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Tag: irene lodi

Romeo and Juliet

 

L’amore secondo una millennial attempata

Il suo riff iniziale è una delle colonne sonore più adatte ai mal d’amore, dagli anni ‘80 a oggi. Le storie tormentate o sofferte, gli innamoramenti non corrisposti, le coppie dal destino avverso: tutti possono ritrovarsi nelle strofe di questa amatissima canzone dei Dire Straits, Romeo and Juliet. Uscita nell’ottobre del 1980, non stanca di ammaliare con la sua melodia dolce ma decisa: è una ballad che parla di un Romeo lovestruck, colpito, annientato dall’amore.

La sua Juliet è algida, possiamo immaginarla guardarlo dall’alto, quasi con sufficienza, chiedendosi che cosa mai ci avrà trovato in un tipo del genere. Romeo non ha più alcun ritegno, non c’è dignità che tenga davanti all’amore: continua a implorare la sua Giulietta di ascoltarlo, di ricordare il tempo passato insieme, anche se non sa fare nulla, farebbe di tutto per lei.

Ma tutto quello che può fare è sentire la sua mancanza, ricordare le promesse di amore eterno, maledirsi per la sua pochezza. Ma il suo sguardo è perso nel vuoto, continua a fare i palloncini con la gomma da masticare: non ha memoria dei sogni del passato, è stato tutto uno dei suoi intrighi?

La musica accelera nel ritornello, a sottolineare la disperazione di quel ragazzo perduto in un metaforico labirinto, poi rallenta di nuovo: Romeo continua a parlare, da solo ormai, tiene il ritmo schioccando le dita, affogando nei ricordi. Basta qualche passo fuori dalla luce del lampione, ed è uscito per sempre dalla vita di lei.

Una storia molto diversa da quella che mette in scena Shakespare alla corte elisabettiana. Romeo e Giulietta è una tragedia talmente potente da essere diventata il simbolo dell’amore, l’archetipo degli amanti sfortunati. L’ambientazione italiana conferisce ai personaggi un tocco esotico per gli spettatori, cortigiani rinascimentali, ma credo sia importante sottolineare soprattutto quanto universale sia questa love story.

Un concetto talmente potente da varcare i confini del tempo e dello spazio: dalla Verona cinquecentesca dei Montecchi e dei Capuleti alla New York degli anni ‘80 di Mark Knopfler, dalle strade della Manhattan degli anni ‘60 di Tony e Maria alla Londra di fine 1500 dell’autore dell’opera teatrale.

La canzone dei Dire Straits, infatti, ha un costante rimando a un’altra opera musicale, West Side Story, appunto, la vicenda di due innamorati osteggiati dalle proprie famiglie, moderni Romeo e Giulietta degli anni dei diritti civili e della guerra del Vietnam. È quella del musical la movie song che Romeo non riesce a ricordare, in un gioco di specchi che rimanda ancora una volta all’idea centrale di sofferenza per amore.

Cosa accomuna tutti questi episodi nell’immaginario collettivo? Naturalmente l’amore. Questa forza che secondo i latini vinceva su tutto, questa potenza su cui siamo soliti concentrare tutto il nostro interesse e sulla base di cui ci siamo abituati a costruire le nostre vite.

Nonostante le palesi differenze, alla fine, quello su cui si può riflettere è che le esperienze dei protagonisti si intersecano e si sovrappongono: che sia Maria o Giulietta poco importa, chi ha un amore difficile si rivedrà in questa donna triste, sconsolata, impotente. E chi invece è alla conquista, o alla rinconquista di un amore impossibile, o un amore perduto, non potrà evitare di ritrovarsi nel personaggio di Romeo, pronto a tutto, anche a rendersi ridicolo, a mettersi in pericolo e pure a morire per la sua amata.

