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Tag: intervista

Tre Domande a: The Doormen

Come e quando è nato questo progetto?

Il nome The Doormen è stato rubato da una canzone degli Stereophonics una delle band preferite del nostro primo batterista e correva l’anno 2011 se non sbaglio. La formazione è la classica composta da quattro elementi (voce, chitarra, basso e batteria) anche se attualmente il nuovo disco è stato composto e suonato in due. Ci siamo incontrati nei posti dove si poteva fruire della musica, ai concerti, nei club e nelle sale prove. Abbiamo più o meno tutti lo stesso stile e background musicale che nel corso degli anni si è plasmato ed evoluto durante i quali le esperienze e le vicissitudini sono state numerose, sia dal punto di vista umano che artistico. Lo stare insieme e condividere ad esempio lo stesso furgone per andare in tour, suonare le nostre canzoni in giro sia in Italia che all’estero (Francia, UK) ha fatto sì che potessimo fruire di tutto ciò che ci circondava e trasformarlo in esperienza con il vantaggio di godere allo stesso sia della velocità di quando succedevano le cose e allo stesso tempo rimanere fermi per assaporare e godersi l’intero processo. Ascoltando le nostre prime produzioni possiamo dire che il nostro stile riconduce senz’altro al post-punk degli anni ’80 per poi passare al brit pop degli anni ’90 con qualche sfumatura shoegaze in certe canzoni.

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Senza ombra di dubbio sceglieremmo Glass Factory il primo singolo estratto dal nuovo disco The Truth in a Dark Age uscito lo scorso 5 Maggio su tutte le piattaforme digitali.
Il brano è nato in piena pandemia da un riff di chitarra suonato con il chorus. Il primo approccio è stato quello di creare quel suono sfasato e liquido per poi adattarlo alla traccia di batteria e basso che avevamo in mente. Una progressione di accordi veloce ma allo stesso tempo lenta come se il tempo si fermasse d’improvviso per poi ripartire.
Glass Factory non è altro che una metafora sul rapporto di coppia dove una delle parti ad un certo punto è costretto a prendere una decisione se andare avanti oppure no e per farlo è costretto a trasformarsi in un topo per riuscire ad adattarsi e a districarsi in quel labirinto che è la vita di coppia oppure rimanere un elefante che con le sue movenze e incurante di quello che trova sul suo percorso rischia di distruggere tutto.

 

C’è un evento, un festival – italiano o internazionale -–in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Uno dei nostri sogni sarebbe suonare al Glastonbury Festival in UK, sono anni che ci proviamo facendo application ma la direzione artistica del festival sceglie solamente band UK. Speriamo che in futuro si presentino altre strade per poterci arrivare ma una cosa è certa, mai mollare.

Tre Domande a: Iosonocobalto

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché?

Insonnia, proprio come il titolo della terza traccia di Non avere paura del buio, perchè il modo in cui scrivo soprattutto i testi dei miei brani è frutto di un flusso di coscenza continuo, che non dorme mai.
Specchio, perchè sono la musica che racconto e la musica che racconti ti rappresenta e anche perchè cerco sempre di raccontare in modo che anche gli altri possano vedere nei miei brani il proprio riflesso.
Quadro, perchè il modo in cui interpreto la musica è prevalentemente immaginifico. Prima di dedicarmi completamente alla musica, dipingevo in senso letterale… Adesso è come se dipingessi con parole e melodie e io stessa fossi la tela bianca.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Se dovessi scegliere una canzone che rappresenta al meglio tutti i miei colori, sceglierei senza dubbio Non avere paura del buio che, non a caso, dà il titolo al mio primo album.

