia la triste e dura realtà dei suicidi ed in Malebranche troviamo Murubutu a velocità siderale nella sua strofa a presentarci i barattieri; e poi Ulisse, con uno splendido arpeggio di chitarra e la narrazione tra Penelope che aspetta il marito che non farà ritorno: “Cantami o musa dell’Eroe di Grecia e le sue gesta / … / Che sfidò il fato fino all’ultima triste tempesta”.

La dolcezza con la quale una figura come Taide viene calata ai giorni nostri per parlare di prostituzione è commovente, difficile non empatizzare e non calarsi nei panni della protagonista, avvertirne la fatica.

I titoli di coda giungono con Lucifero, in un brano dalle tinte quasi dub, spruzzate di reggae qua e là, che mi portano all’uscita di questo disco con un mix di sensazioni contrastanti, difficili da elaborare: più avanzavo nell’ascolto, più mi addentravo nelle viscere dell’inferno, più provavo sincero stupore e ammirazione verso questi due eroi della parola, per la loro mirabile impresa. Al contempo mi maledicevo per aver sprecato troppo tempo al liceo e non aver seguito le lezioni ed essermene sempre bellamente fregato di mitologia, Dante, figure retoriche, per cui ora devo fare il doppio della fatica per mantenere il passo di Claver Gold e Murubutu. 

In effetti l’alternativa per non sentirmi inferiore c’era… come faceva quella dell’anello / gioiello?

P.S. Piccolo inciso (non del tutto) privo di polemica: anche in Caronte i suoni vanno da una parte all’altra, se la ascoltate con le cuffie… voi e il vostro 8D…)

 

Claver Gold & Murubutu

Infernvm

Glory Hole Records

 

 

Alberto Adustini