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Tag: la tempesta dischi

Non Credere a Nessuno

Esiste un dolore persistente, un senso di disagio che attraversa generazioni diverse, che incastra le sue radici nelle anime più fragili e l’urgenza di raccontarlo diventa musica: è qui che si collocano i Sick Tamburo e il loro nuovo album Non credere a nessuno.

Era il 2007 quando Elisabetta Imelio e Gian Maria Accusani hanno fondato la band, dopo l’iconica avventura dei Prozac +, continuando a raccontare la vita attraverso un eterno atteggiamento punk che li ha resi dei capisaldi del panorama alternative rock italiano. Dopo la prematura e drammatica scomparsa di Imelio, l’inconfondibile poetica di Accusani ha continuato a dare vita al progetto musicale.

Mentirei se dicessi che ho sempre conosciuto i Sick Tamburo. Certo, il loro nome e la loro fama sono nel mio radar da anni e Spotify, con il suo implacabile algoritmo, mi ha spesso proposto i brani della band. La mia conoscenza era approssimativa fino a poche settimane fa: ma non è anche questa l’essenza dell’underground? Qualcosa scorre silenziosamente sotto la superficie e poi emerge con prepotenza, fa rumore, spacca il terreno e trovi un senso a tutte le tue emozioni complicate e, a volte, insopportabili. 

Arriviamo alle note, dolenti e no. Per sempre con me è la canzone che ha anticipato l’album Non credere a nessuno e vede la partecipazione di Roberta Sammarelli dei Verdena. Il ritornello entra in testa, una dolce melodia fonde le voci di Sammarelli e Accusani, che ci raccontano la storia di una ragazza apparentemente spenta e confusa che ha perso se stessa. Il brano propone una riflessione: “Hai perso la voglia di alzarti / Si parla di libere menti”. Un periodo buio può essere una conseguenza di una mente libera dalle costrizioni della vita? La sensibilità dei testi di Accusani è un varco che ci conduce verso nuove prospettive. 

Il colore si perde, altro singolo dell’album, ci mette davanti ai cambiamenti d’umore. Ogni sensazione che proviamo è passeggera, tutto è in continua evoluzione. È semplice vivere così? Forse sì o forse no, ma a volte è anche normale lasciare scorrere la vita così com’è, come sembra suggerire il brano Piove ancora. Possiamo sentirci impotenti di fronte alle disgrazie, ma possiamo tenerci stretti, farci compagnia e cercare di non sentirci soli. Il cambiamento d’umore è un tema molto presente nell’album e ne è un altro esempio Certe volte: “Certe volte basta poco / Per far venire il sole / Certe volte basta poco / Per farlo scomparire / Certe volte basta poco / Per fare il carnevale / Certe volte basta poco / Per fare un funerale.”

Il mio unico nemico è una canzone che racconta una verità che a tratti sembra scontata, ma che ci dimentichiamo spesso, come accade per tante banalità. “Cerco sempre un nemico cerco / Per non stare solo […] Ma il mio unico nemico / L’ho capito sono io / Non mi serve più cercare / Ho una faccia a cui sputare.” Quante volte, anche ironicamente, abbiamo sentito l’espressione “fare il dramma”? Forse è il dramma che fa noi, ci plasma, ci dà un senso, crea un movimento nella nostra vita e ne diventiamo dipendenti. Qual è la linea da non superare?

Non credere a nessuno è un disco che attraversa le fasi inevitabili della vita: l’abbandono, la perdita, il bisogno di aiuto, la consapevolezza di sé e il commiato definitivo che porta dolore e lascia spazio a nuove persone pronte a confondersi nel mondo. La malinconia è contagiosa, ma ci dà una sicurezza in più: per ogni emozione che ci sembra strana e insopportabile, per ogni cambiamento d’umore, per ogni tunnel buio e apparentemente senza fine e per ogni addio che dobbiamo dire, la musica dei Sick Tamburo è un abbraccio che ci fa sentire compresi. 