Non avere paura del buio racconta molto bene un tratto un po’ dualistico della mia personalità, nell’essere si leggera e spensierata, ma anche profonda e riflessiva. Racconta quanto io possa essere perseverante, testarda, racconta che sono tendenzialmente pessimista e questo mi porta ad avere delle paure che in realtà non mi appartengono, ed è questa consapevolezza a farmi trovare la forza di andare oltre.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Non so quale sia la cosa che più amo del fare musica, ma so che amo fare musica, di quel tipo di amore che ti fa sentire la mancanza quando pensi di averla persa o che sia finita. In qualche modo la impersonifico, è come un affetto a cui non posso rinunciare. Fare musica mi culla, mi abbraccia, mi emoziona, mi permette di mettere in ordine pensieri ingarbugliati. Quando sento l’esigenza di scrivere di qualcosa, il fatto di vedere le parole scritte nero su bianco e di dare loro vita per mezzo della melodia, mi dà la sensazione di vederle sotto un altro punto di vista, fuori da me, e mi aiuta a capirmi più a fondo. 

Tre Domande a: Henry Beckett

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Vorrei che chi si sente generalmente solo e in lotta perenne con le sfide necessarie a trovare il proprio posto nel mondo possa trovare la compagnia di una voce che racconta e vive situazioni simili. Lo immagino come un incontro casuale che può avvenire in un viaggio in solitaria mentre si riflette su se stessi ponendosi tante domande ma trovando poche risposte. Incrociare qualcuno con cui condividere alcune delle proprie preoccupazioni può essere un momento per sentirsi meno allo sbando, prendere un profondo respiro e trovare un po’ di forza per proseguire con più decisione. Vorrei che le mie canzoni riuscissero a essere questo anche solo per una persona. Un incontro simile è capitato anche a me quando a quindi anni ho iniziato a drogarmi di musica scoprendo tanti nuovi cantautori. È questo che mi ha portato a produrre la mia.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Some People Get Lost: è la più rappresentativa del mio presente, anche se l’ho scritta tanti anni fa. Parla di come ci si perda nel tentativo di riconoscere e trovare la propria natura e di come si debba sempre trovare la forza di rialzarsi ad ogni caduta, purtroppo inevitabile in questa ricerca. Ha la dimensione che più rispecchia il momento intimo in cui mi siedo a scrivere un pezzo e l’ho cantata come se il microfono fosse il mio orecchio a cui sussurrare di non arrendermi. Inoltre, per questo brano ho prodotto anche un videoclip con il regista Nicola Schito che mette in scena diversi personaggi che metaforicamente cadono e si rialzano. Lo potete trovare sul mio canale YouTube! 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Domanda molto difficile perché credere e investire in un progetto musicale a volte può portare a un totale esaurimento nervoso! Però se non ho mai smesso un motivo sicuramente c’è. Probabilmente la cosa che più mi carica è scrivere nuovi pezzi, trovando parole e frasi che non avrei mai pensato se non avessi abbracciato la chitarra. Ma anche gli step successivi per me sono magia, come quando entri in uno studio e insieme ad altre menti si arrangia e registra quella canzone, donandole un vestito che potrà indossare solo lei. E infine suonare con i miei musicisti, fare squadra, riuscire a condividere con loro gli alti e bassi e sentire di avere un sostegno su cui poter contare. E ovviamente dimostrare tutto questo sul palco in un live.

Tre Domande a: CATE

Cosa vorresti far arrivare a chi vi ascolta?

Emozioni, sia “belle” che “brutte”, se così sono definibili. Vorrei riuscire a far star malissimo chi ascolta brani come Stracci e La mia generazione, ma, soprattutto nel secondo caso, anche far riflettere chi non ha mai vissuto certe cose e accendere una lucina in fondo al tunnel a chi invece le sta vivendo. Far capire che non si è mai soli. Condividere il dolore. E condividere la gioia, l’amore. SMN ha la capacità di far rivivere a me in primis l’emozione fortissima che provavo prima di vedere la persona che amavo (nel mio caso in stazione) e spero che chi l’ascolta riesca a percepire almeno in parte quell’adrenalina e quella voglia di vivere che solo l’amore, secondo me, riesce a far provare. 