Credo che l’amore sia il sentimento più celebrato in canzoni, libri, film, opere teatrali, e in generale in qualunque forma d’arte mai esistita, fin dall’alba dei tempi. Perchè? Beh la risposta è dentro di noi: anche se sappiamo perfettamente che quello “dei film” è stucchevole, sdolcinato, esagerato, assolutamente irrealistico e irrealizzabile, lontano, in una parola, impossibile, non possiamo fare a meno di sognare qualcuno che ci ami così.

 

Irene Lodi

 

Tra maschere e sogni sull’Isola che Non C’è

•Peter Pan secondo Bennato•

 

“Seconda stella a destra, questo è il cammino. E poi dritto fino al mattino. Poi la strada, la trovi da te, porta all’isola che non c’è”.

Mi sembra quanto mai attuale, se pure utopico, parlare ancora oggi di sogni. Per tutta la vita ho sognato di aprire la finestra e volare via, moderna Peter Pan, verso l’Isola che non c’è.

Sarà stata la fiaba di James Matthew Barrie che mi ha influenzato, sarà stato il cartone animato Disney, sarà stata l’insofferenza verso le regole e le costrizioni, non saprei, ma una cosa non è mai cambiata: la colonna sonora.

Soltanto un cantautore italiano ha saputo trasformare in musica alcune delle più belle fiabe mai scritte: Edoardo Bennato, che ha dedicato molti dei suoi album ai personaggi più famosi di alcune opere di letteratura per l’infanzia, fra cui spiccano senza dubbio Pinocchio e Peter Pan.

L’isola che non c’è non è un luogo fisico, è un non-luogo. È una metafora, è un rifugio, è un’utopia politica: esiste per tutti un mondo ideale, che riflette i desideri più intimi, quasi sempre in contrapposizione con la vita che ci scorre addosso quotidianamente.

L’isola raccontata da Bennato è un luogo di pace e armonia, dove la criminalità è assente, così come l’ipocrisia. Un luogo, insomma, impossibile. Eppure, c’è.

Dal mio punto di vista, considerata anche la simbologia dell’isola, l’Isola che non c’è rappresenta un luogo di stasi, una pausa dalla vita di tutti i giorni, in cui il tempo si ferma.

Non deve essere necessariamente un posto reale, può anche essere un luogo mentale in cui ci si rintana dopo una brutta giornata. Per molti, l’Isola è una persona.

Comunque sia, è stato sulle note dell’armonica di Bennato che ho cominciato a sognare, perchè ascoltare una sua canzone è un po’ come ascoltare una favola.

Il Rock di Capitan Uncino invece mi ha sempre dato la carica giusta: mi ricorda l’estate dei miei undici anni, ed è a quel momento, senza dubbio, che risale la mia ferrea decisione di andare controcorrente.

Non sapevo nemmeno bene cosa volesse dire, ma non avevo dubbi: se non potevo diventare una piratessa, avrei per lo meno dovuto perseguire una vita all’insegna della ribellione.

Non so se sono sulla buona strada, ma devo a Bennato la voglia di provarci, senza sosta, ogni giorno.

Anche se “ti prendono in giro”, come canta Edoardo, tu continui a cercarla, ma l’importante è non darsi per vinti, perchè, prima o poi, l’Isola compare, come per magia. Chi rinuncia a cercare la propria oasi è davvero il più folle: cos’è una vita senza sogni?

Sarà forse infantile, ma amo ancora tantissimo le fiabe. Mi piace ascoltarle, amo immaginarne di nuove, mi diletto a raccontarle, quando ne ho occasione.

Raccontare una fiaba è una faccenda più seria di quanto sembri. Innanzi tutto, è rivolta ai bambini, e, si sa, i bambini non perdonano.

Non puoi dire “Vado di fretta”, “Finisco dopo”, “Cerca su Google”. No. Bisogna raccontarla tutta d’un fiato, dall’inizio alla fine. Almeno fino a che il pargolo non impara a leggerle da solo.

Per me, leggere è stata – ed è ancora – una scoperta, e uno dei primi libri che ricordo con immensa malinconia è proprio Peter Pan. Lo spiritello di Sir J.M. Barrie mi faceva arrabbiare tantissimo e allo stesso tempo lo invidiavo.

