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Things Are Great è il disco che i Band of Horses hanno fatto come volevano

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Dopo quasi sei anni da Why Are You OK, i Band of Horses tornano con un nuovo album, Things Are Great, che – già dal titolo – promette alquanto bene. Tante le novità: la formazione in parte rinnovata, un produttore di talento ed un songwriting più trasparente e sincero che mai. Come lato complementare della medaglia, invece, ciò che non cambia è il suono iconico del gruppo di Ben Bridwell che ritorna alle origini, caratterizzate da un sound ancora più indie ed alternative rock. Abbiamo approfondito questi aspetti –  e molti altri! – nell’intevista con il batterista Creighton Barrett. Inevitabili anche i riferimenti alla sospensione, musicale e planetaria, connessa alla pandemia ed una menzione finale a The Funeral, che, poco tempo fa, abbiamo ritrovato come soundtrack d’eccezione in una serie TV italiana di grande successo. Ricordate quale?

 

Ciao Creighton e grazie di essere qui con noi! Partiamo parlando del nuovo album Things Are Great, fuori dal 4 Marzo dopo quasi sei anni dal vostro ultimo disco. Nonostante sia passato un po’ di tempo, è possibile che certe atmosfere latenti e qualche ispirazione fossero già presenti in Why Are You OK? Come se quel disco, oltre ad avere una connessione nel titolo, contenesse già una fine per un nuovo inizio?

“Si, beh, abbiamo avuto diversi membri che sono andati e venuti dall’ultimo disco: non è una novità, la nostra lineup cambia piuttosto regolarmente, nel bene e nel male. Ma si, penso che questa sia una continuazione nel senso che Why Are You OK è stato un disco che abbiamo fatto distintamente per fare il disco nel modo che volevamo fare il disco, in contrapposizione, forse, non tanto ad avere influenze dall’esterno ma forse tornare alle origini di noi (come band, NdT), solo per il gusto di fare i dischi che vogliamo fare e i dischi che vogliamo ascoltare. Pertanto, penso che questo nuovo disco Things Are Great sia ancora più tutto questo, questo essere quei ragazzini punk rock che eravamo abituati ad essere e non preoccuparci troppo di quello che la gente possa pensare: facciamo solo questo disco al meglio per noi e facciamo meglio che possiamo.
Penso che questi due ultimi dischi segnino definitivamente una sorta di separazione dal disco precedente a Why Are You OK, che è stato una specie di esercizio, con qualcun altro che ci diceva in che direzione andare e come farlo, e questo non ha proprio funzionato bene con noi. Quindi abbiamo preso le redini in mano.”

 

In termini di sound, possiamo ritrovare il suono iconico dei Band of Horses. Tuttavia, nella produzione dell’album il contributo di Ben Bridwell, che ha anche lavorato tanto con il tecnico del suono Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, ha avuto molto più peso del solito. Cos’è successo in quella fase del processo e come sono andate le sessioni di registrazione?

“Avevamo iniziato il disco con il nostro precedente produttore da Why Are You OK, Jason Lytle, che viene da un gruppo favoloso chiamato Granddaddy. Avevamo fatto Why Are You OK con lui ed era stato grandioso, ma abbiamo iniziato le sessioni per Things Are Great di nuovo con lui e qualcosa non girava nel modo giusto, semplicemente non lo sentivamo bene.
Abbiamo registrato qualche traccia con Jason e ci siamo presi un po’ di tempo e abbiamo suonato qualche concerto e ci siamo seduti con quello che avevamo fatto fino a quel momento. Non eravamo dove pensavamo di dover essere e abbiamo deciso che, fondamentalmente, dato che eravamo all’inizio del processo non sarebbe poi stata questa gran perdita se ci fossimo detti “Sai cosa? RIcominciamo da capo!”.
Abbiamo questo buon amico che vive nella nostra città – che è Charleston, South Carolina – che si chiama “Wolfie” Wolfgang Zimmerman. È questo ragazzo più giovane di noi che fa della gran bella musica con queste band locali nella nostra città, e faceva delle gran belle cose in un ripostiglio, neanche in un vero studio. Quindi, se questo ragazzino è così talentuoso da far suonare queste band in modo così incredibile senza neanche essere in un vero studio, cosa succede se lo piazziamo in uno vero? La cosa ha funzionato in modo fantastico e penso che sia per Ben che per me – posso parlare a nome di entrambi – Wolfie sia stato una ventata d’aria fresca. È arrivato dicendo “Voglio che voi ragazzi suoniate come voi stessi”, che è una cosa che sai, la gente ti dice sempre quando ti metti a fare un nuovo album, ma le cose vengono tirate di qua e di là, in certe direzioni che poi finiscono per esserci tolte di mano. A volte, e questa volta è stato così, tutto quello che voleva fare è stato aver fiducia nel tornare indietro al modo in cui abbiamo fatto i nostri primi dischi. Ben e io non abbiamo nessuna educazione musicale, siamo autodidatti nel suonare i nostri strumenti e penso che Wolfie abbia voluto affinare questa cosa, più che fare un qualcosa che suonasse grandioso, ha solo voluto che suonassimo come quando siamo con i nostri strumenti e far musica. Che alla fine è come suona il disco, credo. Risposta lunga, sorry!” (ride)

 

Nella vostra discografia, i testi rappresentano una parte fondamentale di ogni disco: che storie raccontano le canzoni di Things Are Great? C’è una traccia a cui sei particolarmente affezionato?

“La mia traccia preferita dell’album s’intitola Ice Night We’re Having ed è questa sorta di galoppata veramente strana, una canzone che suona veramente indie rock, che è un po’ il mio cuore. Questa è la mia canzone preferita.
Per quanto riguarda i testi, Ben stava attraversando un sacco di situazioni pesanti durante la creazione di questo disco. Pertanto non posso veramente rispondere riguardo al contenuto dei testi, ma Ben davvero viene fuori (in quello che scrive, NdT) e pensa davvero a cosa sta dicendo. Ma penso che questo disco sarebbe comunque venuto fuori: abbiamo dovuto posticipare a causa della pandemia e di tutto ‘sto casino in cui siamo tutti; penso che questo lo abbia aiutato a scrivere le parole in un modo forse di più facile accesso, dato che tutti stiamo in qualche modo vivendo tempi difficili. Penso sia più facile abbattere quei muri che probabilmente aveva precedentemente messo su; adesso che siamo tutti in una situazione un po’ merdosa, le sue parole su questo disco si prestano ad essere più dirette che nei dischi precedenti, dov’era più come “Guarda, un po’ capisco cosa sta passando questo ragazzo anche se io sto passando qualcosa di totalmente diverso”, mentre adesso la cosa si presenta in modo molto più ovvia per tutti noi.”

 

Cover band of horses

 

Il titolo dell’album suggerisce un’accezione positiva, potremmo quasi dire una specie di proposito. Tuttavia, all’interno della tracklist troviamo canzoni come Tragedy of the Commons, In The Hard Times o In Need of Repair che si riferiscono a situazioni complicate. Lo scombussolamento planetario causato dalla pandemia ha influenzato la scrittura dell’album in qualche modo? Come avete vissuto o state ancora vivendo questi anni di sospensione e lontano dai palchi?