Sick Tamburo
Non Credere a Nessuno
La Tempesta Dischi/Believe

Marta Massardo

Moltheni “Senza Eredità” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ne è passato di tempo, caro Moltheni. 

Dopo undici anni da Ingrediente novus, esce Senza Eredità per La Tempesta Dischi. 

Quest’album recupera, riadatta e completa quelle canzoni che non avevano trovato posto in nessun disco di Moltheni (Umberto Maria Giardini) dal 1998 e rappresenta la chiusura di un progetto senza eredi, senza eredità.

Non è stato affatto facile trovare le parole per descrivere questo ascolto. Lo ha detto Moltheni stesso in Spavaldo: “La mia identità puoi tradurla ma il vocabolario non ce l’hai”, ed è proprio vero.

Questo disco è un tuffo nell’indie-rock e negli anni Novanta ma non solo. Gli organi e il Rhodes piano mi riportano anche più indietro, ai tempi di Stevie Wonder. Così, l’outro funkeggiante di La mia libertà, pezzo in apertura dell’album, trasmette quella sensazione di leggerezza definendo la libertà come “Il dito medio temerario [che] attende tranquillo che arrivi il mio turno con te”.

La stessa leggerezza che ritrovo in Estate 1983. Il ritorno all’adolescenza è dolce come una carezza e fa riscoprire i sapori delle piccole cose. Gli arpeggi sono un treno ed ogni fermata è un ricordo lontano. La destinazione sembra essere la nostalgia, un sentimento che cresce sul finale del brano ma che Moltheni scaccia grazie al mantra: “ignorare il tempo”. 

A dispetto del titolo, Il quinto malumore ha lo sprint necessario per essere considerato il pezzo più rock di questo album. Le chitarre me lo confermano. 

Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti è l’ascolto che chiude l’album. In questo periodo di difficile gestione psicologica, la ripetizione incessante della “follia che abitava abusiva in un appartamento della mente mia” mi abbraccia e si insinua nella mente, tanto da farmi sentire quel disagio.

Questo disco dalle mille sfaccettature affronta una grande varietà di temi: la libertà, l’amore, la verità, il dolore, temi costanti e senza tempo, temi che non si esauriscono. E forse, proprio per questo, non è del tutto vero che la chiusura di Moltheni sia “Senza Eredità”. 

 

Moltheni

Senza Eredità

La Tempesta Dischi

 

Cecilia Guerra

Giorgio Canali & Rossofuoco “Venti” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ma come accidenti si fa a recensire un disco del genere? È una vergogna!

Per quale assurdo motivo dovrei parlare di questo disco? Io me lo tengo per me. Solo per me.

Come quelle cose belle e preziose, che vuoi proteggere da occhi indiscreti e assetati, avidi e inconsapevoli, immeritevoli perfino; e poterne godere da solo.

Dai capita a tutti, questa sensazione. La provo, la si prova, quando troviamo qualcosa di bello, diventiamo gelosi, egoisti, immaturi. 

Con la musica accade, per esempio, quando il nostro gruppo underground si fa popolare, mainstream. A Giorgio Canali frega un cazzo del mainstream. E io ne sono contento.

Ma allo stesso tempo dico: “Porco cane! La bellezza bisogna condividerla! In culo a chi non saprà apprezzarla, m’importa una sega, sai ma fatta bene.”

Tutta questa premessa per parlare di un disco di cui io, in realtà, non vorrei parlare. 

Non fanno per me le recensioni, le descrizioni, i tecnicismi, gli elenchi. Per cui parlerò delle sensazioni, dei riferimenti a cui mi rimanda, delle bestemmie, delle risate, delle lacrime. 

Parlerò di me. Megalomane! Egoist!

Eh sì, perchè quando ascolti un disco, poi diventa tuo, nel senso più umano del termine. Sei tu.

Come quando esco a fotografare; un paesaggio, una persona, una situazione. Anche se non sono presente fisicamente nel fotogramma, in quella foto ci sono io, sopratutto io. Così nella musica.