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Tra quelle uscite finora, sicuramente Manchi Tu, perché è la prima che ho scritto, e nonostante sia passato tanto tempo, quattro anni, è quella da cui è nato tutto. Anche per la scelta di pubblicarla piano e voce, che poi è come scrivo la maggiorparte delle volte. Mi ci sento più vera, più nuda, più io, nonostante la mia scrittura sia abbastanza diversa adesso. È la base, le fondamenta della persona e dell’artista che sono oggi. 

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

La mia musica in realtà è nata sui social. Quando a 14 anni ho scritto la mia prima canzone, Manchi Tu, avevo una fanpage su Ultimo su instagram con un discreto seguito, su cui facevo spesso delle live in cui cantavo e suonavo le sue canzoni. Poi una volta provai a fare, appunto, Manchi Tu, e piacque molto. Da allora fino a quando non ho abbandonato quella pagina, ho sempre cantato e suonato i miei pezzi in live, è stato il mio primo pubblico. Tuttavia, non sono molto social. TikTok non lo so usare, sto iniziando adesso a fare qualcosina ma mi sento molto stupida. Instagram lo uso più per raccontare e condividere che per farmi conoscere. Per quello, parlo con la gente per strada e canto in giro. Letteralmente, fermo i passanti. Se fatto con un minimo di cervello e gentilezza, lo trovo molto carino, mi ha permesso di conoscere un sacco di persone interessanti e di ricevere dei feedback molto diversi. Non capisco quando e perché le persone abbiano smesso di parlarsi (ma questo è un altro discorso). Comunque, per quanto secondo me i social siano il mezzo più potente che abbiamo iniziato questo periodo storico, continuo a preferire la strada.

Tre Domande a: Wuz

Come e quando è nato questo progetto?

I Wuz sono un collettivo musicale nato nel 2019 da un’idea di Mattia Boschi che insieme al fratello Jacopo e Nico Roccamo si ritrovano a comporre brani strumentali partendo dalla centralità tematica del violoncello ed elaborando arrangiamenti e strutture dove la contaminazione di genere e sound è fulcro fondamentale.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il vostro modo di fare musica o a cui vi ispirate?

La realtà musicale a cui ci ispiriamo maggiormente è quella de The Cinematic Orchestra, dove i concetti di Collettivo, Contaminazione e Trasversalità sono centrali nella composizione nella composizione e produzione dei brani. Il nostro EP Wuz Deluxe Edition uscito il 21 aprile vuole comunicare appunto questo. Anche l’immagine di copertina ne è emblema. La classicità del violoncello (radici/leggio) si spezza al contatto coi diversi generi musicali.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

La cosa che maggiormente ci interessa comunicare a chi ci ascolta è innanzitutto l’importanza della melodia e la trasversalità del progetto.
Concerti, onorizzazioni, colonne sonore, reading teatrali sono solo alcuni dei svariati modi in cui la musica dei Wuz può trovare ottimo utilizzo.

Tre Domande a: VIRGINIA

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Si, ci sono diversi artisti con cui mi piacerebbe collaborare ma nel particolare scelgo Ed Sheeran: è un artista che seguo da tanti anni e che mi ha accompagnata lungo il mio percorso di crescita fino ad oggi. Musicalmente è sempre stato per me una fonte di grande ispirazione. Sono sempre stata affascinata dalla semplicità con cui riesce a trasmettere le sue emozioni attraverso quei “soliti quattro accordi” che Ed Sheeran stesso domina e plasma su misura per dare vita a melodie e testi che raccontano una storia dietro l’altra. Ascoltare le sue canzoni mi faceva sentire parte di un mondo che allora sognavo immensamente e che ora, passo dopo passo, sta prendendo vita.
Il coraggio che ha nel mettersi a nudo davanti ad un vasto pubblico, presentandosi da solo sul palco, suonando e arrangiando sul momento brani che generalmente necessitano della presenza di altri musicisti, è sempre stato per me fonte di ammirazione e allo stesso tempo di incredulità. Ho la certezza del fatto che si fidi ciecamente delle sue mani e dello strumento che in quel momento sta suonando e questo sentore mi fa percepire la paura che può avere quando sale su un palco ma soprattutto l’amore che prova al suono di ogni corda che sfiora che fa sì che possa chiudere gli occhi, entrare nella sua bolla sicura e annebbiare qualsiasi forma di timore regalando momenti magici e performance indimenticabili.
Sento un forte legame con il suo essere un artista solitario e riservato che però ha storie infinite da raccontare e che sa  rendere partecipi delle sue emozioni in ogni singola nota e frase di una canzone. 

