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Tag: greg dulli

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” (Heavenly Recordings, 2020)

Catabasi Elettrificata

 

Mark Lanegan si aggiunge alla folta schiera di personaggi che possono vantare una gita agli inferi. Con un paio di differenze: non è il protagonista di un racconto, è l’autore. E là sotto, invece di amori perduti e antenati, è andato a cercare gli anni della sua gioventù, e si sarà fatto un paio di whiskeys, prima di risalire. 

Il nostro eroe viene dallo stato di Washington, che, evidentemente, qualcosa nelle falde acquifere deve averlo, dato che produce ottima legna e artisti leggendari.
Un’infanzia infelice, un’adolescenza turbolenta, un gruppo seminale e profetico, gli Screaming Trees, una Seattle come palcoscenico, prima che diventasse caput mundi del grunge. Anche se nel movimento lascia una zampata, facendo vibrare i vostri subwoofer a colpi baritonali, perfetto contraltare per Layne Staley nel disco dei Mad Season.

Droga, alcool, e un discreto numero di “affari loschi”, come li definisce lui stesso, ridendo, mentre parla del suo libro autobiografico Sing Backwards and Weep. Proprio questa sua ultima fatica letteraria è al centro della genesi dell’album Straight Songs of Sorrow.
Lo stesso Lanegan racconta che il libro non ha portato la catarsi sperata. Anzi, lo descrive come un vaso di Pandora colmo di dolore e miseria. Ha però portato un album in dono, quindici tracce figlie di un lavoro di introspezione che ha trovato uno sfogo inizialmente nelle parole, forse non sufficienti, forse compagne non così abituali. L’album nato tra le righe dei capitoli è composto di canzoni dedicate ai personaggi del libro, molti dei quali non ci sono più. È una personalissima Spoon River per Lanegan, inspiegabilmente ancora in piedi, microfono in mano. Non c’è resilienza, né resistenza, qui si canta di una insperata sopravvivenza, di anni difficili, di una tendenza autodistruttiva che ha sbagliato mira.

Questo viaggio nei ricordi e nelle cicatrici è accompagnato da alcune collaborazioni, Greg Dulli su tutti, e da stili inizialmente antitetici, elettronico e folk, presenti però nella carriera di Lanegan, che lentamente, nel percorso del disco, si fondono sempre più, a volte dividendosi la scena (sonora), a volte prevalendo sull’altra.

L’overture di I Wouldn’t Want to Say spiazza per la dissonanza tra cantato e base synth, ma lentamente, entrando nel disco, si prenderanno le misure dei suoni di questo strano luogo della memoria. È un inizio fatto di antitesi, di stili e di ritmi, che ci conducono fino alla coppia di canzoni che sono la quintessenza dell’album, Stockholm City Blues e Skeleton Key, un destro-sinistro che lascia al tappeto. Nella prima si elabora il rimorso per tutto ciò che è stato, nella seconda, sette minuti di ballata, si cerca la redenzione, partendo da un caposaldo: “I’m ugly inside and out”, e da una domanda senza risposta: “I spent my life trying every way to die. Is it my fate to be the last one standing?”. 

È come passare il dito lungo i lembi di una cicatrice e sperare di dare sollievo. Al limite si tracciano i confini di un dolore passato, ma di pace non c’è traccia, c’è solo una rinnovata consapevolezza. 

Cito perché notevoli Ketamine, dedicata a un amico che chiese, dal letto d’ospedale in cui giaceva, della ketamina, al cappellano giunto a dare conforto e At Zero Below con Greg Dulli, una ballata folk che lascia sottopelle un battito poco analogico.

Il disco è buio, è blu di fumo di sigaretta, ruvido come le guance di Lanegan, che più passano gli anni più mi appare come un ibrido tra Jack Palance e HellBoy.
È un’opera che racconta senza indorare, che però del raccontare fa il suo perno. La parte musicale si esalta quando le due anime, acustica ed elettronica, trovano il modo di fondersi e trovo affascinante, se voluto, l’evoluzione interna di questo processo nel percorso delle quindici tracce. 

È una discesa negli inferi personali di Lanegan, ma con una guida esperta che ha addomesticato i propri demoni, prendendoli per stanchezza. 

 

Mark Lanegan

Straight Songs of Sorrow

Heavenly Recordings

 

Andrea Riscossa