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Jaspers, quelli che…

“UN INCONTRO CASUALE DI SEI MOLECOLE CHE SCONTRANDOSI CREANO REAZIONI STRANE E INASPETATTE”

I Jaspers non sono solo la band ufficiale del programma sportivo di Rai 2 “QUELLI CHE IL CALCIO” ma sono sei ragazzi che si sono conosciuti per caso, erano tutti studenti del CPM MUSIC INSTITUTE di Milano dove un po’ per gioco e un po’per scherzo hanno iniziato a provare, fino a scegliersi reciprocamente e definirsi come i più pazzi della scuola.

Non a caso hanno scelto questo nome, un chiaro omaggio al filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers: “quale nome se non quello di uno psichiatra per descrivere, rappresentare dei pazzi?” hanno confessato a Vez Magazine.

“Solo insieme possiamo raggiungere ciò che ciascuno di noi cerca di raggiungere” (Karl Theodor Jaspers)

 

Jaspers 2

La band nata 10 anni fa, nel 2009 è composta da Fabrizio Bertoli (voce), Giuseppe Zito (voce), Erik Donatini (basso), Eros Pistoia (chitarra), Francesco Sgarbi (tastiere) e Joere Olivo (batteria).

Sin dal loro primo live ognuno di loro è salito sul palco con un proprio alter ego e un diverso costume di scena. Così è nato anche il loro primo album “Mondocomio”, un concept album incentrato sulla pazzia e la malattia mentale che affligge i nostri giorni.

Ora, sette anni dopo il loro debutto discografico avvenuto nel 2012 sono tornati con un nuovo album “non ce ne frega niente” che è anche il titolo dell’omonimo primo singolo estratto.

Si tratta di undici brani che ripercorrono insieme un viaggio, e rappresentano per la band un punto di arrivo definitivo da una parte, di partenza dall’altra. Un album che contiene la vera essenza dei Jaspers, la loro identità, l’essere eclettici e soprattutto uscire fuori dagli schemi come solo loro sanno fare. Un album in cui si nota la crescita e la maturazione artistica accompagnato dalla voglia e la continua ricerca di innovazione.

Il singolo omonimo “non ce ne frega niente” rappresenta il perfetto lancio per l’album. Uscito lo scorso tre maggio, è un brano pop/rock che descrive la nostra società così frenetica, distratta e indifferente. Menefreghista appunto.

Uno spaccato delle generazioni più giovani e non solo che ormai vive la propria vita attraverso un telefono e i social. Siamo sempre più avatar di noi stessi, ci nascondiamo dietro il nostro ego, sempre più privi di emozioni, sentimenti ed empatia nei confronti di chi abbiamo di fronte e questo crea inevitabilmente dei problemi per e con la collettività.

Come ci ha raccontato Giuseppe quel “non ce ne frega niente” diventa un vero e proprio motto.  Autentico come la volontà di andare verso nuove strade, percorrere un nuovo viaggio magari anche rischiando e dall’altra è la vera, reale fotografia di un comportamento sempre più attuale.

Album e singolo vogliono strizzare provocatoriamente l’occhio verso una sempre più presente indifferenza generale di questi tempi così moderni ma anche così bui dove si è (purtroppo) più interessati ai like e al mondo virtuale che alla quotidianità concreta e reale.

Un album che è frutto di collaborazioni importanti tra i Jaspers e un super team di quattro produttori: Cass Lewis  (Skunk Anansie), Diego Maggi (Elio e Le Storie Tese), Larsen Premoli (Destrage, Jarvis) e Jason Rooney (Negramaro)

Non a caso la prima e l’ultima canzone della track list dell’album rimandano e riassumono questo viaggio di formazione della band: “L’Happiness” è un brano ricco di simpatia, ironia ed energia positiva che sarà anche il prossimo singolo ad essere estratto dall’album.  Scritto da Franco Mussida (PFM) trova il featuring con Paolo e Luca conduttori di “quelli che il calcio” dove i Jaspers sono resident band dal 2017. Mentre si conclude con una versione alternativa e inedita di “palla di neve” , precedentemente eseguita solo dal vivo e che da due anni a questa parte è la sigla finale sempre del programma di Rai 2.