“In Luglio, la scorsa estate, abbiamo finalmente avuto il via libera per suonare i nostri primi concerti ed erano due concerti in preparazione al Lollapalooza. Abbiamo suonato qualche concerto, siamo tornati alla nostra vita, ma durante quell’anno o poco più di distacco, metti in discussione un sacco di cose: per dirne una, stavamo seduti su questo disco, che era finito, e il tempo senza far niente può diventare davvero orribile. Hai troppo tempo a disposizione per pensare “È un buon disco? Fa schifo?”
È stato così tanto tempo nella fase di creazione, come una specie di quadro che non finirai mai. Ad un certo punto devi mollare. Quel periodo è stato particolarmente duro per tutti noi, non solo finanziariamente: sai, Ben e io abbiamo entrambi famiglia, abbiamo dei bambini e gestire il tutto è stato difficile.
Ma ci ha anche fatto mettere in discussione un sacco di cose su cui forse prima non ci siamo mai fatti domande. È stato come se tutto si fosse fermato, non c’erano manuali d’istruzione, nessuno sapeva cosa fare, nessuno sapeva cosa farsene. È sembrato che per la prima volta – anche quando ci sono stati tracolli finanziari e simili, la gente continuasse ad andare a spettacoli e la gente continuava ad andare al cinema, come durante la Grande Depressione, la gente aveva uno sfogo artistico – per la prima volta non fosse una possibilità contemplata (quella di fare arte, musica, NdT). E quindi quando arrivi al punto di “Cosa ne facciamo dei musicisti che suonano live?” nessuno sapeva cosa fare. Tutto durante la pandemia era così focalizzato al non far succedere che era davvero opprimente. Era difficile pure arrivare al concetto di “Merda!”.
Abbiamo fatto questo per vent’anni ed è una specie di seconda natura per noi. Per i primi mesi non sapevamo neanche cosa ci stava colpendo. Era tutto un “Wow, iniziamo qualcosa di nuovo? Lo facciamo? Non faremo più nulla di tutto questo?” Nessuno aveva nessuna risposta, era tutto pazzesco e per fortuna il cielo si è rischiarato un po’ e abbiamo ricevuto le email per questi concerti pre-Lollapalooza e finalmente è stato “Cazzo, si!”.
Insomma, tempi folli…”

 

Non so se sei al corrente che la vostra canzone The Funeral è stata recentemente usata in una produzione Netflix Italia intitolata Strappare Lungo i Bordi. È un colpo di grazia emotivo, non appena le note inconfondibili della sua intro attaccano, il protagonista raggiunge l’apice del suo viaggio interiore verso la presa di coscienza e accettazione della realtà che sta vivendo. Com’è il tuo rapporto con questa canzone in particolare, che ha fatto così tante apparizioni sia sul piccolo che grande schermo, solitamente per sottolineare momenti intensi (e spesso pieni di lacrime)?

“Ad essere onesti, il peso di quella canzone non mi aveva veramente colpito finchè non abbiamo iniziato a suonarla dal vivo e allora è diventata tutta un’altra cosa. È stato come… nel bene o nel male, ci sono persone che conoscono solo quella canzone, e sono lì, agli spettacoli, che aspettano solo quella specifica canzone, e noi che dobbiamo piegarci a fare il nostro spettacolino con la consapevolezza che “Tu non arrivi alla fine del concerto”. Questo è un aspetto della cosa. Ma ad essere perfettamente onesti, non è mai un’occasione persa per me suonare quella canzone, perchè la sala cambia, significa così tanto per così tante persone in così tanti modi diversi. Non solo per qualcuno che ha veramente subito una perdita… è un suono identificativo per le vite di così tante persone ed essere parte del gruppo che lo ha fatto, ne sono follemente grato. Amo l’uso che ne viene fatto nei film perchè è la canzone perfetta per quella roba. È evocativa di suo e non posso neanche immaginare quanto sia evocativa per la gente che l’ha sentita e un po’ se l’aspettano. Ma per quello che mi riguarda, non perderà mai la sua meraviglia. La gente continua a metterla nei film… questo è un gran bell’uso di quella canzone! Ancora e ancora! Funziona! È somatica e cinematica in modo ovvio. Penso sia fantastica. Lo show (Strappare Lungo i Bordi, NdT) è bello?”

 

Si, è veramente una bella produzione. È un fumetto animato di Zerocalcare, un comic artist davvero talentuoso e molto conosciuto in Italia. Pensavamo fosse sarcastico e invece, alla fine, quando The Funeral attacca, siamo scoppiati tutti in lacrime. È davvero un’esperienza di formazione.

“Wow! Zerocalcare? Ci darò un’occhiata, grazie!”

 

Laura Faccenda
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni
Foto: Stevie and Sarah Gee

Things Are Great is the record Band of Horses made the way they wanted to

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After almost six years since Why Are You OK, Band of Horses are back with their new album Things Are Great. Many are the news on this record: the band lineup partially renovated, a talented producer and the most sincere and transparent songwriting ever. To balance this out, what does not change is the iconic sound of Ben Bridwell’s band, that circles back to its roots and their indie and alternative rock attitude. We dug into these topics – and many more! – with drummer Creighton Barrett, touching also the global suspension of our lives due to the pandemic and, last but not least, a question about The Funeral, that we have recently found in the soundtrack of a successful Italian Netflix production.

 

Hello Creighton and thanks for being here with us. Let’s start talking about your new album, Things Are Great, out on March 4th after almost six years since your last release. Although some time has passed, is it possible that some underlying atmospheres and inspiration were already seeded in Why Are You OK? As if that record, besides having a connection within the title, already contained an end and a new beginning?

“Yes, well, we’ve had some different members that have come and gone since the last record: that’s nothing new, our lineup changes pretty regularly for better or for worse. But yes, I think this is a continuation in the way that Why Are You OK was a record that we made distinctively to make the record the way that we want to make the record, as opposed to, maybe, not so much outside influence but maybe getting back to the roots of us, just making the records that we wanna make and the records that we want to listen to. So, I think this newest record Things Are Great is even more of that, of been the little punk rock kids we used to be and not worrying so much about what other people are gonna think: let’s just make this record the best for us and make the best that we can.
I think those two records definitely show a bit of a departure from the record before Why Are You OK, which was kind of exercise, with someone else kind of telling us which way to go and how to make it, and that didn’t sit very well with us. So we kind took the reins.”

 

In terms of sound, we can find the iconic sound of Band of Horses. However, in the production of the album the contribution of Ben Bridwell, who also worked a lot with the sound technician Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, had much more weight. What happened at that stage of the process and how did the recording sessions go?

“We had started the record with our previous producer from Why Are You OK, Jason Lytle, who is from a fantastic band called Granddaddy. We made Why Are You OK with him and it was great, but we started the session for Things Are Great with him again and it just wasn’t vibing properly, just it didn’t feel right.
We recorded a few tracks with Jason and kind of had some time and we played some shows and kind of sat with what we’ve done thus far. It just wasn’t where we thought we should be and we decided that it was so early in the process that it wasn’t too big of a loss just to be like “You know what? Let’s start again!” basically.
We have a great friend that lives in our town which is Charleston, South Carolina, named “Wolfie”, Wolfgang Zimmerman. He’s this younger kid who’s making really great music with these local bands in our town, and he was doing really great things out of the storage shed, it wasn’t even a real studio. So, if this kid is that talented where he can make these bands sound incredible with not being even in a real studio, what happens if we put him into a real one? We worked out fantastically and I think to Ben and I, I can speak for both of us, Wolfie was just a breath of fresh air. He came into it, saying: “I want you guys to sound like you guys”, which, you know, people always say they do when they go to make a new record but things get pushed, things get pulled in certain directions outside your hands. Sometimes, and this time, all he wanted to do was to trust to go back to the way we made our earlier records. Ben and I don’t have any musical training, we taught ourselves how to play our instruments and I think he wanted to hone in on that, more than try to make grandiose sounding thing, he wanted us to just to sound like we were with our instruments and making music. Which is what it sounds like, I think. Long answer, sorry” (laughs)

 

Within your discography, lyrics represent a fundamental part of every record: what stories do the songs on Things Are Great tell? Is there a track you are particularly fond of?

“My favorite track on the record is called Ice Night We’re Having which is just this really weird kind of gallop, really indie rock sounding song, which is kind of my heart. That’s my favorite song. As far as the lyrics go, Ben was going through a lot of heavy stuff during the making of this record. So I can’t really answer so much for the lyrical content, but Ben, he really comes over and really thinks about what he’s saying. I do think on this record, he said in previous interviews, I don’t know, it’s as if he’s a bit more unmasked in this record. But I think this record would have come out: we’ve got pushed back because of the pandemic and of this shit that everyone’s been in, I think it helped him to write the words to where maybe it’s easier to access them in a way everyone’s going through kind of a bad time right now. I think it’s easier to break down those walls that maybe he had in place previously to where everyone is kinda like in a shitty situation and his words on this record lend themselves in a little bit easier than past records, where it’s like: “Look, I kind of feel what this guy is going through and even though what I’m going through is completely different”, it paints a pretty easy picture for all of us.”

