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Tag: Hakupan

Il Desiderio Che Mi Frega

Accade.

Ogni tanto accade.

E forse è l’unico motivo per cui talvolta mi avventuro ad ascoltare musica nostrana.
Accade che un disco d’esordio solletica territori condivisi, conoscenze, immagini e stupisce per la qualità sia musicale sia di scrittura. Ma se nel primo album si aveva l’impressione che il gruppo avesse l’urgenza di presentare la propria visione del mondo, tritato, masticato e digerito da una profondità di analisi quantomeno notevole, nel secondo lavoro si contano diverse canzoni che iniziano a dare forma a una sorta di visione, di lettura del mondo attraverso il rapporto tra artista e realtà. Accadeva già nell’album di esordio, ma era fenomeno più sporadico. Qui la dualità è il tema. Nel senso più classico ma anche per vie postmoderne.
Con ordine.
Le Viadellironia sono Maria Mirani, Giada Lembo, Marialaura Savoldi e Greta Frera, prodotte dalla Hukapan, dove sono di casa gli Elio e le Storie Tese, tanto che a produrre il disco è proprio (nuovamente) Cesareo. Al disco contribuisce Edda, come già per il primo disco, autore di una intera traccia, Tu Mai, e spicca la partecipazione di Peaches, cantautrice canadese icona dell’electroclash nonché della comunità LGBTQIA+, nel pezzo forse più riuscito dell’album, Sodoma. 

Musicalmente siamo nel secolo scorso, perché le ragazze pescano a mani basse nell’alt rock italiano anni novanta, fedeli alla linea tracciata nel primo lavoro, dove gli echi di Afterhours e soci erano palesi. Sia chiaro, non suona vecchio, suona solo bene. Che vuol dire saper gestire le fonti e il vocabolario, creando un’impalcatura più che stabile per i testi che sono il vero punto di forza della band.
C’è uno spettro di Herman Hesse che si aggira per l’album, fin dalla prima traccia, Boccadoro. Il suo Narciso e Boccadoro, libro uscito nel 1930, torna a dare vita ad un tema archetipico, quello dell’eterno dualismo tra ragione ed emozione, tra razionalità e passione. Boccadoro per le nostre diventa una ragazza, giusto per poter aggiungere alla ricetta nuove sfumature, che, causa machismo inconsapevole, erano assenti tra le pagine di Hesse.
Siamo sul campo di battaglia dell’eterno scontro tra apollineo vs dionisiaco, mentre il tema dello specchio viene evocato per la prima volta, per ricordarci che Narciso era narciso, che Wilde lo ha reso magicamente perfido e che la scatola dei riferimenti è spalancata sul tavolo, vicino alla frutta [cit. di cit. al cubo].
Boccadoro è la nostra Virgilio, ci aspetta alle porte del disco, lei è l’eros, la curiosità per il mondo, è il desiderio che ci frega, prima che il buon Narciso, freddo e razionale, ci riporti con i piedi per terra.
Il dualismo viene cantato con gioiosa consapevolezza nella title track, Il desiderio che mi frega.
Nella seguente Tanqueray i vapori di Baudelaire appannano di nuovo specchi evocati nel testo, mentre lentamente scivoliamo dalla figura letteraria di Narciso al più triviale narcisismo. 
Sodoma mi ha dato una visione, con le ragazze a Sanremo, Peaches decisamente non consona alla fascia oraria e al target, ma l’Ariston in piedi a ondeggiare sulla cassa dritta del pezzo. Pubblico per altro ignaro del testo e del suo significato, perfettamente in linea con quanto narrato poco sopra.
Pezzone, si direbbe, lo candido a secondo singolo dell’album.
Si riposa, nella cinematografica Casablanca, che sa di otium e di sospensione, forse utile alla consapevolezza che sembra arrivare nei brani successivi: Il pianto delle cose e Corallo.  Nel primo la nostra Boccadoro sembra prendere coscienza della propria natura di artista, della condanna all’empatia, al sentire tutto, anche le “cose”, a vedere chiaro e limpido lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Così in Corallo ci si chiede se non si è cercata la verità nel posto sbagliato, con la conseguenza di aver perso la guida, la strada, il filo della realtà.
Edda aggiunge un brano e un punto di vista nel disco, chiuso poi dal singolo uscito a febbraio ’22, Sade Valentino, che anticipa il racconto del dualismo, entrando perfettamente nel tema affrontato, presentando l’affascinante rapporto tra una ragione raffinata e “alta” e un corpo che non disdegna il piacere della carne. La mediazione tra Narciso e Boccadoro passa per il latex. 

Questo è un disco intelligente. Evoca con musica e parole immagini, miti e personaggi. Crea un piccolo mondo abitato da dubbi e citazioni. Ma soprattutto è una piccola lectio magistralis di trenta minuti sulla presa di coscienza della propria fallibilità, della giustamente squilibrata dualità che vive in noi. È l’autocoscienza che passa anche per la via dell’(auto)ironia a creare gli anticorpi più potenti, perché tra Narciso e Boccadoro non vince nessuno se non alla fine del libro di Hesse, quando tutti, ma soprattutto Boccadoro, imparano a leggere l’esperienza della vita senza un rapporto bulimico con la realtà.
Che poi, contorsioni mentali a parte, quel Sade Valentino alla fine del disco mi ha ricordato l’ultima battuta di Eyes Wide Shut.
Mo’ me lo segno. 