Cosi le sfumature e le molte facce di questa band molto versatile si riversano tutte in questo album, un disco divertente e sempre vivo. Un album in cui anche la scelta compositiva è stata cangiante, proprio come i cambi di abiti di scena quando si esibiscono live e che rispecchia il perfetto stile Jaspers.

Infine, a proposito di progetti futuri ci hanno rivelato che la loro intenzione è quella di continuare a scrivere brani, fare tour in modo tale da portare la loro musica a più persone possibili, magari negli stadi. Ci stanno lavorando, intanto le date che li vedranno protagonisti questa estate le trovate sul loro sito www.jaspersofficial.com

Originali, camaleontici e riflessivi, you rock Jaspers!

Ivana Stjepanovic

 

JASPERS 1

 

ALBUM TRACK LIST

L’HAPPINESS feat. Luca & Paolo

Mr. MELODY

IN FONDO AL MAR

MASTICA

IL CIELO IN UNA STANZA

TONALITà

NON CE NE FREGA NIENTE

VODKA E NOCCIOLINE

MILIONI DI STELLE

ECLISSI DI SOLE

PALLA DI NEVE – EXTENDED VERSION LIVE

 

 

Gli HANA-BI ci presentano lo spleen rock partenopeo.

E’ già la seconda occasione in cui mi capita di farmi sorprendere dal sound e dalle proposte musicali di una band partenopea.

Si parla di rock.

La prima volta, solo poco tempo fa, sono rimasta folgorata dalla assatanata performance dei The Devils, un duo trash rock ‘n roll: un’immagine dura e selvaggia, nonché parecchio profana, come piace a me. Gruppo spalla dei Mudhoney al concerto di Bologna al Locomotiv Club.

Ora invece sono qui per parlarvi degli Hana -Bi, il cui leader, Johnny Darko, voce e chitarra del gruppo, non con poche difficoltà, ha portato finalmente alla produzione e diffusione su diverse piattaforme mediatiche dei primi brani della band. Band che conta altri due protagonisti: Luca Fumo, bassista e Alex Denial, batterista.

Dico, “non con poca difficoltà”, perché portare quello che loro stessi hanno coniato come spleen rock, un genere di rock psichedelico, che mischia grunge, atmosfere dark e malinconiche non è facile.

Soprattutto in Italia, e questo tutti lo sanno. Quello di cui ci parlano, spiegandoci cosa sia per loro il rock, lo fanno raccontandoci le loro origini e di come per loro la musica non si può tanto classificare in un genere, ma in una sensazione che deve arrivare a chi la ascolta.

 

Partiamo, innanzitutto, dal nome della vostra band: HANA-BI significa “fiori di fuoco” come suggerisce il film giapponese del 1997 o ha tutt’altre origini? Esatto, è una di quelle poche volte che indovinano subito le origini del nome della band! Sono un cinefilo e dovevamo scegliere il nome della band, io proposi fra vari nomi fra cui questo e piacque subito agli altri perché aveva un qualcosa di esotico, ma celava un significato più profondo, i 2 kanji rappresentano 2 cose opposte, Il fiore, fragile, delicato, bello e il fuoco, distruttivo e pericoloso. Questi 2 opposti rispecchiano la nostra musica che ha lati più calmi, riflessivi, “fragili” per poi sfociare in momenti più duri e rabbiosi. Insieme i due simboli stanno a significare  “Fuochi d’artifcio”, il logo che rappresenta questi due simboli opposti, che ho anche tatuato sulla schiena.
Siete un trio di Napoli, giusto? Come vi siete conosciuti e, soprattutto, avevate tutti e tre le stesse influenze musicali o, per iniziare a comporre, avete ognuno “portato dentro” le proprie?

