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Tag: Keaton Henson

Keaton Henson “Supernova OST” (Lakeshore Records, 2021)

Non ho mai recensito una colonna sonora. Non so come si faccia, né se si possa fare; o meglio, non sono sicuro si possa recensire una OST (Original Sound Track), senza aver visto il film per la quale è stata pensata, creata, arrangiata e realizzata. 

Non sono del resto nemmeno un grande cultore del genere, voglio dire conosco diverse persone che tra gli ascolti consueti hanno proprio le colonne sonore; ma io, un po’ per abitudine, un po’ forse per ignoranza, non mi sono mai mosso verso quei litorali, partendo da un assunto, certamente sbagliato, che non sia molto sensato scindere un film dalla sua musica, come se entrambi potessero aver vita solo se uniti, e che dividerli vorrebbe significare snaturarli e renderli altro. Il cinema muto del resto non è muto, sin dagli albori immagini e musica sono stati un connubio inscindibile e a dar maggior peso a questa considerazione piuttosto condivisibile ci sono anche le parole di Claudia Gordbman, che nel suo Unheard Melodies (una pubblicazione di diversi anni fa incentrata sulla musica nel cinema), sostiene che “change the score on the soundtrack and the image-track can be trasformed”.

Ad ogni modo non potevo lasciarmi sfuggire questo Supernova, esordio assoluto di Keaton Henson nel mondo del cinema. Il film in questione è uscito da appena qualche giorno negli Stati Uniti, è diretto da Harry Macqueen e vede come protagonisti, raffigurati anche in una splendida locandina, Colin Firth e Stanley Tucci. 

Non si tratta di un prime assoluto per l’artista inglese in ambito strumentale/orchestrale/sinfonico, avendo egli già dato alla luce un paio di anni fa lo splendido Six Lethargies, e questo nuovo lavoro continua ed espande quel clima di pathos e drama che sono da sempre presenze fisse ed imprescindibili della poetica del nostro. E credo sia proprio quello che cercava il regista, perché quando decidi di affidare la colonna sonora del tuo film ad un artista così particolare, che fa della malinconia e del rimpianto il suo terreno preferito, ti aspetti esattamente un lavoro come questo: i primi 40 secondi dell’iniziale The Night Sky sono otto, forse nove note di piano, lente, sotto le quali con un lungo crescendo si fanno strada gli archi, per sbocciare in una rapida sequenza che si esaurisce presto, per lasciar strada ad un intermezzo, Losing Tusker (Tusker è il nome del personaggio interpretato da Stanley Tucci, giusto per dare qualche riferimento in più). The Lake dona un minimo di apertura e respiro, con i violini che adagio s’incrociano in splendide volute, come nella successiva The Road To Lilly’s.

Un violoncello ed un contrabbasso compongono i quattro minuti abbondanti di A Silent Drive, dove ad una prima parte riflessiva seguono momenti incalzanti e sincopati, subito limati da un secondo passaggio più arioso ed orchestrale, Stargazing. Let Me Be With You è puro Keaton Henson, con quel pianoforte di una dolcezza abbagliante ed una coda d’archi dove non c’è molto spazio per la luce. La conclusiva Supernova è la composizione più articolata, che si manifesta in maniera quasi solenne, si sviluppa con una malinconica viola che sfocia in un finale tanto drammatico quanto magnifico.

La parola fine vien in realtà posta da Jeremy Young, un compositore ed improvvisatore, dedito principalmente alla musica concreta con registratori, tape e nastri (à la Basinski per intenderci) che ci regala un’interpretazione commovente del Salut D’Amour di Edward Elgar, qui lievemente rallentata per aumentarne, se possibile, la potenza evocativa.

Questa colonna sonora è un lavoro che trasuda Henson in ogni brano, in ogni nota quasi, dai momenti più narrativi a quelli più cupi, per cui adesso è forte la curiosità di andarsi a vedere il film, per scoprire quanto di ciò che emerge dall’ascolto trova effettiva rispondenza nella pellicola.

 

Keaton Henson

Supernova OST

Lakeshore Records

 

Alberto Adustini

VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini

Contare la Musica: 6

Inedia. 

Etimologicamente il termine è composto dalla desinenza in -, privativa, ed – edia, mangiare, (edibile, per fare un esempio, ha la medesima radice). Nei dizionari il primo significato riportato è relativo alla mancanza di alimentazione, ovviamente, ma come spesso accade molte parole hanno più sfumature e nel nostro caso inedia assume anche un’accezione più figurata, spirituale, uno stato d’animo simile, anzi superiore alla noia, al tedio. Mi piace pensare che l’inedia, in quest’ultimo senso, si manifesti quando cessiamo di alimentare la nostra persona, interiormente, al di fuori ovviamente della banale routine scandita dalla colazione, dal pranzo, dalla cena e spuntini vari.

Avevo iniziato a buttar giù queste righe lo scorso venerdì 17 aprile, impulsivamente quasi, in un impeto di reazione allo stato mentale in cui mi trovavo, ovvero schiacciato in maniera allarmante dalla serialità che avevano assunto le mie giornate. Un andazzo che iniziava a gravare in maniera difficilmente sostenibile, sfociato in quello che per quanto mi riguarda è il segnale di allarme massimo: non sapere che musica ascoltare.

Oltre quaranta giorni di smartworking ormai sul groppone costituivano un fardello di tutto rispetto, inutile nascondersi, e sebbene tutto si può dire delle mie giornate tranne che si somiglino, sono parimenti inscritte in una sorta di macro routine che, alla lunga, può lasciare scorie (ad ogni modo, quanto bello è il termine parimenti?). Intendiamoci, il problema non era (è) lo smartworking, forse più grande invenzione dell’uomo dopo il pile, quanto piuttosto il dover rimanere chiusi in casa. Che non venga frainteso.