Viadellironia
Il Desiderio Che Mi Frega
Hakupan

Andrea Riscossa

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto” (Hukapan, 2020)

Saturno Notturno

 

Bernhardt, il pezzo che apre questo disco, in poco meno di tre minuti, presenta una delle chiavi di lettura della prima opera delle Viadellironia, e lo fa con una densità di riferimenti impressionante, sia letterari sia musicali, e con un peso specifico del testo che cresce per accumulo durante lo scorrere delle immagini evocate. Il sottile disagio che si prova nel constatare la propria inadeguatezza a un mondo molto più basso delle proprie aspettative, reali e culturali, è uno dei temi: vorremmo essere Sarah Bernhardt alla prima della Tosca, ma siamo mosche, che contemplano la merda.

Un bellissimo biglietto da visita.

Benvenuti sulla giostra delle Radici Sul Soffitto opera prima di Maria Mirani, Giada Lembo, Marialaura Savoldi, Greta Frera, pubblicate da Hukapan, ovvero la casa discografica di Elio e le Storie Tese – autore dell’operazione infatti è Cesareo, storico chitarrista della band milanese.
Le quattro avevano pubblicato un EP nel 2018 dal titolo Blu Moderno che presentava temi e stile di quanto poi ripreso ed esploso nel loro primo LP.

Le dieci canzoni trattano temi come la ricerca del proprio posto nel mondo, mediata da una sana e disillusa ironia, o il peso del linguaggio, che qui non è solo un mezzo per spiegare il mondo (o per spiegarsi ad esso), ma è uno strumento attivo, creatore, che plasma la realtà del narratore, ci porta una visione, un punto di vista incredibilmente a fuoco. La parola è una “diva del sonoro trapiantata nel silenzio di Cabiria”, e ancora il linguaggio “si è sporcato con quello dello scemo del villaggio”. Siamo al pop semantico, pronipote di uno schiaffo a bordo piscina dato da un giovane Moretti. Che aveva ragione allora e adesso ancor di più.

Stupisce l’età delle ragazze, e stupisce la mole di riferimenti evocati nei pezzi, che contribuisce a definire i confini degli scenari messi in note. Ci sono idee, opinioni, una forma di stanca saggezza che filtra la realtà che sta lì, aldilà del letto.
E il letto è uno dei tanti luoghi che ritornano spesso, quasi a dare una geografia al lato onirico dei pezzi, a giustificare lo spleen cosciente, dotto e lucido della voce narrante.

Un piccolo Gregor Samsa pieno di accidia che attende di comprendere se la metamorfosi debba avvenire fuori o dentro sé. Chissà.

Musicalmente siamo tornati indietro di trent’anni, che detta così pare una sconfitta e invece è qui il risultato di una fine ricerca di una forma che sposi forma e testo. Il cantautorato primi anni novanta, indie, tra Afterhours e i più tardivi Baustelle, ma nel lento e scandito cantare si sente qualcosa di più antico, senza scomodare nomi sacri citiamo solo Genova come riferimento. Le due scritture hanno però un piede aldilà dell’oceano, perché spesso ci sono echi ai progenitori del genere, da PixiesSonic Youth ed anche la scrittura talvolta sembra seguire modelli anglosassoni, pur rimanendo, a livello di contenuti, attaccatissima alla nostra cultura.

È un disco notturno, un disco pieno di morte, di identità spigolose, un disco che parla alla testa e che suona alla pancia. E la sintesi, anzi la sincresi tra i due moti avviene a metà disco, con la Canzone Introduttiva, una marcia blues solenne e da pelle d’oca, in cui riescono a citare anche Primo Levi, ed è l’unico momento in cui la voce della Mirani graffia e sporca la sentenza cantata.

C’è il tema del tempo e della memoria, in La Mia Stanza così come in L’Architetto, dove tempo e relazioni producono paradossi alla Escher, anche se a fermare la possibile spirale ci pensa Mangoni (che architetto lo è davvero) la cui sola presenza fa vacillare ogni pretesa di serietà. La collaborazione più interessante si trova in Ho la Febbre in cui troviamo Edda, in un riuscito duetto/dualismo che è uno dei momenti di scrittura più alti dell’intero disco.

I riferimenti letterari si manifestano nel trittico finale: Simile a un Morente, Stampe Giapponesi, Figli della Storia. Qui siamo nel decadentismo, nella Parigi di Huysmans, siamo ai saturnali, si arriva a citare Baudelaire in modo – quasi – letterale (i paradisi artificiali e tutti i mali degli amanti).

Il tutto si chiude con una domanda: “Com’è possibile far parte della storia / se non assomigli a niente / e se sosti quasi sempre / sulla soglia?”.

È stato un viaggio profondo, interessante, arricchente. Un continuo evocare fantasmi ed echi, a sostenere una visione molto personale della realtà.

Da risentire ma soprattutto da vedere, il giorno in cui di nuovo ci sarà concesso l’antico lusso dei concerti.

 

Viadellironia

Le Radici sul Soffitto

Hakupan

 

Andrea Riscossa