Sì Napoli e zone limitrofe. La line up attuale è nata dopo più di un anno di fermo, nel 2017. Ero alla ricerca di un nuovo bassista e batterista e bazzicavo locali dove si fanno jam e si conoscono musicisti. Mi sono ritrovato più di una volta a suonare con Luca, il bassista, tant’è che un giorno decisi di presentarmi e chiedergli di suonare negli Hana Bi ma inizialmente non accettò subito; poi un giorno mi chiese per curiosità di ascoltare i miei brani e decise di entrare a farne parte. Il batterista, Alex, era una conoscenza di Luca con cui suonava già in un altro gruppo e lo convinse in breve a completare la formazione degli Hana Bi. Tutti e tre adoriamo il rock, ma abbiamo un background molto diverso: il batterista ha influenze jazz e prog rock; il bassista ascoltava molto Nirvana, Placebo, Cure (che sono gruppi che piacciono anche a me). Io ne ho altre ancora: sicuramente la new wave/post punk con i Joy Division in primis poi I Cure e tanta musica Goth, il post rock (amo i Sigur Ros), Smashing Pumpkins e tutto quel rock post-grunge anni della seconda metà dei 90 etichettato come alternative, che era difficilmente catalogabile; fra le mie preferenze musicali aggiungo anche lo shoegaze/dreampop, gli Slowdive su tutti. Quindi abbiamo influenze abbastanza diverse il che rende tutto più vario e con più sfumature.
 

 

Da quanto tempo esistono gli HANA-BI? Avete già prodotto o state per produrre qualcosa? Trovate che sia difficile introdurre nel nostro territorio un prodotto di rock psichedelico come il vostro?

Esistiamo dal 2014 ma sono stato fermo per due anni ad intervalli vari, ho sempre avuto problemi con membri che lasciavano il gruppo per motivi ahimè lavorativi; sono tutti pian piano emigrati e mi toccava sempre ripartire da zero, cercare nuovi membri fargli imparare il repertorio e così via. Le cose stanno andando bene da un paio di anni a questa parte e infatti abbiamo appena prodotto il primo EP: HANA BI presente su varie piattaforme quali Spotify, Itunes, Bandcamp,Soundcloud, YoutubeMusic ed è uscito il nostro primo singolo e video LABYRINTH. Sì è molto difficile far attecchire questo tipo di musica: in questi cinque anni in cui ho coltivato questo progetto, ho visto affermarsi varie “mode” e generi musicali, che ciclicamente si sono alternate nel tempo, ma mai un genere come il nostro, che chiamiamo “spleen rock“. Abbiamo voluto inventare noi questo termine per indicare il tipo di stato d’animo e mood in cui è avvolta la nostra musica: spleen inteso come malessere esistenziale, come disillusione. Al momento, nei locali soprattutto, si ascolta spesso musica minimale, acustica, folk, cantautorale, diciamo così… Un genere che non cede sulla scena musicale è anche il metal, il punk e in parte lo stoner: seppur di nicchia questi generi sono sopravvissuti ed hanno uno zoccolo abbastanza duro di seguaci, esiste un certo “movimento”, un circolo di sostenitori fra fan, etichette e organizzatori che mantengono la scena viva. Nel mezzo ci siamo noi ed altri come noi che fanno un qualcosa di diverso che non hanno già una scena, un background e devono crearseli. Siamo piccole isole che provano a galleggiare. Inoltre i locali che fanno un certo genere di musica alternativa stanno chiudendo qui dalle nostre parti e in questi anni ne ho visti sparire diversi. Farsi avanti in questo tipo si situazione diventa sempre più complicata, ma noi non molliamo! In maniera più ampia posso dire che l’ Italia è un paese che ha un certo gusto musicale, parlo di grossi numeri, per cui è difficile emergere se fai un certo tipo di musica, ma il mio fine, attualmente, è quello di creare una buona base, anche se di nicchia, e farlo approdare fuori da questo contesto, anche all’ estero.

 

hanabi 2

 

Ho ascoltato le vostre canzoni: alle mie orecchie è arrivato un sound bello convincente. Avete già riscontrato successo nei live e finora dove avete suonato oltre che Napoli e dintorni?