Passavo le serate pensando a come sarebbe stato volare, cosa avrei fatto io nell’Isola che Non C’è, come avrei sconfitto Capitan Uncino. Poi – purtroppo – sono cresciuta, e non ho più avuto accesso a quel magico mondo, per fortuna però, ho imparato molto altro.

Ho cominciato a chiedermi se Capitan Uncino fosse così malvagio per un motivo: magari era arrabbiato con Peter Pan. E magari aveva pure ragione, chissà.

Ragionando sul background del Capitano, ho pensato che in fondo è solo un uomo che si comporta come il suo personaggio richiede. Se andasse contro al sistema, cosa succederebbe? Si è mai visto un pirata buono? Del resto, si impara a scuola “a far la faccia dura/per fare più paura”, come canta la ciurma.

Andare contro al “sistema” non è una scelta semplice: secondo Pirandello, non ci libereremo mai delle maschere che ci vengono assegnate, nè di quelle che ci scegliamo autonomamente.

Forse Bennato ci vuole dimostrare qualcosa di simile raccontandoci la storia dal punto di vista dell’antagonista principale della fiaba originale: non esiste una realtà oggettiva, una giustezza univoca delle situazioni, la vita è vera a seconda di chi la guarda.

Sarebbe quindi importante ragionare sulle situazioni e gli eventi esaminandone le sfaccettature: non sempre chi sembra il cattivo lo è davvero.

Mi sono chiesta, infine, se fosse possibile (e giusto) rimanere bambini per sempre. È allettante, dopo tutto, una vita senza regole, senza responsabilità, senza confini. Ma è davvero questo che significa essere liberi?

Irene Lodi

A Ferrara si va “Fortissimo”

Matteo Bianchi ci racconta la sua “Penna”

 

2 DICEMBRE

 

«I don’t want to be the one / left in there, left in there»… laggiù, in una cittadina tra i campi, sul cuscino di lui lei aveva sistemato una mattina il suo pigiama, prima di andare al lavoro. Si sa quanto i pigiami siano morbidi. E magari sono quello che portiamo addosso di più sincero. Spontanei, a volte scontati. Quello che basterebbe per svegliarsi bene il primo gennaio. Il suo aveva un biscotto enorme, tante stelline e tante piccole lune su un cielo blu. E lui che con gli occhi la seguiva da mesi sul finire del turno, in mezzo alla folla degli acquisti, sapeva che ci sono cieli e notti in giro che riempirebbero una casa. Più delle luci di Natale. Notti sfogliate solo nei racconti che l’avrebbero scaldato più del solito cappotto grigio. Quello da battaglia, appeso vicino all’entrata. Di solito lei dormiva sul fianco destro, lievemente raccolta, con le braccia al petto; perciò, quando spegnevano la luce al secondo piano in una stanza tra le tante, lui le prendeva le mani e la stringeva a sé. In due si vede anche al buio, e il buio stesso si fa inconsistente. Talvolta si svegliava per assicurarsi che lei non avesse freddo, le baciava i capelli che si erano sciolti sul cuscino e tornava ad appoggiare il viso sulla sua schiena, sperando di avere altri dieci minuti a disposizione, sebbene del tempo non gli importasse più granché.

 

 

Copertina Fortissimo 1 

 

Il libro si intitola Fortissimo (Minerva), comprende un mezzo piano e si apre con dei versi degli Anthony and the Johnsons. Quali e quante musiche ci sono in questo libro?

«Il testo di Hope there’s someone si sovrapponeva a quello che sentivo per la persona di fianco a me in quel momento. La musica è la prova di una coincidenza che diventa emozione. Anche il tono e il timbro vocale erano adatti alla circostanza. Fortissimo e Mezzo piano hanno sia una connotazione fisica di spazio, legata alla percezione della realtà circostante, sia una temporale: il mezzo piano è il mezzanino di ogni condominio che consente incontri momentanei, in cui ci si dice tutto con uno sguardo. Esiste una sfumatura musicale che lega i due titoli: sono entrambi indicazioni dinamiche dell’intensità sonora e, astraendo, offrono la possibilità di dare volume alle conseguenze delle nostre azioni».