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Credo che sceglierei un brano che non ho ancora avuto modo di presentare in nessuna occasione.
È una canzone che ho scritto recentemente e rappresenta la pagina più intensa ed emotiva del mio “caro diario” che mi ha permesso di donare alle parole che scrivo una forma poetica che fino ad ora non avevo ancora esplorato. L’ho intitolata Anima.
È un brano che è nato sulle Dolomiti, in un momento ascetico di distacco mentale dalla realtà del quotidiano. Il contatto con la natura mi ha permesso di essere più vulnerabile e di addentrarmi nella sfera più intima e oscura del mio io interiore.
Credo che sia la canzone che più mi scalda il cuore, mi punge nel profondo e mi fa tremare la voce quando la canto. L’impatto che ha avuto su amici e familiari è travolgente e mi fa capire quanto fosse importante per me mettermi a nudo ed esternare i miei pensieri più profondi e renderli accessibili agli altri attraverso questa forma d’arte. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

È una sensazione che fatico a spiegare a parole.
Mi sento libera ed è come se avessi il potere di entrare direttamente nella mente e nel cuore delle persone; credo che addentrarsi nel mondo nei sentimenti più profondi sia come avere di fronte a sé un campo minato. Spesso mi trovo nell’occhio del ciclone e fatico a trovare una via d’uscita da un momento di forte debolezza. Le incertezze legate alla scelta di fare l’artista a volte sono imponenti e prevalgono su qualsiasi sicurezza che posso avere: è in quei momenti che la mia musica mi salva e mi ricorda il motivo per cui non ho mai rinunciato al sogno di essere artista.
Il mio amore per la musica supera qualsiasi ostacolo e paura e mi dà la sicurezza di poter arrivare al cuore di chiunque abbia voglia di lasciarsi andare alle proprie emozioni.
In un mondo in cui prevale il buio e in cui è sempre una gara a chi è più forte e resistente, voglio creare e regalare qualcosa che illumini, per un istante, ogni angolo oscuro e che ci ricordi che piangere alla fine è bello. Questo è ciò che amo di più della musica: il suo potere catartico.

Tre Domande a: KAPUT

Come e quando è nato questo progetto?
KAPUT è nato a luglio scorso, con l’uscita del mio primo singolo Caldo Abissale. È un progetto senza alcuna pretesa mainstream ma con la promessa di essere tanto onesto e vero nella scrittura dei brani, cosa che in passato non ho fatto, a dirla tutta. Nel quotidiano sono anche un autore di canzoni per altri artisti e, potrà sembrare scontato da dire, scrivere per se stessi è un lavoro un po’ più difficile ed introspettivo perché bisogna studiarsi con occhi esterni ed accettarsi per quello che si è per davvero bilanciando l’intelligibilità discografica. Ho scartato tanti brani prima di arrivare alle cinque canzoni contenute nel mio EP Bilocale 9/B proprio perché ho desiderato un filo conduttore il più possibile onesto. Sono convinto che, comunicare in maniera spontanea ed onesta superi le performance di ogni tipo di costruzione fatta “ad hoc”.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?
Il mio intero EP Bilocale 9/B parla di diverse sfaccettature dell’affettività e del sesso e l’aspetto del sesso romantico e giocoso che tratto in Verticale (Tempo) penso mi rappresenti più di tutti gli altri. Anche il graphic designer e illustratore Giuseppe D’Alia, che ha accolto la proposta di realizzare un’opera che potesse sintetizzare il mio EP, di sua sponte ha centrato il tutto su Verticale (Tempo). Credo che se il messaggio arriva anche a chi semplicemente recepisce la canzone, la tematica possa accomunare un bel po’ di gente… D’altronde è la mia traccia più ascoltata e ne sono davvero onorato!