Ti ringrazio! Credo molto nel nostro sound, ci abbiamo lavorato per anni ma ho sempre avuto le idee abbastanza chiare su come dovevano suonare  soprattutto per quanto riguarda i suoni delle chitarre, ma in generale ho sempre avuto chiaro la direzione da prendere. Sì,  è un periodo in cui ci siamo accorti che le cose stanno cambiando, abbiamo fatto da poco un live per esempio, in provincia di Napoli, nemmeno in città, ed è stato un successo: il locale era pieno, Il che significa che pian piano ci stiamo facendo conoscere, ci accorgiamo che la gente ci segue e raccogliamo ogni volta nuovi fan,  che ci chiedono i nostri testi e cantano i nostri pezzi ai live, solo un sogno fino a qualche anno fa e mi emoziono ancora quando succede… I fan vogliono conoscere di più sulla band e ci stanno sostenendo nella promozione dell’ EP e video: non ci siamo affidati ad agenzie o altro, come sponsorizzazioni e promozioni a pagamento, ma sta funzionando tutto tramite passaparola ed è una bella soddisfazione, è un bel momento ma è comunque ancora in stato embrionale e per arrivarci abbiamo fatto anni di serate, in cui ad ascoltarci c’erano solo una manciata di persone ad orari assurdi. La classica gavetta, insomma, ma in fondo non ne siamo ancora usciti; comunque sia, questo per noi è un buon punto di partenza finalmente, è piccolo, certo, ma ce lo godiamo e penso che ce lo meritiamo. Abbiamo suonato a Roma, Potenza e in alcune zone sparse della nostra regione ma sempre a festival o rassegne varie, ancora dobbiamo fare un live nostro o comunque più sostanzioso, magari in apertura nomi un po’ più conosciuti: a riguardo, ci stiamo organizzando per la prossima stagione dove vogliamo promuovere il nostro EP in giro per l’Italia. Soprattutto speriamo di venire a suonare al nord, per ora ci stiamo scaldando qui in zona con un po’ di date, sarà una sfida ripartire da zero in posti dove non siamo ancora conosciuti, ma la cosa, non ci spaventa, anzi ci stimola. A breve suoneremo il nostro repertorio in versione semi acustica, quindi niente distorsioni e fuzz, sarà anche questa una sfida perchè dovremo riarrangiare i pezzi in chiave diversa… Staremo a vedere!

 

Ultima domanda per discostarsi dal biografico. Ci siamo conosciuti in fila ad un concerto degli Smashing Pumpkins a Bologna, non proprio dietro l’angolo per voi. Deve avere un forte ascendente su di te Mr. Corgan per averti fatto fare tutta quella strada: quanta influenza hanno i Smashing Pumpkins sulla vostra musica?

Posso dire che Corgan insieme a Robert Smith, è il mio artista preferito in assoluto, alcuni riconoscono in me il tipo di voce: in verità, non è intenzionale, cantavo così già da ragazzino prima ancora di conoscere gli Smashing Pumpkins. Quando li ascoltai infatti capii che erano il gruppo per me, perché per la prima volta sentii qualcuno che cantava in modo del tutto diverso dai cantanti sentiti fino a quel momento, qualcuno che non aveva paura di mostrare un lato delicato nel modo di cantare, cosa che già facevo io un po’ per indole un po’ per timidezza; alcuni amici sentendomi cantare mi dissero che ci somigliavo parecchio, ad ogni modo, di loro amo tutto, il suono delle chitarre, le melodie, la batteria… tutto. Su di noi musicalmente parlando penso abbiano influito sul sound, sull’uso del Big muff ed altri pedali che mi sono scelto nel corso degli anni e un certo modo di arpeggiare e posizioni strane sulla chitarra. Non ho studiato musica, non so che arpeggi faccio ma ho imparato da loro a tenere le posizioni più strane e inusuali per gli arpeggi che uso parecchio nei miei pezzi.

