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Tag: green day

Firenze Rocks 2022

Cosa resta di uno degli eventi musicali post-pandemici più attesi? Polvere sulla pelle bruciata dal sole, le ultime transenne spostate dagli addetti ai lavori, un senso di vuoto dove riecheggiano le tante voci, i tanti accenti, i tanti dialetti che si mescolavano tra i rami del parco che circondavano la Visarno Arena, a Firenze, e la musica, tanta, tantissima, ascoltata, sentita e vissuta fino allo sfinimento del Firenze Rocks 2022. Dopo ben due anni di attesa, cancellazioni, decreti, distanze, mascherine, dolori, paure, inquietudini e incertezze, i primi concerti per la città e un’inaugurazione letteralmente coi botti per il concerto di Vasco Rossi tenutosi il 3 Giugno, l’arena immersa nel verde delle parco delle Cascine ha nuovamente ospitato i quattro giorni di musica dove gruppi internazionali punk, rock e metal hanno riempito l’aria di riff di chitarre, kick di batteria, fraseggi di basso e voci che urlavano ancora tutta la voglia di fare musica, ora come allora e come sempre. 

Lo spettacolo inizia il 16 Giugno con i Weezer e i Green Day, due gruppi che hanno rivoluzionato la percezione del rock mainstream e che hanno nel loro passato il 1994 come data in cui entrambi pubblicarono album che sono diventati pietre miliari del pop punk e del college rock: Dookie e Blue Album. Quando attaccano i Weezer, Rivers Cuomo incanta il pubblico parlando e suonando e dimostrando con l’assolo di Africa dei Toto che non solo anche le cover hanno un loro perché su un palco così grande, ma anche che 52 anni non sono assolutamente percepiti né da lui né da chi lo ascolta, concetto ribadito dal leggermente più giovane, anche se non troppo, Mike Dirnt che con Billy Joel Armstrong dei Green Day, gli succede sul palco. Giri di basso che si fondono con la chitarra per darle spessore, arricchire le melodie, creare una struttura dove gli artisti suonano e giocano tra di loro, con gli altri musicisti e il loro pubblico attraversando vecchi e nuovi successi. Quando le prime note di Basket Case si librano nell’aria, alcuni occhi si riempiono di ricordi vissuti, altri di ricordi ancora da vivere, tra cui quello di un ragazzo che sale sul palco, suona con loro e riceve una chitarra in regalo. Neppure tu sai se è sogno o realtà, forse sei solo lì sul limite di entrambi, ma non importa, quello che conta è l’emozione perché è un po’ come se la chitarra la stessi ricevendo anche tu. 

Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, un bagno di folla eterogenea si muove attorno al palco per ascoltare prima i Placebo e poi i Muse. Brian Molko domina visivamente più maturo, un look diverso da quello più androgino che lo caratterizzava all’inizio della carriera, eppure la voce è sempre la stessa, come se il tempo non l’avesse toccata: surreale e trascinante. Quella voce, quella musica, la sintonia con il gruppo fanno uscire l’energia che ha rivoluzionato il rock e l’elettronica fondendo generi diversi tra loro, la fame di espressione è la stessa del pubblico di farne parte ed essere divorato con essa. Pure Morning è l’essenza del desiderio di trascendere la propria realtà, eppure di fondersi contemporaneamente con i corpi nell’arena che si muovono, sudano, mentre le labbra biascicano parole e si preparano all’arrivo dei Muse, che dimostreranno di essere un motore che gira ai massimi livelli. Il pubblico è ipnotizzato dall’intensità dell’esibizione di Matt Bellamy, Dominic Howard, Chris Wolstenholme con Dan Lancaster a cori, tastiere e sintetizzatori, rimanendo, però, come sospeso nelle ballate centrali. Delle luci fredde accolgono suoni perfetti, scenografie tra il teatrale e il futuristico, effetto alimentato anche dell’outfit del gruppo che si muove in una scaletta che tocca tutta la carriera per offrire, poi, in anteprima il brano Will of the People, parte del loro nuovo progetto in uscita ad agosto. La serata si chiude tra sorprese e fuochi d’artificio, in un’aria piena di note, che ti porti a casa, sulla pelle con tutta la polvere, nei sogni del giorno dopo. 