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?
Punto abbastanza alla comunicazione. Personalmente preferisco ed uso quasi esclusivamente Instagram (il mio profilo è @kaput.ig) e la cosa che più mi attrae è quella di “misurare” in maniera quasi simultanea quanto la mia musica possa arrivare o meno. Lo uso come uno strumento per analizzare ciò che realizzo e per comunicare con tante persone, dal sostenitore al collega interessato al mio songwriting. Se vi va, scrivetemi anche lì; sono curioso di conoscere il vostro punto di vista.

Tre Domande a: Gemini Blue

Come e quando è nato questo progetto?

Siamo nati in periodo covid. Appena conosciuti, abbiamo legato e creato un buon rapporto di amicizia, poi abbiamo iniziato a suonare insieme inizialmente senza nome e vista l’intesa abbiamo deciso di rimanere in due!
Eravamo entrambi alla ricerca di qualcosa di nuovo, avevamo idee e voglia di produrre nuova musica così in maniera molto naturale abbiamo iniziato subito a scrivere, condividere ascolti e nuovi artisti che stimiamo.
A inizio 2021 abbiamo pubblicato il nostro primo brano The Mountain, registrato nello studio casalingo di uno dei nostri primi insegnanti poi nel corso dell’estate abbiamo pubblicato If You Change Your Mind che esprime un ulteriore nostro lato artistico.
Nel 2022 invece abbiamo iniziato a collaborare nella produzione con Paolo Blodio Fappani registrando alcuni dei nostri brani che avevamo nel cassetto da un po’ ormai. Abbiamo partecipato a X-Factor 2022, pubblicato tre singoli Alternatives, Bullshit Song e Demons Of The City  che sono anteprime del nostro disco di debutto in arrivo il 21 Aprile. Ora non vediamo l’ora di poterlo far sentire!

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Fiume, catarsi e ascolto.
Fiume perché nei luoghi dove siamo cresciuti questo elemento naturale infonde la vita e il suo ritmo, di conseguenza è da sempre un importante posto di pace per noi, sulle sue sponde sono nate le prime composizioni.
Catarsi perché in primis la nostra musica ha come funzione il comunicare quelle sensazioni di disagio o felicità che non riusciamo a esternarne in alcuna altra maniera, ciò ha funzione rituale e ci permette di alleggerirci e di utilizzare il nostro sentire come energia per costruire.
Ascolto perché la nostra musica richiede volontà di ascolto e comprensione, se fra di noi, o tra noi e gli ascoltatori viene a mancare questo elemento, Gemini Blue diviene come un sasso del mare lontano dalle sue acque: grigio e senza colore.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Noi siamo nati come band live e di conseguenza abbiamo cercato di rendere i nostri show il più comunicativi e personali possibili. Vogliamo mostrare le nostre esperienze di vita e sentimentali, portando il pubblico in un contesto quasi mistico spirituale, crudo e naturale, quel contesto in cui in parte siamo cresciuti.

Tre Domande a: Limarra

Come e quando è nato questo progetto?