 

Valentina Bellini

Quando finisce la festa, Angelica e un album da scoprire

Angelica (Schiatti ndr) è una cantautrice originaria di Monza.

Conosciuta e apprezzata come leader dei Santa Margaret, gruppo con il quale ha vinto gli MTV Awards New Generation, esce nel 2019 con un nuovo album da solista Quando finisce la festa con l’etichetta Carosello Records.

Amante del vintage applica il proprio gusto retrò nella musica in maniera mai scontata e super fresca, toccando temi come la fiducia in se stessi, l’amore e l’attualità.

Un album profondo e serio che tra le pieghe di melodie ritmate e “serene” nasconde l’ambiguità della modernità e i rapporti umani che nel male o nel bene fungono da analisi per la crescita personale.

Un lavoro puntuale e preciso che mescola malinconici scenari ad aperture verso il mondo con note che scivolano via morbide e voluttuose. Talvolta ammiccanti.

L’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto una VEZ Rece-Intervista.

 

Essere una solista dopo l’esperienza con i Santa Margaret quali sentimenti e sensazioni ti fa provare? Quali sono i lati positivi e quali i negativi?

Di positivo c’è stata un’emancipazione sia professionale che personale. Sono una persona molto insicura e quindi avere la band era un po’ come avere una famiglia alla quale chiedere consiglio, chiedere appoggio. Lavorare da sola all’inizio mi fatto provare un forte senso di confusione, ero spaesata. Però alla fine c’è stata una vera e propria presa di coscienza di me stessa. È stata un’autoterapia poiché essendo da sola dovevo fare tutto da sola, nonostante la difficoltà sono molto serena perché mi ha permesso anche di capire meglio cosa mi piace e cosa no. Affinare l’estetica in maniera pura e sincera, poiché essendo in una band la mia personalità era ovviamente mitigata dagli altri membri della band.

 

Hai un gusto retrò. Racconti un mondo passato rendendolo comunque attuale ed è una peculiarità che avevi già ai tempi della band, anche se con delle sonorità più calde. Ora invece è come se avessi scarnificato quello che avevi creato prima. Ho percepito una sorta di voglia di eliminare la propria protezione e mostrare te stessa nella tua purezza in maniera cristallina. Sbaglio?

Ho destrutturato il lavoro di prima. È vero, ho scarnificato i miei lavori precedenti. In precedenza i lavori si basavano su un personaggio, ovviamente nato dalla mia persona poiché non era un personaggio inventato. Ora invece addio al personaggio e ci sono semplicemente io senza la “maschera”, il filtro del personaggio che mi ero creata all’interno della band. Ho voluto abbandonare il personaggio abbandonando quindi anche la protezione che il personaggio stesso ci concede di avere.

 

Tra le canzoni che mi hanno colpito c’è Guerra e Mare. Nel ritornello riecheggia la frase  “Compriamoci un’estate in pieno inverno” e si parla di persone che se hanno paura vanno al mare oppure fanno la guerra. All’ascolto sembra gioviale e tranquilla quando in realtà nasconde un messaggio anche severo nei confronti della nostra vita day by day. Persone che hanno paura del diverso e che rifuggono ciò che non conoscono voltandosi dall’altra parte e scappando oppure che lo attaccano. E se come al solito premendo play ci illudiamo di restarcene rilassati ascoltando un brano da “disimpegno e diletto” in realtà alla fine ci sentiamo quasi ammoniti. Sempre in maniera raffinata, chiaramente.

Cosa mi dici Angelica di questo brano?  Quanto c’è della situazione italiana e mondiale attuale nelle tue parole?