 

Cover band of horses

 

The album title hints to a positive meaning, we could say of “purpose”. However, within the tracklist we find songs like Tragedy of the Commons, In The Hard Times or In Need of Repair that refer to complicated situations. Did the planetary upset caused by the pandemic influence the writing of the album in any way? How did you live or are you still living these years of suspension and away from the stage?

“In July, last summer, we finally got the go ahead to play our first few shows and it was two shows leading up to Lollapalooza. We’ve played some shows, got back at it but, that year or so off, you question a lot of things: for one, we were sitting on this record and it was done and you know, idle time can be so horrible. You just have more time to think about “Is it a good record? Does this suck?”.
It’s been so long in the making, It just kind of like a painting you’ll never finish. You just let it go. That time was pretty hard for all of us, not just financially, you know, Ben and I both have families, we have children, so trying to navigate that was of course rough.
But it also made you question a bunch of stuff that maybe we didn’t get the question before. It was just like everything just came to a stop, there’s nothing on the books, no one knew what to do, no one knew how to do anything with it. It seemed that for the first time – even when there’s been financial breakdowns and stuff before, people still went to shows and people still went to the movies, like in the Great Depression and stuff like that, like they had this artistic outlet – for the first time that wasn’t even possibility. And so when you break it down to “What about musicians who played live?” ,no one knew what to do. Everything during the pandemic was focused on not letting that happen, it was so overwhelming. It was hard even break it down to like “Shit!”.
We’ve been doing this for twenty years and it’s such a second nature to us. For the first few months, we didn’t even know what hit us. It was just like: “Wow, Do we start something new? Do we? Do we not do this anymore?” No one had any answers, it was pretty crazy and luckily the clouds lifted and we got the emails about going to play those two warm up shows for Lollapalooza and it was just like… “Holy shit, it’s back”.
So, it was crazy time…”

 

I don’t know if you’re aware that your song The Funeral has been recently featured in an Italian Netflix production titled Tear Along The Dotted Line. It’s an emotional coup de grâce, as soon as the notes its signature intro start sound, the protagonist reaches the climax of his inner journey towards self-awareness and consciousness of the reality he’s living. How is your\the band relationship with this particular song, that made so many appearances both on the big and the small screen, usually to underline intense emotional moments?

“To be honest, the weight of that song didn’t really hit me till we started playing it live and then it just becomes this other thing. It’s like, for better or for worse, ‘cause there are some people that only know that song, in, there, at the show, they’re just waiting for that song, so we have to do our showbiz act which is like “You don’t get to the end”, that little act. That’s one side of it. But to be perfectly honest, it’s never lost on me playing that song live for people because the room changes, it means so much to so many people in so many different ways. Not just about like someone actually losing somebody… it’s an earmark for so many people’s lives and to be a part of a band that did that, I’m insanely grateful for it. I love the use of it in movies because it is a perfect song for that stuff. It resonates and I can’t ever tell that resonates ‘cause people have heard it and they’re going to expect it, you know? But it’s still to me at least my side, it doesn’t ever lose its awesomeness. People keep putting it in movies…that’s a great use of that song, yet again! It works there! It’s obviously somatic and cinematic. I think it’s great. Is that show good?”

 

Yes, it was a really good production. It’s actually an animated comic by Zerocalcare, who is a very talented comic artist and is very successful in Italy. We thought it was sarcastic but instead, at the end, when The Funeral started, we all burst into tears. It was a very coming of an age experience.

Wow, Zerocalcare? I’ll look him up, thanks!

 

Laura Faccenda
Editing and translations: Francesca Garattoni
Photos: Stevie and Sarah Gee

Basia Bulat “The Garden” (Secret City Records, 2022)

È cresciuta ascoltando una stazione radio da cui risuonavano vecchi classici. Nella stanza di Etobicoke, un sobborgo di Toronto, Basia Bulat imparava a memoria le canzoni di Sam Cooke, Stevie Nicks, Sandy Denny, Abner Jay, carpendo anche segreti e suggerimenti dalle lezioni di pianoforte e chitarra che la madre dava ai propri studenti. Nel 2005, il suo EP d’esordio – ancora acerbo ma dalla strabiliante personalità – arrivava alle orecchie degli addetti ai lavori della Rough Trade, pronti a spalancare alla giovane promessa le porte dello studio di registrazione Hotel2Tango a Montreal, culla delle opere più famose di Arcade Fire e Silver Mt.Zion.

Dopo innumerevoli paragoni superati con fierezza – il più ingombrante, forse, quello con Joni Mitchell – cinque album accolti con favore dalla critica e palchi internazionali condivisi con artisti del calibro di The National, Nick Cave, St.Vincent, Sufjan Stevens, Beirut, Basia Bulat ha conquistato, a ragione, una posizione autoriale tra le voci più interessanti della sua generazione.

Con l’ultimo album, The Garden, pubblicato per Secret City Records, la cantante raccoglie i brani più amati del suo repertorio, impreziosendoli di una nuova anima orchestrale, già sperimentata grazie alla collaborazione – soprattutto live – con esclusive ensemble da camera e con orchestre complete, tra cui l’Ottawa National Artist Center Orchestra e la Symphony Nova Scotia, per un’esperienza di ascolto che coniuga la sensibilità classica al folk-pop contemporaneo.

Gli arrangiamenti per quartetto d’archi di Owen PallettPaul Frith e Zou Zou Robidoux, uniti al songwriting fluido e sincero di Basia, rimandano, da una parte, a colonne sonore di stampo cinematografico e, dall’altra, a passaggi musicali idillici, quasi bucolici. Dimensione, questa, collegata direttamente al titolo del disco e alla title track, manifesto artistico dell’intero lavoro sia come struttura – nessuna delle tracce, tra apici ritmici e distensioni melodiche, si discosta da uno stile univoco – sia come “collettore” tematico. Con The Garden in qualità di primo singolo estratto, Basia Bulat esprime un’urgenza di evoluzione, seguendo un andamento spontaneo, proprio come quello della natura. 

È lei a scandire la propria necessità di rallentare, in termini personali e professionali, riflettendo sulle tappe fondamentali del suo percorso, sui ricordi, sulle radici. Risulta calzante, infatti, la metafora del giardino: uno spazio privilegiato e protetto dove niente rimane invariato. Piante e fiori nascono, crescono, appassiscono in un ciclo vitale di rigenerazione. Un ciclo che ritorna nel brano omonimo, come dichiarato dall’artista: “Quando ho scritto The Garden [nel 2016], ero in uno stato mentale distorto. È come se mi avesse preso per mano, suggerendomi di mantenere la calma. We won’t look back / And if we don’t we won’t be lost. Mi ha detto di respirare nel presente e guardare verso il futuro”.

La resa, curata da Pallet, vivifica tali processi e si allunga in virtuosismi chiaroscurali di matrice orchestrale, lasciando immaginare delle correnti che trasportano petali, spine, germogli e foglie ormai secche, in un vento magico, di cambiamento verso un’altra stagione di fioritura. E benché il nome di Pallet, di recente, sia stato accostato anche al nome di Taylor Swift, la scelta di registrazione in studio “rinnovata” di Basia non è accostabile a quella della pop star. “Adesso canto queste canzoni in maniera diversa: è un dono del tempo. Nel disco ho avuto anche la possibilità di incanalare alcune influenze derivate dai musicisti che amo”. 

Da Marek Grechuta, con cui Basia Bulat condivide radici polacche, a Björk con la versione per quartetto d’archi di Hyperballad sino a Cat Power per il coraggio nella reinterpretazione delle cover, The Garden è uno scenario di suggestioni sempreverdi, illuminate da una scintilla creativa inequivocabile. Complice anche una sorprendente notizia: l’artista ha scoperto di aspettare una bambina durante le sessioni in studio: “È stata una gioia immensa. Ed una responsabilità nel percepire la sua crescita come qualcosa che sfugge al controllo, lo stesso che avviene con la natura. Lo dobbiamo accettare e, in fondo, si prova una sensazione liberatoria”. 