Sentirmi inadeguato mi ha cambiato la vita. Schiacciato dal peso dei ricordi e delle certezze ho sentito il bisogno di ritrovare me stesso, di riconoscermi in qualcosa di estremamente nuovo ma allo stesso tempo familiare. Avevo perso l’amore per le cose, le abitudini erano diventate i miei obiettivi e le novità soltanto delle scomode paure.
Dopo 16 anni di tour e canzoni con la mia band (i BaciamoLeMani), ho sentito l’esigenza di sperimentare me stesso, provare a proporre un’altra versione di me. Credo che la musica accompagni le fasi della vita di ognuno di noi e la scelta di cosa ascoltare e, nel mio caso, cosa scrivere è dettata dal momento che attraversiamo. Ho scelto di approdare sulle sponde di nuovi generi musicali che un tempo sentivo lontani e, a dirla tutta, mi sono pure divertito. Se in un prima fase il 2020 e la pandemia mi hanno abbattuto più del dovuto (poiché vedevo l’impossibilità di suonare come qualcosa di troppo difficile da digerire), dopo aver fatto pace con me stesso e con la crisi che ogni musicista stava attraversando, mi sono reso conto che avrei invece potuto sfruttare il tempo che avevo a disposizione per indossare una nuova veste: quella del cantautore. Da un bellissimo e casuale incontro con Cesare Mac Petricich (membro storico degli aretini Negrita, il quale si è occupato della produzione artistica del progetto Limarra) sono nate otto canzoni che raccontano otto storie diverse, legate tra loro da un unico filo conduttore: la rivalsa dei vinti.

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Primordiale, selvaggia e diretta.
È primordiale perché soprattutto nella stesura dei testi ho preferito veicolare messaggi che riguardano l’uomo e la sua natura, spesso, insieme alla modernità, autrice del nostro oblio. Ho dato risalto alle emozioni che le nostre paranoie di tutti i giorni ci rimandano sotto forma di ostacoli che sembrano insormontabili. Un ritorno alle origini non equivale allo spogliarsi di ciò che siamo e che abbiamo costruito, ma sicuramente potrebbe darci l’autorità di scegliere se seguire il flusso di questi tempi o virare verso orizzonti meno complessi ma più autentici.
È selvaggia perché è dettata da ritmi lenti ma allo stresso tempo incalzanti, in una danza che non ricorre a classici schemi musicali moderni e in cui, istintivamente (proprio come la nostra più profonda essenza), ogni personaggio descritto si risolleva per rimediare al suo declino. Dire di no ai condizionamenti che ci impone la società di oggi rappresenta  l’atto più selvaggio che l’uomo contemporaneo può e deve permettersi.
È diretta perché non usa mezzi termini, ogni parola è un pugno allo stomaco che vuole atterrare chi ascolta dandogli allo stesso tempo gli strumenti per rialzarsi. Ho preferito una scrittura più leggera senza rinunciare mai alla forza della sintassi. Ho cercato di scegliere bene le parole alle quali, nel mio processo di trasformazione artistica, ho dato un duplice ruolo, quello della vittima e del carnefice, proprio perché se da un lato leggere alcune cose ci spaventa dall’altro illumina la direzione.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Riconoscersi è stata la miccia che ha acceso la collaborazione con Cesare. Un canovaccio di sonorità elettronica e canti dal sapore popolare accompagnano un testo per metà in italiano e per metà in dialetto siciliano, in cui l’impossibile storia tra due donne diventa il pretesto per raccontare il dramma di chi non riesce a riconoscersi. Se davanti ad uno specchio provassimo a vedere il riflesso di ciò che veramente siamo e non di ciò che vorremmo essere, troveremmo la pace che inseguiamo per tutta la vita, quella pace con noi stessi che sta alla base della nostra effimera esistenza.
Citando la canzone: “quel giorno davanti al mare c’eravamo giurati amore, perché nei luoghi eterni tutto è lecito per gli amanti”, non importa se abbiamo tutto il mondo contro, è di fondamentale importanza  invece pensare che l’unica cosa che conta siamo noi e il nostro giudizio.
Riconoscersi, accettarsi per poi essere accettati.