 

Se dovessi scegliere una (o più d’una) canzone da ascoltare in sottofondo, leggendo le tue poesie, quale sarebbe?

«Mi hanno accompagnato nella stesura l’intero Bon Iver, Bon Iver, Solitude di Ryuchi Sakamoto, Odradek di Alva Noto, proprio per affrontare il buio. È stata la reazione visionaria di questi artisti, ognuno con il proprio stile, a convincermi; il modo con cui si sono opposti all’incombenza del passato sul presente. D’altronde “il sogno è l’infinita ombra del vero”, scriveva Pascoli».

 

Secondo te, poesia e musica mantengono ancora oggi il legame indissolubile che hanno fin dalle origini?

«Decisamente. La prima parte del libro è una prosa poetica, vale a dire una prosa costruita mediante figure retoriche, prevalentemente di suono. Uso assonanze, allitterazioni e rime in quantità per sostenere quello che di fatto è un flusso di coscienza. Un monologo interiore che asseconda i miei stati d’animo. È il riflesso di quello che ho provato, e la musica mi è fondamentale per tenere insieme il discorso. Dove non c’è logica e razionalità, e nella poesia non c’è, la musicalità è un medium: dà alla parola lo slancio necessario per arrivare all’orecchio del lettore, non solo alla sua mente. Non applico una struttura metrica tradizionale abbastanza solida o lavorata, sono andato a orecchio».

 

E il mondo della musica e quello della letteratura trovano ancora qualche connessione?

«Sono in realtà molto scoraggiato, mi demotiva parecchio il panorama attuale, perché il punto di collisione più forte era quello cantautoriale, anello di congiunzione tra testo poetico e musicale. Siamo circondati da prove scadenti, non trovo contemporanei viventi degni di nota. Forse solo Nicolò Fabi riesce a tenere il punto, e, quando è in forma, Samuele Bersani, poiché dimostra un grande rispetto nei confronti della lingua, questo per quanto riguarda i più giovani. Guccini, Branduardi e Vecchioni sono indimenticabili soprattutto per le prime prove; Battiato e Tenco, ovviamente, e pure Gino Paoli agli esordi. Ma la cosiddetta “scuola genovese” in toto, conquistata dalla passione di De André: “Sono evidentemente fortunato – annotava sotto le ciglia – soprattutto quando riesco a trasformare il disagio in qualcosa di bello e magari anche di utile, non necessariamente di memorabile”.

Un altro filone interessante è quello che unisce il rap al poetry slam, la poesia d’occasione incanalata su un tema a richiesta. Io non sono vicino a quel metodo di scrittura: nel poetry slam la forma si impone troppo sul contenuto rischiando di impoverirlo, non solo di storpiarlo. Davanti a un impoverimento cambierei approccio, per questo non l’ho mai concepito, anche perché scimmiotta un’urgenza, è un volersi dare un tono d’emergenza che di fatto non corrisponde alla realtà. Non c’è più la ricerca di equilibrio».

 

I temi portanti del libro sono l’amore, il tempo, la quotidianità. Qual è il filo rosso che tiene tutto insieme?

«Il filo rosso della raccolta è la necessità di innamorarsi, perché spesso, anche se non sempre, innamorarsi o riuscire a innamorarsi ancora rende liberi.  Che poi sia una libertà illusoria ed effimera, che non può fare i conti con la realtà, è vero, ma l’esigenza rimane. Se vogliamo tracciare un parallelo musicale, ciò che lega i miei testi è l’innamoramento che dà il la a un sentimento amoroso, proprio come la prima nota avvia un brano».

 

Irene Lodi