 

Basia Bulat

The Garden 

Secret City Records

 

Laura Faccenda 

Roberto Angelini, dall’urgenza espressiva a chiavi inedite per portali musicali

Pubblicato il 25 Novembre 2021 per la sua etichetta FioriRari, il nuovo disco di Roberto AngeliniIl Cancello nel Bosco – ci accompagna in un viaggio che alterna tappe cantautoriali a respiri strumentali, pur mantenendo sempre la bussola verso un Nord da rintracciare spontaneamente, in modo naturale e naturalistico, come richiamato dall’immagine nel titolo. Un ritratto coerente con il mood contemporaneo del musicista e produttore romano, per un risultato multicolore tra ispirazione autoriale, sperimentazione, alberi genealogici e portali verso nuovi mondi. 

 

Ciao Roberto, grazie per essere con noi. Inizio da una domanda “panoramica”. Ho visualizzato il tuo ultimo album, Il Cancello nel Bosco, come un’opera di collezionismo da hard disk di infiniti momenti trascorsi in studio, in appartamenti e luoghi creativi. Qual è il fil rouge che lega le tracce?

“Come hai ben detto, Il Cancello nel Bosco è una collezione di esperienze raccolte nell’arco di nove anni ed ho trovato il fil il rouge quasi all’ultimo secondo, con il titolo dell’album e con i brani strumentali. La metafora del cancello nel bosco mi dava la possibilità, a livello immaginifico, di creare uno spazio di fantasia, una sorta di portale. I brani Il Cancello nel Bosco, pt.1, pt.2 e pt.3 aprono la porta su delle tracce non nate per stare tutte nello stesso disco ma sono esperienze differenti che raccontano un po’ come sono io. Non mi sono mai concentrato solo su un aspetto: un po’ sono musicista, un po’ scrivo, un po’ faccio il giullare, un po’ sono serio. Credo che tutti abbiamo personalità complesse e coesistenti.”

 

Sia dalla prospettiva della produzione, sia da quella d’ascolto, è evidente un carattere raffinato e sofisticato. Emerge anche una commistione di linguaggi. Quanto la ricerca di nuovi linguaggi riguarda la composizione melodica e quanto il contenuto testuale?

“Tutte le canzoni, tranne Incognita che ha una storia a sé, sono nate insieme a Gigi Canu e Marco Baroni dei Planet Funk. Quando ero più giovane, passavo notti sul piano e sulla chitarra a cercare canzoni. Ecco, questa urgenza compositiva è un po’ passata, è diventata più una vita legata alla musica, alla parte strumentale che ho inserito nel disco per essere proprio coerente con me stesso. Quindi, nella fase di ricerca di nuovi stimoli, la collaborazione con Gigi e Marco ha dato una direzione alla sezione musicale, di cui si sono occupati a livello di suono, mentre io passeggiavo avanti e indietro per le varie stanze in cui si siamo ritrovati a comporre, con un blocchetto in mano a rintracciare parole e melodie. Il mio apporto è stato molto più legato alla parte “autorale” rispetto al sound. C’è una condivisione di intenti, chiaramente. Tuttavia c’è anche molta “mano” dei Planet, c’è molta elettronica che di solito io non mastico così tanto, sono molto più “acustico” come mentalità. Mi affascinava, però, questo connubio.”

 

Ecco, le collaborazioni sono una punta di diamante del disco. Appaiono nomi d’eccezione, da Rodrigo D’Erasmo a Fabio Rondanini, da Darrin Moneey dei Primal Scream alle musiciste Valentina Del Re e Kyungmi Lee. Che tipo di sinergia si è creata con loro?

“Sono sinergie nate da incontri. Con Rodrigo D’Erasmo ci siamo incontrati tanti tanti anni fa, abbiamo molti progetti insieme, avevamo anche creato un’etichetta e uno studio in passato. Con i Planet c’è un’amicizia quasi ventennale. Sono amici che ritornano nel tempo. Amici vecchi ma anche amici nuovi come Valentina Dal Re e Kyungmi Lee che ho avuto il piacere di conoscere in trasmissione a Propaganda Live. Tutte belle collaborazioni perché, in fondo, la musica è collaborazione. Si morirebbe dentro una stanza, a comporre da soli. C’è bisogno di comunicazione nella musica, no?”

 

Il cancello nel bosco Roberto Angelini

 

Mi ha incuriosito anche un’altra collaborazione, quella con gli Effetti di Clara, da cui è nata un’invenzione… Chi sono?

“Gli Effetti di Clara sono dei fantastici nerd di Roma che riparano strumenti, costruiscono cose. Da anni, avevo in mente il trip di creare uno strumento che fosse modulare ma con effetti per chitarra. Quando ho messo insieme tutto il materiale necessario, sono andato dai ragazzi e ho detto: “Ecco la mia idea, che famo?”. E loro hanno creato questo strumento, chiamato ARP (dai cognomi Angelini, Russo, Pastori), che ha una sua vita e una sua personalità. Si sente particolarmente ne Il Complotto delle Foglie Parlanti e in Hedra, due brani che raccontano questa avventura di sperimentazione. È una parte del mio viaggio nella musica, rappresentato non soltanto dalla sperimentazione nei testi ma anche dalla sperimentazione sonora.”

 

Entrando più nel vivo delle singole canzoni, in Condor canti “tre sono le mie fedi” e confessi di credere nei segnali e non nelle coincidenze. Quali sono queste tre fedi? E ce n’è una che ha guidato la pubblicazione dell’album?

“Sai, mio nonno faceva il pranoterapeuta. Quando ero bambino vedevo persone venire a casa sua e ricevere una sorta di “imposizione di mani”. Qualcosa quasi di “mistico”. Ho sempre tenuto aperta una porticina verso un mondo con sfumature del genere. Può esistere qualche energia che ci lega e che renda le coincidenze non proprio coincidenze. Per quanto riguarda le tre fedi…Non ho mai detto a nessuno quali sono (ride). Poi nelle canzoni si dicono tante cose e, alla fine, quello che resta magari è il Condor. Mi piaceva l’idea di tre fedi ma le potrei anche cambiare continuamente.”

 

A proposito di tuo nonno. Nello stesso singolo, assieme a lui, appari tu come musicista per arrivare poi a La Chiave del Cancello, brano scritto e suonato da tuo figlio Gabriele. È questione di familiarità? Di linfa artistica che scorre nelle vostre vene?

“Mio nonno era anche una sorte di mecenate, una persona che ospitava a casa tanti artisti. È lì che mia madre conobbe Vittorio Camardese, il mio patrigno, un chitarrista formidabile che suonava con Chet Baker. Purtroppo non ho memoria, se non qualche fotografia, essendo ancora molto piccolo, ma a casa suonavano forte. Da padre, non ho fatto niente per portare mio figlio alla musica, è semplicemente cresciuto circondato da strumenti. Questo non vuol dire che scocchi la scintilla. Invece, senza fare nulla, qualche anno fa – era appena dodicenne – l’ho sentito suonare questa melodia e mi sono fiondato con i microfoni che avevo a portata di mano: “Fermati, fermati, aspetta. Capirai tutto quando sarai più grande. Tu registra”. Ho mandato quello che è uscito fuori a Rodrigo D’Erasmo, chiedendogli di comporre un arrangiamento, anche con l’obiettivo di far capire a mio figlio come la musica sia sinonimo di collaborazione. Benché sia passato un po’ di tempo da allora mi faceva piacere inserire nella tracklist La Chiave del Cancello. È una sorta di passaggio di testimone, lo dice anche il titolo. Mi fa sorridere ed è una dimensione tutta nostra: è l’unico brano – ed è il suo – che può aprire questo portale.”

 

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Al di là della difficoltà attuale di prevedere il ritorno sui palchi “alla vecchia maniera”, qual è la resa live che immagini per il disco?