Tre Domande a: Monna Lisa Blackout

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto è vecchio e nuovo allo stesso tempo: i Monna Lisa Blackout esistono da qualche mese, ma noi quattro suoniamo insieme da diversi anni.
Leo, Matte e Michele erano nella stessa classe alle superiori, e Matte e Luca erano vicini di casa, si conoscono da quando erano piccoli. Siamo cresciuti insieme, musicalmente e come persone. Leo ha iniziato a cantare in questa band, Luca ha iniziato a suonare la batteria in questa band, Matte ha fondato questa band che suonava da pochi mesi. Abbiamo imparato a improvvisare gli uni intorno alle idee degli altri.
Ci influenziamo a vicenda coi gruppi che ascoltiamo, andiamo a tantissimi concerti, abbiamo tutti un’infinita passione per la musica. Nel progetto Monna Lisa Blackout vogliamo fondere le sonorità rock/stoner con l’hip hop e dare vita a qualcosa, ma è anche una grande scusa per passare le serate insieme.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Se cerchi qualcuno che ti dica “tranquillo, alla fine le cose si sistemano, la vita è un grande prato fiorito” ascolta un’altra band.
La vita non è una costante presa bene, per nessuno, non importa cosa sembra da Instagram. La vita è dura, è davvero dura. Quelli che dicono di aver capito come funziona mentono. Nessuno ci capisce un cazzo, navigano tutti a vista. Tutti quanti sono persi. Tutti quanti devono cercare di capire che sta succedendo e affrontare il drago.
Non è questo periodo, e non sei solo tu: è tutta la vita che è così. Il mondo è un posto grande e complicato. Il male esiste. Gli altri soffrono quanto te e il minimo che possiamo fare è darci una mano a vicenda.
In due parole il nostro messaggio è questo: la vita è dura, a volte è durissima, ma tu ce la puoi fare.

 

C’è un evento, un festival – italiano o internazionale – in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Ce ne sono davvero tanti da cui in questo momento sarebbe fantastico ricevere l’invito per una serata, sia per la possibilità di far sentire ad un nuovo pubblico i brani appena pubblicati, sia per vivere il momento magico che accompagna queste manifestazioni. In un certo senso sarebbe una forma di realizzazione, il nostro progetto si esprime al meglio in queste situazioni live.
I nomi che più ci attirano sono ovviamente Firenze Rocks ed I-Days di Milano, per i gruppi che partecipano, anche se forse saremmo più a nostro agio in situazioni più underground come Balena Festival, Sherwood Festival o Lars Rock Fest.
Il vero sogno irrealizzabile è il Primo Maggio di Roma. Il desiderio di poter suonare anche solo venti minuti in Piazza San Giovanni ci accompagna da un sacco di tempo.
Abbiamo visto che quest’anno sono presenti diverse situazioni interessanti, specialmente con il ritorno dei Verdena. Di sicuro gireremo tanto, anche solo come spettatori.

Tre Domande a: Regione Trucco

Come e quando è nato questo progetto?

Mi Sono Perso è un disco che nasce in sala prove, dove Umberto arriva con il chitarra-voce delle canzoni. Lì, sotto il comando generale di Andrea, arrangiamo i pezzi in una prima veste. Poi li suoniamo dal vivo nelle occasioni più intime, come ad esempio nei pub. A quel punto abbiamo il primo e per noi più importante riscontro: la reazione della gente. Scegliamo quindi i pezzi che ci sembrano emozionare di più le persone e passiamo alla seconda fase che è quella delle pre-produzioni, che facciamo principalmente in home recording. Da qui in avanti, i pezzi passano nelle mani di Enrico Caruso (sound engineer con sede a Vercelli) nel cui studio registriamo voci e tutto quanto non è possibile fare in home recording: lui ci aiuta con piccoli grandi suggerimenti di adding production, oltre a mixare i brani.
Oltre a questo processo artistico, sono subentrate etichette discografiche, un manager nuovo (Federico Borruso), nel mezzo una pandemia e tanto altro…