Seguo Giorgio Canali & Rossofuoco dal loro secondo album, me ne innamorai subito. 

Non per il passato di Giorgio (CCCP, C.S.I., PGR), ma perché quell’album mi arrivò dritto in faccia come una badilata e mi scosse i neuroni. Era il 2004.

Sedici anni dopo esce Venti, ottavo album della band capitanata da Canali.

Inghiottisco l’album, poi lo rigurgito, poi inghiottisco ancora, e lo rigurgito. In loop.

Ne escono delle emozioni, dei pensieri, brividi, rabbia, imprecazioni, lacrime, malinconia, sorrisi, insoddisfazione, impotenza. No resilienza no! Per Dio!

Venti tracce, un album doppio, c’era troppo da dire. 

Il tempo non mancava per pensare e scrivere durante la scorsa primavera. E Giorgio Canali, che non le manda a dire, butta tutto in musica e parole quello che gli frulla in capo. Che mai è scontato. Ed è un privilegio. 

Lo stile è riconoscibile, la voce inconfondibile. Le chitarre di Giorgio sono un must, qui affiancate da un immenso Stewie Dalcol (Frigidaire Tango). Le percussioni di Luca Martelli (Litfiba, Piero Pelù, Atroci) danno un ritmo perfetto e sostenuto a tutto. Lo si vede, e si sente, sopratutto nei live dei Rossofuoco. E Poi Marco “Testadifuoco” Greco, con quel basso che a volte tira un po’ indietro alla Maroccolo, che tanto piace a Canali. Ingredienti e dosi perfette!

È un album, Venti, che è la perfetta e naturale continuazione del precedente Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro, fatto del solito pessimismo cosmico, solitudine (non vista con accezione negativa), senso critico, schiettezza, amore e malinconia, una visione noir del mondo che continua ad andare contro un muro a velocità smodata. Consapevolezza, sempre.

A volte, ascoltandolo, mi viene da pensare a una frase che spesso si usa per apostrofare gli sprovveduti: ve l’avevo detto io!

Nel 2004, in tempi non sospetti, il brano Questa è una canzone d’amore recitava cosi: “..epidemie terrificanti, nuovi contagi e vecchi mondi da evitare e noi qui infila a farci rivaccinare che tanto questa è una canzone d’amore.” Chapeau!

Questa pandemia, con le sue conseguenze sociali, economiche e politiche ha fatto ribollire il sangue a Canali che da sempre ha una visione critica e autocritica di ciò che lo circonda, è palese. Ciò non significa dire sempre NO! Piuttosto di vedere le cose da diversi punti di vista, che non per forza devono essere giusti o sbagliati. Questo fa l’ex C.S.I. nei suoi album. Questo è quello che vedo io perlomeno. 

E lo fa meravigliosamente anche in questo doppio album Venti: venti come i brani, e come questo duemilaventi funesto, ma quanto mai rivelatore. Diciamoci la verità; è un anno che ci ha fatto riflettere, su ogni cosa. Poi a ognuno le sue conclusioni.

Quindi, per stringere un po’, in questo album c’è tutto Canali, è proprio lui, senza filtri e manierismi, politicamente scorretto e socialmente diretto. 

Si apre con Eravamo Noi, un viaggio a ritroso negli anni per poi guardare al futuro, poi la ballad noir Morire Perché, primo singolo estratto dall’album. Prosegue con Nell’aria, un racconto fulgido di quello che abbiamo vissuto quest’anno, tra paura e libertà negate. Inutile e irrilevante è invece un elenco di “mostri” di cui possiamo anche non preoccuparcene più perché ora abbiamo un altro mostro da affrontare. 

A proposito di elenchi; non volevo farne, ma ho perso il controllo. Ora smetto. Non serve, è inutile e irrilevante.

Posso dire con assoluta sincerità che è un bellissimo album tagliagola, in cui le chitarre graffianti e ululanti di Canali e Dalcol si fondono con il combat rock stile Clash e le armoniche folk in stile Bob Dylan. Questo non che cambi i connotati al suono dei Rossofuoco, che è ben presente e vivo; ma c’è un tocco in più, qualche raffinatezza stilistica forse anche dovuta dal tempo a disposizione durante il lockdown. 