“Da sempre mi piace stravolgere la resa live, rispetto a quella del disco. Trovo proprio difficile portare il disco dal vivo così come l’ho registrato. Immagino di presentare sul palco questi brani con un nuovo vestito, una nuova forma. Avevo cominciato, prima di questa ulteriore ondata, a preparare un live: in quel caso eravamo molto acustici, con piano, chitarra e Valentina Del Re al violino e violoncello. Quasi un concerto da camera, molto intimo, perché avevo delineato uno scenario con il pubblico seduto, come se stessimo in un piccolo teatro. Quando si potrà ripartire magari cambierà tutto. Potrei far suonare tutto a un DJ (ride)!”

 

Da tradizione, concludiamo con i ringraziamenti. In occasione dell’uscita del disco, mi ha colpito il tuo ringraziamento a tutti coloro che ti hanno permesso di vivere del sogno della musica. Che cosa consiglieresti, oggi, a chi custodisce lo stesso sogno?

“Consiglierei di non smettere mai di sognare, anche di fronte a una serie di ostacoli, porte chiuse e tutto ciò che comporta trasformare una passione in un mestiere. Personalmente, mi ritengo fortunato perché sono trent’anni che faccio questo mestiere e quello che mi piace. Continuo, anche dopo trent’anni, ad avere i miei piccoli successi ed i miei piccoli fallimenti. In generale, auguro a tutti di fare un lavoro – artistico o meno – che possa stimolare, che abbia alla base tanta passione. È in quel caso che emerge la cura del dettaglio, l’amore per le cose fatte bene. Anche la musica, se fatta male, non rende felici. È questione di passione a 360 gradi che confluisce in una realizzazione.”

 

Laura Faccenda

Foto di copertina: Simone Cecchetti

Foto live: Francesca Garattoni

VEZ5_2021: Laura Faccenda

Quando l’anno scorso avevamo pensato alle VEZ5, l’avevamo fatto perché ci sembrava un buon modo per tirare le nostre personali somme musicali dopo un anno particolare in cui la musica era stata contemporaneamente conforto e nostalgia. Per quanto non abbia raggiunto gli stessi livelli — anche se ci ha provato — il 2021 si è mantenuto un po’ sulla stessa scia del suo predecessore, quindi eccoci di nuovo qua, anche quest’anno, a tirare le nostre fila nella speranza di riuscire a tornare il prima possibile e in modo più normale possibile sotto un palco.

 

Nell’opinione comune, dopo un annus horribilis come quello segnato dalla pandemia, il 2021 avrebbe dovuto essere lo spartiacque per la ripresa, per il ritorno alla normalità e – considerando il posticipo di tutti i tour di band nazionali ed internazionali – il momento per rivivere la musica live, di fronte ad un palco. Non è andata esattamente così. Ci sono stati timidi tentativi che hanno donato una boccata d’aria ma la percezione che prevale è ancora la mancanza di un contatto diretto con le setlist ricche dei cavalli di battaglia e di nuovi brani delle nostre band del cuore. Nell’attesa, ciò che ha contraddistinto il mio anno di ascolto è stato uno spirito irresistibile verso le nuove scoperte, nei meandri di Spotify, attraverso quei viaggi tra playlist ed artisti che non ti aspetti. Ho amato intersecare i dischi che ho sempre amato con quelli inediti alle mie orecchie, per rintracciare i collegamenti, le vicinanze e le dissonanze. Per conoscere nuovi territori di suoni e – come accade sempre con la musica – per conoscermi meglio.

 

Noah Gundersen A Pillar of Salt

Ok, lo ammetto. È il mio artista del cuore ma l’ultimo album di Noah Gundersen è davvero il lavoro in studio che racchiude e concilia le molteplici ispirazioni e sfumature della sua musica. Dal folk rock alla sperimentazione elettronica, dall’impostazione cantautoriale al sound più frammentato e contemporaneo. Un viaggio tra passato e presente che apre ad una dimensione pacificata, matura. Una riappacificazione con ricordi – e rimpianti – per uno slancio fiducioso verso il futuro. Ne avevamo parlato anche qui.

Traccia da non perdere: Body

 

Manchester Orchestra The Million Masks of God

L’attesa per questo disco è stata incontenibile. Un po’ per l’inevitabile scia lasciata da un capolavoro come A Black Mile To The Surface, un po’ perché la band capitanata da Andy Hull è sempre sinonimo di qualità. I primi singoli Bed Head e Keel Timing, collegati tra loro da un gioco di intro e fading, lasciavamo presagire il meglio. Ed è stato così. The Million Masks Of God rappresenta il salto di qualità del gruppo di Atlanta: identità e personalità confermate, timbro, testi ed arrangiamenti inconfondibili, asticella artistica abbondantemente superata. L’effetto sull’ascoltatore è accostabile al protagonista della copertina: un esploratore che, con torcia in mano, ha davanti a sé un mondo.

Traccia da non perdere: Telepath

 

Architects For Those That Wish to Exist

Rabbia, dolore, lutto, ma anche reazione, fiducia e nuovi spiragli. Un universo di emozioni contrastanti emerge da For Those That Wish To Exist degli Architects, per un risultato che ha fatto rimanere a bocca aperta anche i “non cultori” del genere metalcore/progressive (tanto che i puristi hanno tacciato il gruppo capitanato da Sam Carter del solito, ridondante avvicinamento al mainestream). Un’opera epica nelle atmosfere, nel sound e nel valore. Ciliegina sulla torta: il featuring con Simon Neil dei Biffy Clyro che, per l’occasione, sfodera la sua veste più estrema e meravigliosamente fuori dagli schemi.

Traccia da non perdere: Goliath (ft. Simon Neil)

 

Julien Baker Little Oblivion

La giovanissima artista statunitense con Little Oblivions si conferma come una delle soliste più talentuose e promettenti del panorama musicale internazionale. La delicatezza della sua modalità di composizione – essenziale, prevalentemente acustica e dotata di un raffinatissimo labor limae – prende per mano l’ascoltatore e lo conduce in una dimensione intima di esperienze e confessioni quotidiane. Me ne ero già innamorata per il progetto Boygenius con Phoebe Bridgers e Lucy Dacus (l’EP omonimo del 2019 è un gioiello). Il mio amore per Jiulen è raddoppiato.

Traccia da non perdere: Song in E

 

The Weather Station Ignorance

Una band che non conoscevo e che ho ascoltato grazie ad un sapiente suggerimento. Ne sono rimasta folgorata. Non è indie, non è alternative rock, non è folk non è progressive, non è jazz. Ma sono tutte queste cose messe insieme, in uno scrigno artistico raro e prezioso. Ascoltateli.

Traccia da non perdere: Robber

 

Honorable mentions 

Silk Sonic An Evening with Silk Sonic – Il fantasmagorico duo formato da Bruno Mars e Anderson  .Paak sfodera l’album d’esordio del progetto che è davvero troppo perfetto per essere vero.

 

Laura Faccenda

VEZsparks: Fatherson “The Rain”

di Laura Faccenda

 

Da più di un decennio, con l’avvento dello streaming e delle piattaforme digitali, la musica viene ascoltata in modo differente, rivoluzionario – per certi versi – rispetto alla concentrazione e all’attenzione analogiche al cospetto di un giradischi, di un mangianastri o di un lettore cd. Skippare una canzone, in quei casi, richiedeva un gesto meccanico di non poca responsabilità. Si avvertiva quasi una sorta di reverenza di fronte alla volontà dell’artista di concatenare i brani proprio in quell’ordine matematico. Ancora oggi, in molte interviste, i musicisti rimpiangono quei tempi d’oro, complici nell’infondere ai propri lavori in studio senso e continuità. 

Tuttavia, oltre qualsiasi nostalgia anacronistica, oggi a prevalere è la legge del salto compulsivo e la logica del singolo che anticipa – con una promo ben studiata – album e dischi attesissimi. Spotify ci ha dato in pasto tutta la musica immaginabile ma, per quanto questo sia un gran beneficio, il rovescio della medaglia è il rischio di mancato approfondimento. “Ah, non ci sono più le band di una volta, quelle che appassionavano e facevano sentire parte di qualcosa”, si sente dire spessissimo. Forse dipende anche da quanto ci si possa perdere nell’oceano di novità, senza mai trovare un porto sicuro. Ma deve scattare qualcosa affinché questo avvenga, affinché si possa scorgere una stella polare come bussola della navigazione.