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Country: non per il genere, ma perché veniamo dalla campagna, i cui elementi rientrano spesso nelle nostre canzoni, che in definitiva nascono nei nostri luoghi, fatti appunto di verde, di laghi, di trattorie. Un mondo semplice che viaggia ancora a una velocità accettabile, umana, senza troppo auto tune.
Ironica: l’ironia salverà il mondo. Cerchiamo di far sì che l’ironia non manchi mai nelle nostre canzoni, anche quando magari trattano temi sociali o sentimenti. Ad esempio, il singolo Lady Hawk che fa parte del disco Mi Sono Perso tratta del disagio di una coppia che fatica a trovare il tempo per stare insieme e non si vede mai; però a un certo punto nel testo c’è la frase “fossi ricco staresti a casa a fare incazzare le femministe”, che alleggerisce e fa sorridere. Tranne le femministe. E chi si prende troppo sul serio.
Sperimentale: sperimentale non perché pensiamo di fare una musica incredibilmente innovativa o strana, ma nel senso letterale del termine. Impieghiamo davvero tanto tempo a fare, appunto, esperimenti, prima di raggiungere la versione finale di un brano così come la sente il pubblico sul disco, sia da un punto di vista dell’arrangiamento, sia da un punto di vista dei suoni e della produzione. Per esempio, c’è un brano nel nostro ultimo disco Mi Sono Perso che si intitola Giuliano e che ci ha dato davvero del filo da torcere prima che potessimo ritenerci soddisfatti del risultato raggiunto.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Emozioni. Questo deve fare la musica: far arrivare emozioni. Non ci importa che ai nostri concerti dicano che siamo bravi musicisti o meno (o che lo pensi chi ascolta i nostri dischi). Ovviamente il riconoscimento del nostro lavoro da parte di addetti ai lavori e musicisti ci lusinga e ci fa piacere, ma la vera cosa importante, ciò a cui più di tutto teniamo, è che il pubblico si diverta, si emozioni, che abbia voglia di rimanere fino alla fine di un concerto e poi magari si fermi per bere una birra o un gin tonic in compagnia. Abbiamo fatto dei concerti dove magari abbiamo suonato in maniera impeccabile, ma durante i quali, per qualche motivo,  non siamo stati capaci di trasmettere l’energia giusta al pubblico e siamo sicuri che il pubblico ha preferito altri nostri live, dove ci è scappato l’errore o il gin tonic di troppo sul palco, ma l’energia era quella giusta. L’emozione alla fine vince sulla tecnica.

Tre Domande a: Orlvndo

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Con Ad Maiora, il mio primo disco e il secondo capitolo del trittico Ad Hoc, Ad Maiora, Ad Astra, ho raccontato una parte della mia vita con tutta la verità possibile. Il disco è come un romanzo che racconta il cambiamento dalla fanciullezza all’età adulta, un percorso, per me, decisamente complicato. Ho avuto paura. Nelle canzoni c’era troppa vita senza filtri, e un po’ bisogna proteggersi.
Perché l’ho fatto?
La verità è l’unica entità che avvicina tutte le persone, siamo tutti concentrati a nasconderla, ma le nostre vite sono molto più simili di quanto si pensi. Il dolore è uguale per tutti, la felicità pure. Il messaggio che voglio mandare con questo disco è molto chiaro: siate irresponsabilmente voi. Questo per me significa andare verso cose più grandi.

 

Progetti futuri? 

Dopo Ad Maiora, ci sarà Ad Astra. Non riesco a spiegarvi bene come sarà il progetto e cosa arriverà, devo viverlo prima.
Ci rivedremo al prossimo capitolo.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

La cosa che amo fare di più della musica è la dimensione che si crea durante i concerti. Capisco che la strada è quella giusta. Ai concerti cantiamo le canzoni guardandoci dritti negli occhi, sento come se appartenessi a loro. Voglio bene ad ogni persona che mi ascolta come se fossimo fratelli. Il 26 aprile al Mosso a Milano faremo il primo concerto full band. Sarà una grande festa.