Molto. C’è molto. È proprio questo, in realtà. Non puoi avere paura nel 2019 di quello che non conosci. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca nella quale se non conosci una cosa la puoi tranquillamente studiare. Una cosa ignota grazie a internet può facilmente diventare conosciuta, almeno un minimo. Inoltre è vero che la paura troppe volte non è nient’altro che una corazza che apparentemente ci fa vivere meglio. Come dire “ho paura di questa cosa e non la faccio” e sembra apparentemente di stare meglio quando in realtà non è così. Quindi scappi ma fai del male solo a te stesso impedendoti di evolvere. Oppure che fai? Attacchi ciò che non conosci. Invece di fare così dovremmo utilizzare la nostra paura come movente e stimolo alla conoscenza così che possiamo crescere e comprendere le differenze. L’ignoranza non è più una scusa e in questi anni così controversi tutto sta cambiando molto velocemente e se è vero che ci sono tanti aspetti negativi ce ne sono anche tanti positivi.

 

Nella canzone Due anni fa hai detto “ero un foglio bianco e tu mi hai scritto il mondo addosso”. È una frase che sembra introdurre ad una canzone che parla d’amore, di una storia nel momento in cui uno la sta vivendo. Poi, procedendo con l’ascolto ci si rende conto che parli del passato. Passando ad un’altra canzone inoltre, Beviamoci, viene riproposto il tema della storia passata. Il passato è un tema per te importante. Un passato che sembra solo rimpianto. O forse no. Nello stesso album quindi si parla di storie diverse ma entrambe finite. Ritieni che quindi sia più proficuo per l’arte parlare di momenti di rottura drammatici o perlomeno tristi e malinconici, oppure credi che l’atto creativo possa nutrirsi anche di narrazioni quali le giornate qualunque di un mese qualunque decantando la quotidianità?

Mi ha sempre colpito la frase di Tenco “Se sono triste scrivo canzoni, se sono felice me ne vado al mare”. Un po’ è vero, quando sei felice hai voglia di condividere la felicità anche all’atto pratico quindi di stare a contatto con le persone. Dato che la musica è terapeutica, o per lo meno per me lo è, viene quasi da dire che l’atto creativo è figlio della malinconia e di quel “male di vivere” che talvolta ti porta al raccoglimento in solitaria. Queste due canzoni che hai citato parlano di una storia finita ma c’è anche il risvolto positivo, agrodolce, perché è meglio perdersi che rimanere assieme e vivere male. In realtà queste canzoni sono come un bilancio finale più che figlie della malinconia. Un bilancio che alla fine non è negativo. È importante comunque smuovere delle emozioni con l’arte e nello specifico, con la musica anche se sono emozioni di felicità.

 

Adulti con riserva mi sembra il tuo punto di vista attuale, fai come il punto della situazione. Mi ritrovo a sorridere perché la vedo una canzone possibilista. Elenchi tante cose, ammetti la possibilità di fare qualsiasi cosa basta che lo si faccia in maniera positiva e propositiva, come un inno alla vita.

È banale da dire ma il punto di vista che si ha quando si è in mezzo ad una cosa è diverso da quello che si ha quando ci si allontana. Tutti i sorrisi che ti sei perso, le giornate e le ore che ti sei perso quando eri nel buco nero non te le ridà indietro nessuno. Quindi mentre sei nel buco nero ricorda di sorridere perché comunque passerà e quindi almeno ricorda.

 

La mia canzone preferita è Quando finisce la festa dato che mi sembra quasi che parli di me. È molto introspettiva, quasi onirica. Presenta svariati cori in sottofondo con tanti strumenti che si mischiano ad una moltitudine di voci. Sembra di fare una camminata serena in un bosco fatato. Ora cammino in questa foresta e intanto dedico del tempo solo a me stessa e a ricordarmi che io valgo. Il pezzo strumentale alla fine della canzone è un accompagnamento ad un viaggio che non sembra voler finire. Attende di iniziare nuovamente e si apre ad un nuovo inizio.

Questa canzone ricorda un periodo particolare della tua vita?