La nuova rubrica bisettimanale #VEZsparks tratta proprio di queste illuminazioni. Brani che, attraverso playlist, radio, classifiche, reminiscenze di ogni genere, anno e provenienza sono riusciti a catturarci e a far sorgere le fatidiche domande: “Ma chi sono questi? Di chi è questa canzone? Quale disco la contiene?”. La scintilla, appunto, per bruciare di curiosità. Per correre a scoprire, collegare, ampliare la rete dei propri ascolti. Cliccare play e farsi cullare, poi, dalla tracklist completa. E La Scintilla è anche il titolo di uno dei tre paragrafi in cui è suddiviso il format, assieme a quello dedicato alla review della traccia e alla presentazione della band o dell’artista in questione.

Allora, accendete i vostri dispositivi preferiti. Accendetevi. Si parte con The Rain dei Fatherson.

Buona lettura e buon ascolto!

 

Il brano

Quando ci si approccia all’ascolto di un disco, la canzone di apertura porta sempre con sé una grande responsabilità. Possiede un’aura particolare, riconoscibile – talvolta – pur non sapendo con precisione l’ordine della tracklist. The Rain, traccia numero uno di Sum of All Your Parts (2018) dei Fatherson, si cala perfettamente in questo ruolo. L’intro, distillata in note chiaroscurali al pianoforte, si distingue già come uno scrigno di sperimentazione sonora, marchio di fabbrica del gruppo. Il fruscio meccanico che si innesca nei primi secondi e che rimanda ad un’antica cinepresa tornata in vita è, in realtà, la campionatura di un radiatore elettrico presente nella stanza dell’autore al momento della composizione. “Si adatta così bene a quel frangente iniziale” – ha dichiarato il frontman Ross Leighton – “Mi ricorderò sempre dove ero quando è successo e chi ascolta metterà in relazione questo particolare con il nostro album. Penso sia un ulteriore elemento per imprimere una certa personalità”. Personalità che emerge sia nel timbro vibrante, sapientemente calibrato tra asprezza e morbidezza nei momenti di picco e quelli di risoluzione, sia nell’effetto evocativo del testo, in catarsi ascendente, in corrispondenza con la linea melodica. Una coltre argentata di versi ed accordi enigmatici ma ispirati per la libera interpretazione ed identificazione. Una pioggia che, dal nembostrato di significato universale, penetra in quello personale, intensificandosi in un temporale di emozioni. E chissà, in quiete dopo la tempesta.

 

 

La scintilla

In merito a The Rain, a conquistare è proprio l’effetto catarsi. L’espansione di toni e ed energia che viaggia in parallelo alla compatta simmetria del brano, permettendo l’esaltazione dei particolari più pregnanti. E più disperatamente contraddittori. La parola “violins” della prima strofa muta, con un raffinato espediente, in “violence” nella seconda (anche i Pearl Jam avevano utilizzato un simile vezzo, fonetico e non lessicale in quel caso, in Daughter); l’esaltazione di una priorità — “You sleep in the exit rows / when there is a problem you will be the first to know” — assume contorni di irrinunciabile presenza, pur nel dolore. Un microcosmo di confessione racchiuso in un macrocosmo di distorsione. Distorsione di suono, negli effetti elettrizzanti della chitarra e del basso, e di visione del reale, nel sentirsi sovraesposti emotivamente, sottoposti ad una pioggia metaforica che scava le pareti del cuore. Come nel titolo dell’album la contiene, anche in questa canzone si può rintracciare una somma, un avvicendarsi di frequenze che — come gocce velocissime su una superficie vitrea — crescono in numero e potenza, intersecandosi, senza perdersi mai. Lo sviluppo strumentale d’impatto, supportato dall’esplosiva sezione ritmica, infonde un’aura di epica resilienza, di consapevolezza del qui ed ora (“But this violence / is just present tense”), nonostante l’imperversare del temporale. L’acqua, come simbolo di purificazione, lava via persino la rabbia. Nell’epilogo, infatti, una richiesta, una preghiera: “Call me when you need me over / call me when you need it done”. Per trovare riparo. O per ballare, insieme, tra un tuono e l’altro. O per aspettare, con fiducia, che torni il sereno.

 

La band

Arrivano da Kilmarnock, nella contea dell’East Ayrshire, in Scozia. Sono giovanissimi, sono un trio e sono anche fermamente convinti che se non avessero formato una band chiamata Fatherson non avrebbero potuto suonare con nessun altro. Ross Leighton (voce e chitarra), Mark Strain (basso) e Greg Walkinshaw (batteria) si conoscono dall’età di otto anni ed hanno iniziato a sognare insieme dai tempi della secondary school. Una crescita, un’indole alla costruzione che ha a che fare con la vita. Vita che confluisce, in modo autentico e diretto, nella loro musica. Canzoni strutturate, empatiche, edificanti che necessitano di sedimentazione per sprigionare la magia. Non c’è bisogno di altro, nessuna strategia da hit, né stratagemmi per attirare pubblico. “Se fai sul serio, se la fiamma viene dal cuore, le persone capiranno”. Così i Fatherson hanno conquistato grande seguito in patria, guadagnando consensi e passaggi nelle principali radio, già a partire dai primi due album, I Am an Island (2014) e Open Book (2016). Nel Regno Unito, il loro nome è apparso come opening act di gruppi del calibro di Idlewild, Twin Atlantic, Lonely The Brave, We Were Promised Jetpacks, Enter Shikari, Biffy Clyro, Frightened Rabbit. Ed è la formazione capitanata dal compianto Scott Hutchison ad aver delineato uno sliding doors fondamentale nel percorso tre dei amici e colleghi. “Ci siamo ispirati ai Frightened Rabbit da sempre. Midnight Organ Fight è stato ciò che di meglio la musica scozzese abbia prodotto negli ultimi venti anni. Ed è un’opinione assodata, già prima che Scott ci lasciasse. Gli dobbiamo molto. Quando avevamo sedici anni, dopo che ci vide suonare in una data locale, ci trovò uno slot per esibirci allo show Next Big Thing di HMV. È stato incredibile”. Parlano di eredità, riguardo Scott, sia in termini generali sia per le influenze che hanno plasmato il terzo disco all’attivo, Sum of All Your Parts, registrato in una full immersion di quattrocento giorni in una casa/studio indipendente. “Siamo soltanto dei ragazzi emo cresciuti ascoltando i Death Cub For Cutie ed i Manchester Orchestra, prima di innamorarsi di Radiohead e Bon Iver. Tuttavia ci rendiamo conto di quanto ci riflettiamo nelle nostre radici. Molti scherzano su noi musicisti scozzesi… Sono convinti che siamo condizionati da un grigiore meteorologico, che passiamo molto tempo chiusi in casa con la chitarra, in mancanza di alternative. Credo, invece, che questa attitudine, questa spinta ad andare a fondo nei significati non sia tanto un mood depresso quanto un’imprescindibile sensibilità. Fa parte della nostra identità. Potrebbe essere un cliché parlare di scena scozzese ma ce n’è davvero una. Gruppi che non si prendono mai troppo sul serio, che abbracciano le stesse riflessioni e guardano nella stessa direzione. È una consapevolezza che ci lega, oltre ogni genere musicale”. 