Quindi mi trovavo a scorrere Spotify, ignorando volutamente le playlist indie, gym, relax, e altri vili tentativi di spersonalizzarmi, preso dallo sconforto perché nulla pareva soddisfare le mie esigenze contingenti, quando è spuntata, in maniera del tutto inaspettata, la sagoma in controluce, china sul pianoforte, di un ragazzotto inglese a cui voglio un bene dell’anima, Keaton Henson. La copertina era quella di Impromptu On A Theme From Six Lethargies (Mahogany Sessions).

Ora non vi tedierò (non stavolta) sul mio amore di lunga data per questo straordinario, unico artista, però dopo aver fatto play per sentire questa inedita improvvisazione (impromptu appunto) tratta dal suo ultimo disco dello scorso anno Six Lethargies ed essere travolto letteralmente da cotanta magnificenza, ho ricevuto quella che in ambito religioso si potrebbe definire rivelazione, manifestatasi sotto forma di numero (no, non il 42): il numero 6.

Il 6, che è numero malvagio, pratico, oblungo, idoneo e scarsamente totiente, è anche il numero di lettere che compone la parola inedia e il numero di lettere che compone sia Keaton che Henson, che ha composto finora sei dischi, l’ultimo dei quali, Six Lethargies, contiene per l’appunto sei brani (ma dai???). 

Ora, che ci crediate o no, e sempre vi siate ripresi da questa serie di pazzesche, non volute, coincidenze, per molti anni, oltre venti, ho giocato a calcio. Non me la cavavo male, ma il punto è un altro: da un punto della mia carriera in avanti ho chiesto (e quasi sempre ottenuto) ai miei allenatori di farmi giocare con il numero 6, sebbene facessi l’attaccante o all’occorrenza il centrocampista. Perché? È presto detto: era il numero di maglia di Youri Raffi Djorkaeff, che militava nell’amalapazzainteramala. Il suddetto Djorkaeff, nell’anno del Signore 1997, in data 5/1 (che sommati, fatalità…), giorno nel quale la mia dolcissima madre festeggiava *****nta anni, realizzava un indimenticabile gol in rovesciata, che mi segnò a tal punto dallo spingermi, in pieno spirito d’emulazione e nel pieno dei miei quindici anni (le cui cifre sommate…), a voler giocare sempre col quel numero sulla schiena.

Concluso il momento amarcord non ho potuto non pensare che nell’ambito che più mi interessa, quello musicale, il sei ricorre in maniera quasi stucchevole, con rispetto parlando. Perché? 

È presto detto, e badate bene, questa è solo una selezione, tarata sui miei gusti, altrimenti potremmo fare le ore piccole. 

Bene, sei sono le tracce contenute in Spiderland degli Slint, il miglior disco di tutti i tempi. Sì, quello della copertina in bianco e nero dei ragazzetti in ammollo. Miglior disco di tutti i tempi. Segnatelo. E non poteva essere altrimenti. Ma sei sono le gemme incastonate in quel diadema che risponde al nome di Whatever You Love, You Are, dei Dirty Three, se avete voglia di un po’ di musica strumentale fatta da chitarra, batteria e dal violino ribelle di Warren Ellis. Se invece quello che cercate è una buona dose di malinconia, se volete dilaniarvi il cuore con uno dei dischi più struggenti mai concepiti, fiondatevi con tutte le dovute cautele su Down Colorful Hill dei Red House Painters, che si snoda su sei malinconiche pennellate.

Sulla distanza delle sei tracce è anche un altro dei miei dischi da isola deserta, quel Rusty, unico disco dei meravigliosi Rodan, se al post rock degli Slint volete aggiungere un pizzico di math. La progressione Rodan – Slint non può non continuare che con i June of 44, il cui Tropics and Meridians consta di esattamente sei tracce, tra le quali quella Anisette che rimane una delle migliori canzoni post/math rock mai scritte. Vediamo, chi manca all’appello? Ah già i For Carnation. Qual è il loro disco migliore? Beh, direi Marshmallow, così su due piedi, anche se l’omonimo The For Carnation, con quel miracolo di Emp Man’s Blues in apertura (all’inizio sentirete poco, poi il volume sale, abbiate pazienza), non è da meno. Vabbè, possiamo prenderli entrambi, hanno sei canzoni ciascuna. Che poi se parliamo di post rock, non possiamo prescindere dai ragazzotti di Chicago, i Tortoise, cervellotici quanto basta, non sempre centratissimi, ma quel loro Millions Now Living Will Never Die è un signor disco (grazie @fourgreatpoints per la segnalazione). Oltre che a contenere ovviamente sei brani. E ad avere un titolo di sei parole poi.

Seguendo un ordine diacronico, abbandonati quindi gli anni ’90 ed entrati in pompa magna negli anni ’00, quelli che più di tutti, nell’ultima “infornata” hanno saputo raccogliere l’eredità di mostri sacri quali Mogwai o Godspeed You! Black Emperor, rimanendo appunto in ambito post, ritengo siano gli Explosions In The Sky. Per cui credo sia giusto onorarli con la chiusa di questo divertissement, che per dirla alla V, vira verso il verboso: So Long, Lonesome, sesto (e ultimo ovviamente) brano di All of a Sudden I Miss Everyone.

Perché mai come nel mio caso risulta vero: sei quello che ascolti.

 

 

Alberto Adustini