Volevo fosse un po’ una colonna sonora ad un momento che stavo vivendo. Non mi fidavo di me stessa, non mi piacevo, non mi apprezzavo. La canzone è nata da una discussione molto brutta al telefono dove mi sono state dette delle cose bruttissime. A quel punto ho capito che non meritavo delle parole così brutte e che non era giusto per me rimanerci male e rimettere in dubbio e discussione tutta la mia vita. Ma anche se sapevo che tutto era infondato sono comunque entrata un po’ in crisi. Alla fine quindi questa canzone è stata una sorta di catarsi per ritrovare il mio centro, per “ricentrarmi” e ritrovare me stessa. Doveva essere un inizio di una nuova era ricominciando a vivere tentando di fidarmi degli altri finalmente. La coda della canzone è così lunga proprio perché è una fine che in realtà non vuole finire.

 

Alla fine della canzone ci sono degli speech. Di chi sono le voci?

Ci sono Massimo Martellotta (Calibro 35), Antonio Cupertino (produttore dell’album) e ci sono anche io. Massimo e Antonio si sono messi a lavorare sull’album con grande entusiasmo regalandomi la loro fiducia e il loro entusiasmo. Per me sono stati come dei padri. Poi c’è la voce di Miles Kane conosciuto poco prima della fine delle registrazioni dell’album con il quale abbiamo iniziato a scambiare pareri e opinioni sulla musica scambiandoci registrazioni. Abbiamo anche scritto delle cose insieme. Anna Vigano’ (Verano) che fa l’entrata con la chitarra distorta sulla coda. È una delle mie migliori amiche e io la adoro. La volevo nell’album e le ho chiesto di partecipare. Poi ci sono tante voci che abbiamo preso registrando con il microfono in giro per strada.

 

Vuoi lasciarci con un messaggio?

Più rispetto e più sostegno tra le donne sarebbe importante e anche più solidarietà femminile.

 

Un album quello di Angelica che si racconta nota dopo nota invitandoti al mare, ad una festa, ad un viaggio, alla vita. Un album da portare sempre con sé.

Grazie a Carosello Records e ad Angelica per aver accettato questa rece-intervista.

 

Sara Alice Ceccarelli

A Ferrara si va “Fortissimo”

Matteo Bianchi ci racconta la sua “Penna”

 

2 DICEMBRE

 

«I don’t want to be the one / left in there, left in there»… laggiù, in una cittadina tra i campi, sul cuscino di lui lei aveva sistemato una mattina il suo pigiama, prima di andare al lavoro. Si sa quanto i pigiami siano morbidi. E magari sono quello che portiamo addosso di più sincero. Spontanei, a volte scontati. Quello che basterebbe per svegliarsi bene il primo gennaio. Il suo aveva un biscotto enorme, tante stelline e tante piccole lune su un cielo blu. E lui che con gli occhi la seguiva da mesi sul finire del turno, in mezzo alla folla degli acquisti, sapeva che ci sono cieli e notti in giro che riempirebbero una casa. Più delle luci di Natale. Notti sfogliate solo nei racconti che l’avrebbero scaldato più del solito cappotto grigio. Quello da battaglia, appeso vicino all’entrata. Di solito lei dormiva sul fianco destro, lievemente raccolta, con le braccia al petto; perciò, quando spegnevano la luce al secondo piano in una stanza tra le tante, lui le prendeva le mani e la stringeva a sé. In due si vede anche al buio, e il buio stesso si fa inconsistente. Talvolta si svegliava per assicurarsi che lei non avesse freddo, le baciava i capelli che si erano sciolti sul cuscino e tornava ad appoggiare il viso sulla sua schiena, sperando di avere altri dieci minuti a disposizione, sebbene del tempo non gli importasse più granché.

 

 

Copertina Fortissimo 1 

 

Il libro si intitola Fortissimo (Minerva), comprende un mezzo piano e si apre con dei versi degli Anthony and the Johnsons. Quali e quante musiche ci sono in questo libro?