 

Lorenzo Kruger, “Singolarità” come manifesto artistico

Prodotto da Taketo Gohara e preceduto dai singoli Con me Low-Fi e Il Calabrone, il disco dell’esordio solista di Lorenzo Kruger – ex frontman dei Nobraino – racchiude un itinerario di cambiamento e ricerca, tra live e sperimentazioni sul suono, durato quattro anni. In Singolarità emerge la spiccata identità del cantautore romagnolo, raffinato nel tracciare una propria linea stilistica, pur non rinunciando alla spiccata ironia. Emozione e coinvolgimento, lo stesso messo in campo per la realizzazione della cover, attraverso la campagna Spazi Miei. È stata indirizzata ai fan la call to action per l’acquisto di una porzione dell’artwork, diventato un collage di foto di appassionati di musica ed una “missione” solidale: il ricavato dell’intera operazione è stato donato alla scuola di teatro Casa di gesso di Cesena, che ha potuto così erogare nove borse di studio destinate ai bambini dell’associazione. Su questa scia, abbiamo chiesto a Lorenzo un po’ di “spazio” per scoprire ed approfondire temi e visioni riguardo il nuovo lavoro in studio. E non solo.  

 

Ciao Lorenzo e benvenuto su VEZ Magazine! Per questa intervista volevamo utilizzare – ampliandolo con qualche curiosità in più – il format collaudato delle “Tre Domande a…”. In questo caso volevamo approfondire il concetto di Singolarità, titolo del tuo nuovo album, pubblicato il 10 settembre. Quanto c’è di singolarità intesa come inedito percorso solista?

“Beh, involontariamente parecchio. Il brano che dà il titolo al disco doveva chiamarsi in un altro modo (Stereotipazione dell’amore). Ed il disco doveva chiamarsi in un altro modo anche quando il brano si chiamava Singolarità (il disco doveva chiamarsi Spazi Miei, come conseguenza della campagna). Poi alla fine la parola singolarità si è presa sempre più spazio, è cresciuta: da dettaglio in un ritornello è diventata il simbolo di questo disco. Credo che, inconsciamente, il mio percorso solitario di questi anni ed il passo solista che mi accingo a fare stavano cercando una definizione e l’hanno trovata in questa parola.”

 

Quanto c’è di singolarità come sostantivo che indica la particolarità, la stravaganza e l’unicità?

“Stranamente poco anche se l’aggettivo singolare per indicare qualcosa di particolare mi è sempre piaciuto tanto. Benché abbia sempre giocato con la mia originalità ed eccentricità non è il primo significato che mi viene in mente quando penso a quella parola.”

 

E come singolarità di brani, c’è una canzone a cui sei particolarmente legato?

Copernico è l’unico brano del disco che suonavo regolarmente in tutti i miei concerti negli anni precedenti a questa uscita, è stato con me in questo percorso di solitudine fin da subito.”

 

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Chi ti ha seguito nel corso del tour della scorsa estate ha ascoltato alcuni brani non contenuti nella tracklist. Hai detto di avere tantissimo materiale. A che cosa è ispirata la scelta delle canzoni ufficiali?

“Con il produttore abbiamo cercato un insieme di brani che avessero una tensione simile, una vocazione classica. Quelli scartati sono generalmente più pop o più ironici o in qualche modo meno raffinati. Volevamo fare un disco che fosse il più possibile monotonale ed elegante. In altri contesti capirò se e quando usare le tracce che mi sono rimaste.”

 

A proposito di live, essendo quello dei concerti e della relativa capienza delle location uno dei temi oggi più dibattuti, che cosa immagini possa avvenire in Italia? E che cosa auspichi?

“Credo di essere preoccupantemente ottimista e che il tempo riporti sempre le cose al suo posto. Probabilmente questo posto subirà degli aggiornamenti e spero si adatti in positivo alle future esigenze. Nello specifico spero che si riattivino con più vigore i circuiti dei concerti più piccoli che prima della pandemia erano un po’ agonizzanti; è un peccato perché quei circuiti sono preziosi per la salute della musica e dello spettacolo in genere. Gli eventi a piccole capienze hanno dimostrato di essere i più sostenibili durante questa emergenza e speriamo che quando tutto tornerà alla normalità non ci si dimentichi di loro.”

 

Laura Faccenda

Foto di copertina: Luca Ortolani
Foto nel testo: Isabella Monti

Noah Gundersen “A Pillar of Salt” (Cooking Vinyl, 2021)

Spesso, gli incontri più significativi sono quelli che sfuggono ad ogni possibilità di previsione. Ero lì, assorta nel tentativo di fare ordine nella mia stanza o in qualche luogo interiore, tra battiti accelerati e lacrime nascoste. La porta? Credevo di averla chiusa. Invece no. Non ha bussato, è entrato con delicato fragore. Irrinunciabile, da lì in avanti. After All (White Noise, 2017) è stato il brano con cui si è presentato. Tra parentesi, in maiuscolo, apparivano anche altre quattro parole: (Everything All the Time), per un universo di senso. Ho voluto sapere chi fosse, da dove avesse ereditato quei tratti tanto decisi quanto fragili, da dove venisse. Sulla provenienza, molte delle fonti hanno sempre rimandato a Seattle, città sacra per coloro che sono cresciuti con il suono sinonimo degli anni Novanta, della rabbia che diventa urgenza espressiva, dell’imprinting del grunge. Ed è proprio dalla città di smeraldo che si snodano i fili di A Pillar Of Salt (Cooking Vinyl), il nuovo album di Noah Gundersen. 

Per presentare il singolo apripista, Sleepless in Seattle — suonato per la prima volta in un’insospettabile diretta nel marzo 2020, durante il lockdown, e riproposta in anteprima un anno dopo all’interno del format in streaming Songs & Conversation — l’artista ricorda il suo trasferimento nella metropoli, nel 2009. Un bagaglio carico di passione per quei luoghi, per le band che li hanno resi sacri, per lo spirito che animava un’intera scena. Un sogno da trasformare in realtà a qualunque costo, crescendo tra club e performance live, pubblicando sei dischi, stringendo amicizie, perdendo persone care. La bussola, però, sempre posizionata su un “nord” chiamato Space Needle che vegliava sulla possibilità di far sentire la propria voce. Dieci anni dopo, quella voce — accompagnata da una chitarra malinconica — racconta della fine di un capitolo, di una metamorfosi fredda e tecnologica, di passeggiate notturne esaurite in un vagare insonne, di bar in bar. Banconi ed ombre appoggiate ad essi che testimoniano i fasti passati — i “Glory Days” di matrice springsteeniana, come riporta un post su Instagram – senza cui certi uomini come Brian, protagonista dei versi, non sarebbero potuti essere chi sono, nella loro benedizione e maledizione. 

Oltre a lui, altri due personaggi appaiono ad inaugurare la tracklist, muovendosi sullo stesso pattern, intimamente acustico, al piano. Laurel and Hardy (gli Stanlio e Olio italiani) vestono i panni di un amore distillato in opposizione e complementarietà: un valzer in cui il ticchettio di sospiri e dolci errori — “My favorite poison / My honey mistake” — sfuma in passi che si allontanano. Un allontanamento, già dalla traccia numero due, anche da un’impronta cantautoriale mai rinnegata ma arricchita e volutamente sviluppata dall’ultimo lavoro in studio, Lover (2019), in poi. Body si impone come inno generazionale: lo specchio di chi — tenendo per mano la giovinezza ed affacciandosi sulla responsabilità adulta — stringe la pace con un certo fatalismo attivo (“Whatever happens is probably gonna happen anyway”), pur non rinunciando alla confessione più profonda di rimpianti e rimorsi (“If I told you then, what you could have been / Would you have turned around? / Would you have even listened?”).

 

 

Intersezioni di tempo e di suono, livellato — quest’ultimo — su un’impostazione ibrida tra alt-rock ed elettro-pop. Una costruzione a più strati di arrangiamenti contemporanei e soluzioni melodiche nitide che attestano raffinatezza e ricercatezza. Se per The Coast a prevalere è una linea vocale empatica ed ineccepibile che dichiara tregua alle continue battaglie esistenziali per ristorarsi di fronte all’oceano con un cuore pronto a mettersi in gioco, in Blankets e Back To Me l’obiettivo è quello della destrutturazione, sia nella forma sia nel contenuto. Un’ispirazione che rimanda, da una parte, agli Editors più elettronici e, dall’altra, al Justin Vernon più iconico con le suggestioni dei Bon Iver. Il contesto perfetto in cui far dialogare memorie che svaniscono, realtà inedite da affrontare e la tentazione di ripiombare in meccanismi antichi ed ancestrali. Qui, le frequenze timbriche di Gundersen — talvolta campionate in effetti distorti, talvolta al limite del meccanico e robotico — lanciano messaggi di identificazione universale.