Della terza serata sono padroni i Red Hot Chili Peppers che, nonostante la lunga esperienza musicale, si esibiscono con la stessa sfrontata follia adolescenziale che li ha sempre caratterizzati davanti agli occhi dei fan mentre accolgono a braccia aperte l’intro funky rock esplosa nell’aria per saltare poi su Can’t Stop. Flea, Smith, Kiedis e Frusciante dimostrano che la musica è la migliore distrazione per il tempo e non farlo passare, perché sembra che niente abbia intaccato la loro voglia di dare il massimo. Come per gli altri gruppi, il concerto è un balletto tra grandi hit e nuove canzoni dove la band vibra in lunghi momenti strumentali a tratti psichedelici. Ma è soprattutto Frusciante che si concede al pubblico rapito dal chitarrista che regala assoli di pura adrenalina, la stessa con cui si chiude il concerto attraverso i colpi che a me sembrano infinti di By The Way, e i corpi si muovono ad ogni battito, forse è il cuore, oppure il piede di chi ho accanto che colpisce, ma non importa, quello che conta è essere lì e vivere quella musica che scava dentro di te per tirarne fuori tutto ciò che puoi dare, anche se non sai esattamente cosa puoi dare. 

Mentre te lo chiedi, passa la notte, il sole accoglie gli stivali anfibi che si avvicinano all’arena incuranti dei tantissimi gradi e dell’afa che li circonda. Ti chiedi come possa essere possibile, ma la risposta sta tutta lì, nel metal e nel nome di una delle band che ne ha fatto la storia: i Metallica. Il nero domina più che negli altri giorni, su persone di età ed estrazioni diverse, mentre i colori, invece, li raccogli dai più svariati tatuaggi, la voglia di sentirsi parte di un insieme sta nei piercing, mentre l’attesa si mescola al sudore, ma ne vale la pena, perché da lì a poche ore la Visarno Arena sarà invasa da fiamme sonore. Aprono i Greta Van Fleet, gruppo divisivo tra puristi e nostalgici, tra apprezzamenti, perplessità e critiche, ma loro sono lì, su un palco dove ancora molti possono solo lontanamente sognare di salire, quindi suonano e se ne fregano, per loro è importante vivere il momento e lo fanno con dignità anche se ben sanno che è il pubblico freme per vedere James, Kirk, Lars, Robert, che suonano a Firenze per la prima volta. Quando i Metallica salgono sul palco, la tensione sale vertiginosamente, il boato dei fan sovrasta l’intro per un attimo, qualcuno piange dalla gioia. Forse è per questo che i maxischermi inquadrano sempre e solo loro, o forse perché non puoi staccare gli occhi e le orecchie da quello che succede lassù mentre respiri quello che succede sotto il palco. Whiplash racconta è potenza senza compromessi, non c’è la ricerca della foto da social e dello sguardo piacione, mentre un attesissimo assolo di James con Nothing Else Matters scioglie pure una cinica come me. Quella che vedi sul palco si chiama voglia di esistere e loro lo fanno attraverso la propria musica lanciata a mille, e sai che anche quando tutto sarà finito e le luci saranno spente, quella voglia di essere ti sarà già entrata dentro per non lasciarti più. Che piacciano oppure no, sono la storia della musica, e ti rendi conto del perché. 

Infine, ecco quello che rimane di Firenze Rocks 2022: tante parole, recensioni che scivolano tra l’approccio tecnico e il percorso emozionale. Ma come potrebbe essere altrimenti? Si sono esibite delle vere e proprie macchine da guerra che tra successi intramontabili e nuovi progetti hanno dimostrato a tutti che il tempo è la musica che ne fai, e che chi li vorrebbe pallidi ricordi di loro stessi, dovrà ancora aspettare un bel po’ per avere soddisfazione. Tuttavia, l’aspetto più bello di tutta questa esperienza sono state le persone, parlare con loro condividere quei momenti al limite tra la resistenza fisica e l’apertura di tutte le sensazioni che pensavi sopite in questi due anni. La bellezza dello sguardo appena diciottenne di Martina venuta dal nord che con gli amici voleva vedere dal vivo i gruppi che i genitori le hanno fatto ascoltare fin da piccola e che si “Godranno con qualche video”. Oppure la wish list di canzoni dei RHCP che avrebbe voluto sentire Andrea mentre sognava il concerto mangiando un panino alla poca ombra di un albero in attesa dell’apertura cancelli. La famiglia che fuori dalla Visarno Arena ascoltava i concerti insieme ai figli, perché “Comprare l’abbonamento per i quattro giorni ora è un po’ troppo per le nostre tasche, ma alla musica non si rinuncia”. Oppure come Maurizio e Gabriella che tramite i social hanno fatto vivere le loro idee e le loro sensazioni, con lo sguardo di chi ancora non ha perso la voglia di farsi affascinare, coinvolgere e condividere ciò che la musica può fare. E così molti e molti altri, che una semplice recensione non può racchiudere in tante poche parole, ma che spero vi abbia fatto percepire nel suo immenso bagliore, perché alla fine, Firenze Rocks non è solo la musica, ma è la gente che la respira e ne fa parte. 