«Il testo di Hope there’s someone si sovrapponeva a quello che sentivo per la persona di fianco a me in quel momento. La musica è la prova di una coincidenza che diventa emozione. Anche il tono e il timbro vocale erano adatti alla circostanza. Fortissimo e Mezzo piano hanno sia una connotazione fisica di spazio, legata alla percezione della realtà circostante, sia una temporale: il mezzo piano è il mezzanino di ogni condominio che consente incontri momentanei, in cui ci si dice tutto con uno sguardo. Esiste una sfumatura musicale che lega i due titoli: sono entrambi indicazioni dinamiche dell’intensità sonora e, astraendo, offrono la possibilità di dare volume alle conseguenze delle nostre azioni».

 

Se dovessi scegliere una (o più d’una) canzone da ascoltare in sottofondo, leggendo le tue poesie, quale sarebbe?

«Mi hanno accompagnato nella stesura l’intero Bon Iver, Bon Iver, Solitude di Ryuchi Sakamoto, Odradek di Alva Noto, proprio per affrontare il buio. È stata la reazione visionaria di questi artisti, ognuno con il proprio stile, a convincermi; il modo con cui si sono opposti all’incombenza del passato sul presente. D’altronde “il sogno è l’infinita ombra del vero”, scriveva Pascoli».

 

Secondo te, poesia e musica mantengono ancora oggi il legame indissolubile che hanno fin dalle origini?

«Decisamente. La prima parte del libro è una prosa poetica, vale a dire una prosa costruita mediante figure retoriche, prevalentemente di suono. Uso assonanze, allitterazioni e rime in quantità per sostenere quello che di fatto è un flusso di coscienza. Un monologo interiore che asseconda i miei stati d’animo. È il riflesso di quello che ho provato, e la musica mi è fondamentale per tenere insieme il discorso. Dove non c’è logica e razionalità, e nella poesia non c’è, la musicalità è un medium: dà alla parola lo slancio necessario per arrivare all’orecchio del lettore, non solo alla sua mente. Non applico una struttura metrica tradizionale abbastanza solida o lavorata, sono andato a orecchio».

 

E il mondo della musica e quello della letteratura trovano ancora qualche connessione?

«Sono in realtà molto scoraggiato, mi demotiva parecchio il panorama attuale, perché il punto di collisione più forte era quello cantautoriale, anello di congiunzione tra testo poetico e musicale. Siamo circondati da prove scadenti, non trovo contemporanei viventi degni di nota. Forse solo Nicolò Fabi riesce a tenere il punto, e, quando è in forma, Samuele Bersani, poiché dimostra un grande rispetto nei confronti della lingua, questo per quanto riguarda i più giovani. Guccini, Branduardi e Vecchioni sono indimenticabili soprattutto per le prime prove; Battiato e Tenco, ovviamente, e pure Gino Paoli agli esordi. Ma la cosiddetta “scuola genovese” in toto, conquistata dalla passione di De André: “Sono evidentemente fortunato – annotava sotto le ciglia – soprattutto quando riesco a trasformare il disagio in qualcosa di bello e magari anche di utile, non necessariamente di memorabile”.

Un altro filone interessante è quello che unisce il rap al poetry slam, la poesia d’occasione incanalata su un tema a richiesta. Io non sono vicino a quel metodo di scrittura: nel poetry slam la forma si impone troppo sul contenuto rischiando di impoverirlo, non solo di storpiarlo. Davanti a un impoverimento cambierei approccio, per questo non l’ho mai concepito, anche perché scimmiotta un’urgenza, è un volersi dare un tono d’emergenza che di fatto non corrisponde alla realtà. Non c’è più la ricerca di equilibrio».

 

I temi portanti del libro sono l’amore, il tempo, la quotidianità. Qual è il filo rosso che tiene tutto insieme?

«Il filo rosso della raccolta è la necessità di innamorarsi, perché spesso, anche se non sempre, innamorarsi o riuscire a innamorarsi ancora rende liberi.  Che poi sia una libertà illusoria ed effimera, che non può fare i conti con la realtà, è vero, ma l’esigenza rimane. Se vogliamo tracciare un parallelo musicale, ciò che lega i miei testi è l’innamoramento che dà il la a un sentimento amoroso, proprio come la prima nota avvia un brano».

 

Irene Lodi