Posso dire, inoltre, che c’è spazio per l’incazzatura, la lucida malinconia, la solita consapevolezza come già citata, un pizzico di amore, forse anche di delusione; tutto ben amalgamato.

Posso anche dire che è un album ricco di citazioni d’autore, una su tutte, la più facile, De Andrè.

Il disco si chiude egregiamente con un brano, Rotolacampo, che sembra un brano uscito da un disco di Bob Dylan e che è la firma perfetta, la chiosa di uno sfogo diretto e senza perbenismi, ed inizia così: “È ora di andare dai, basta pensare, partire, ruzzolare via, si è dato già troppo tempo al tempo e via, come un rotolacampo, è ora di spargere in giro semi di follia.”

E qui finisco anche io, da dire ce ne sarebbe sempre tanto, ma come sempre la cosa migliore quando si parla di musica, è ascoltarla.

Quindi fatevi un regalo con questo disco, in alternativa “Fatevi Fottere”(cit.).

 

Giorgio Canali & Rossofuoco

Venti

La Tempesta Dischi

 

Siddharta Mancini

Animatronic “REC” (La Tempesta Dischi, 2019)

E non sono pupazzi!

 

È uscito REC, il primo album degli Animatronic per La Tempesta Dischi. 

Luca Ferrari alla batteria, Nico Atzori al basso e Luca “Worm” Terzi alla chitarra, hanno registrato in presa diretta il loro primo lavoro, un disco composto da 15 tracce strumentali (sono pochissimi gli interventi vocali) con le sonorità del rock progressivo. Gli Animatronic ci coinvolgono in un mondo di intrecci musicali, di tempi dispari ma anche di melodie ambient e riprese grunge.

Teddy Red & Jenny Ride è la traccia che apre l’album e non poteva essere altrimenti. Frammenti prorompenti e frenetici si alternano a passaggi dalle contaminazioni jazz quasi a ricordarci “di come i Weather Report erano forti”.

Si prosegue con il singolo Fl1pper#, pezzo che incarna il gioco in ogni suo componente. Tu sei la biglia e gli Animatronic sono le alette del flipper: ti spingono su per la rampa di lancio e ti sbalzano ovunque, ti lasciano scivolare giù per poi farti rimbalzare sui bumper. Spingono talmente forte che finisci in TILT.

Le immagini continuano con In Cubo, fantastico gioco di parole che rappresenta a pieno la sensazione che trasmette la traccia. Ci si sente come rinchiusi in un posto buio, un cubo senza via di uscita. Lo strumentale angosciante e minaccioso è più lento rispetto al resto del disco e la chitarra conserva una nota insistente, che ti ossessiona come la voglia di uscire alla luce del sole. Improvvisamente ha inizio la lotta, le pareti si spaccano ma dalle crepe non entra nessun bagliore. Si esce dal cubo ma non dall’incubo.

Ghostreck è la nona traccia, la più romantica, nostalgica, forse anche struggente. Ma ogni pezzo non è ciò che sembra e cambia in continuazione pur mantenendo una circolarità interna. 

Questo accade in Zabran, dove esordisce una chitarra funky che si smentisce pochissimi secondi dopo, passando a fraseggi così rapidi tanto da proiettarti in un mondo riprodotto al doppio della velocità.

Fanki!? sorprende con voci sospirate, serpentesche, molto contemporanee che rendono il disco, registrato in presa diretta, ancora più vivo e se possibile ancora più live.

L’album, pur essendo quasi completamente strumentale, non annoia mai. La musica degli Animatronic nasce dal piacere e dalla voglia di suonare, quindi non c’è spazio per la monotonia, non c’è spazio per la noia. REC non è il disco “che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno”. 

 

Animatronic

REC

La Tempesta Dischi, 2019

 

Cecilia Guerra