 

Alma Marlia

Green Day “Father of All Motherfuckers” (Reprise Records, 2020)

2020 Ritorno al futuro

 

L’adolescenza è una situazione transitoria nella vita di tutti, eppure mentre la vivi sembra non finire mai. La ribellione la fa da padrone, verso la famiglia, la scuola, la società. 

Chi ha vissuto gli anni ‘90 come adolescente ricorda quanto eravamo incazzati e rissosi. Non volevamo saperne di adattarci alla società e la musica era il nostro mezzo per comunicare questo disagio.

Grazie alla “new punk explosion”, ossia la corrente di pop punk iniziata proprio durante quegli anni, la rotazione giornaliera di MTV era piena di gruppi capitanati da personaggi strambi, che urlavano inni all’apatia e al disagio verso il mondo. Nelle nostre menti risuonavano i NOFX, Offspring, Pennywise, Rancid, ma la band che più ha caratterizzato la scena pop punk di quegli anni son stati i Green Day.

Nel ‘94 esplose Dookie, terzo album di questo trio di pazzi furiosi, ma fu Basket Case il brano più iconico della band.

Per tutti quelli che son cresciuti al grido di “Sometimes I give myself the creeps, sometimes my mind plays tricks on me” l’uscita del nuovo disco di questo gruppo è un po’ come la telefonata di un ex fidanzato che non senti da anni. 

Father of All Motherfuckers (letteralmente Padre di Tutti gli Stronzi) è la rappresentazione di quello che sono stati i Green Day per noi adolescenti problematici che son cresciuti con quel tipo di rabbia che non svanisce con l’età adulta, ma rimane dentro e si ripercuote nella vita di tutti i giorni.

La paura maggiore (per gli amanti del genere e della band) era trovarsi davanti un Billie Joe Armstrong cresciuto e cambiato. Ma ci sorprendono sempre ‘sti pazzi, e questo nuovo lavoro musicalmente non è molto lontano dalle loro sonorità e contiene testi significativi.

Il brano di apertura (che prende il nome dal disco) possiede un’alone indie rock, e con la frase “I live inside of us” sintetizzano al meglio quasi trent’anni di carriera.

Le schitarrate indie rock proseguono nei brani seguenti Fire, Ready, Aim, Oh Yeah (“I am a kid of a bad education” e noi voliamo) e Meet Me On The Roof.

Si ritorna alle radici punk con I Was A Teenage Teenager, l’intro composto dal basso e voce ci fa rivivere l’adolescenza, le crisi di nervi, l’insicurezza e la nostra maleducazione civica.

Stab in you heart è un omaggio al rock’n’roll, con cori, giri di chitarre ed assoli tipici del genere. Sembra di trovarsi nella scena di Ritorno al Futuro dove Marty intona Johnny B. Goode davanti alle espressioni attonite dei presenti.   

La vecchia sensazione di essere dei perdenti che non fotteranno mai la reginetta della scuola continua a perseguitarci anche da adulti, e in Sugar Youth riversano tutto la loro voglia di scatenare l’inferno. 

Junkies On a High oltre ad essere coerente con il loro stile (ci ricorda vagamente Boulevard Of Broken Dreams)  è  il manifesto della concezione di vita per Billie: “My downward spiral / Rock’n’roll tragedy / I think the next one could be me / Heaven’s my rival / I sing in revelry”. Molti perbenisti odieranno questa canzone, dove vi è quasi un invito ad assumere droga, a lasciare che il mondo vada a puttane senza muovere un dito.                                  

I Green Day sono l’emblema della rabbia giovanile e dell’abuso di qualsiasi sostanza, li ritroviamo anni dopo, sempre pronti a farci scatenare con pezzi ritmati. Il disgusto per il mondo non è cambiato, ma ha lasciato il posto ad una strana consapevolezza di quello che è stato, senza rinnegare gli errori commessi e il bisogno di esprimere sentimenti quasi mai positivi.                                                                                                     

Questo album è un ritorno alle origini musicalmente parlando, il riassunto di una vita passata a sbroccare sul palco, a vomitare disagio. Sono stati un supporto alla nostra adolescenza, ci hanno tolto la solitudine e regalato comprensione. Ora che siamo adulti ci stanno comunicando che loro son qui, e non intendono abbassare la testa.

 

Green Day

Father of All Motherfuckers

Reprise Records

 

Marta Annesi