Tra brani di raccordo più classici come la radiofonica Exit Signs, Magic Trick e la denuncia al mondo patinato e ingannevole della comunicazione digitale e Bright Lost Things con il riverbero del clavicembalo e delle luci abbaglianti di Broadway, Atlantis si staglia in qualità di punta di diamante. Il featuring con Phoebe Bridgers, stella attualissima del firmamento musicale internazionale, rimarca un emozionante sodalizio (oltre che un’amicizia) andato in scena già nel 2017 con il video mashup di The Killer, perla dello strabiliante disco d’esordio dell’artista di Pasadena, Strangers in the Alps (2017), e The Sound, estratto da White Noise di Noah. La naturalezza e la fluidità che avevano già caratterizzato quella collaborazione si confermano in Atlantis, trasposizione in note e strofe poetiche ed ipotetiche della leggenda di Atlantide. Le due tonalità si fondono proprio come il mare con il perimetro dell’isola ed ondeggiano in una marea di risonanze lontane: sembra di udire il canto delle sirene o il sibilo intrappolato in conchiglie colorate.

A Pillar of Salt si chiude con quella che l’autore stesso elegge a sua canzone preferita. Always There è il compimento orchestrale che, su un dolce arpeggio, distende gli scenari per elevarli a potenza onirica. Il sapiente falsetto, assieme al trionfo di archi e alle sonorità eteree, racchiude la promessa di una nuova alba. La matura consapevolezza del proprio desiderio di amare, nonostante tutto, nonostante possa essere considerata una prova di coraggio anacronistica, rischiosa, al limite della patologia. È una delle frasi più impattanti riportate, durante il periodo di promo, all’interno del puzzle di citazioni pubblicato sui canali social ufficiali: “Love grows like a cancer”. Una condanna come quella che — nella tradizione biblica — colpì la moglie di Lot per essersi voltata a guardare Sodoma, subendo la trasformazione in una statua (o colonna) di sale. A Pillar of Salt, appunto. 

La cristallizzazione dal dolore e del dolore, la metabolizzazione e la scelta di andare oltre — apprendendo la lezione, alleviandola e non dimenticando — accendono il luccichio più chiaro e sfavillante del disco. Granello dopo granello, a sciogliere le riserve, ad infondere rinnovata fiducia può essere d’aiuto l’ascolto di un album di così pregiata bellezza ed autenticità. 

 

Noah Gundersen

A Pillar Of Salt

Cooking Vinyl

Laura Faccenda 

Oasis, Knebworth 1996

This is history, right here, right now!

 

Non capitava, da troppo tempo. Percepire quell’impulso di imprimere, anche soltanto con una parola chiave, una scena, una nota, un’espressione dal potere immaginifico che nasce in un frangente lontano ed unico, ma plasma e modella l’attimo presente. Correre, scorrere su una linea del tempo che tiene insieme una generazione, più di una generazione: quella che ha vissuto di cuore, di pancia agli anni Novanta e quella nata nella stessa decade. Anime benedette e maledette, alcune, per vibrare di un lascito passionale, impetuoso, idealista, fatalista. C’è chi può raccontare, con occhi orgogliosi, l’aver assaporato un’epoca nel suo gusto più autentico e chi può assistere ad un carosello di ricordi a bassa definizione, potentissimi in ogni pixel sgranato, in ogni chitarra distorta.

Non capitava da tempo, da troppo tempo. Perché è la sensazione che ha sempre contraddistinto lo stare in piedi di fronte ad un palco, con la transenna conficcata tra sterno e stomaco, quasi a sorreggere l’apparato dell’emotività. In questo caso, un concerto c’è ma su pellicola, sotto forma di documentario, di gioiello d’archivio. Musica e cinema, due dimensioni al limite del fantascientifico — oggi — in un 2021 post apocalittico in cui il sovvertimento pandemico e planetario ha tracciato un confine netto tra ciò che era prima e ciò che sarà. Ma nessun anacronismo, nessuna nostalgia ingiallita, soltanto verità leggendaria e testimonianze da pelle d’oca in Oasis, Knebworth 1996, il film documentario diretto da Jake Scott sui due concerti biblici della band inglese, nell’area verde dell’Hertfordshire, raggiunta — il 10 e l’11 agosto di venticinque anni fa — da 250.000 persone.

Location battezzata da nomi sacri – Led Zeppelin, gli ultimi Queen di Freddie Mercury – e da subito riconosciuta per quel qualcosa di “aristocratico”. La sfumatura complementare di un gruppo nato tra i quartieri popolari di Manchester, tra le mura intrise di birra e frustrazione dei pub, e giunto a distanza di ventiquattro mesi dall’esordio all’apice della propria carriera e del rock planetario. Un record firmato fratelli Gallagher, capaci di radunare una folla oceanica tanto eterogenea quanto accomunata da un’unica missione: vedere gli Oasis. Ed è proprio sulla prospettiva dei fan che viene incentrata la narrazione, non soltanto dell’evento ma anche di tutto quel corollario di esperienze, di avventure che lo precedono e lo seguono. Capitoli di uno dei tomi dell’enciclopedia della vita, quello relativo alla giovinezza, alla leggerezza, alla speranza. Quello che sporge sempre qualche centimetro in più sullo scaffale. La copertina consunta, il tratto inossidabile delle impronte che, pagina dopo pagina, hanno fatto la storia. Una storia pronta ad essere riletta, riguardata, riascoltata.

 

 

“The best of all things that come our way” — La corsa ai biglietti e l’attesa

Nessuna news virale, nessun annuncio ufficiale su siti o social, nessun tweet lanciato alla velocità della luce. Nel 1996, la due-giorni di Knebworth venne accennata da Noel Gallagher durante un’intervista promozionale e, da lì, rimbalzò su cartelloni, riviste musicali, tg nazionali. Il giorno della messa in vendita dei biglietti è riportato alla mente da coloro che parteciparono come un tripudio di sveglie programmate, attese interminabili al telefono, file chilometriche fuori dalle sedi dei circuiti ufficiali, voli dall’Italia con il sogno di due ticket fortunati. Stringerli in mano, vederli arrivare per posta, riceverli in regalo da qualcuno di speciale significava cerchiare in rosso quella data sul calendario. Avere qualcosa di incredibile da attendere. Da organizzare. Non importava quale fosse il modo per raggiungere la distesa più desiderata del Regno Unito (il 5% dell’intera popolazione nazionale tentò in quell’occasione di acquistare i biglietti): a bordo di un’auto sgangherata, di un bus carico di sorrisi e droga o zaino in spalla in direzione di una stazione dei treni dimenticata. Una volta arrivati lì e sicuri che il pass per il paradiso non venisse strappato malamente dagli addetti, tutto ciò che rimaneva fare era correre, correre, correre verso il pit, verso uno scenario in cui tutto era ancora possibile, faccia a faccia con il volto più florido della Cool Britannia e le pose di Liam Gallagher (e magari, prima dello scoccare dell’ora X, assistere all’apertura di band del calibro di Chemical Brothers, Ocean Colour Scene, Manic Street Preachers, Charlatans, Kula Shaker, Cast e Prodigy non troppo valorizzate dalle riprese).

 

“Maybe you’re the same as me” — Le voci

Oasis, Knebworth 1996 è un’opera di elettricità orchestrale di voci. I video dei live sono accompagnati, o meglio guidati, dal parlato fuori campo dei protagonisti del pubblico che rivivono la storia della musica –  “This is history, right here, right now”, per dirla alla Noel – attraverso la loro storia e attraverso le canzoni del cuore della loro band del cuore, quella per cui alla domanda “che cosa regalereste ai vostri idoli?”, qualcuno rispondeva “regalerei anche me stesso”. Dichiarazioni come “Sono fiera di essere loro fan”, “Gli Oasis parlano per noi. Loro sono lì sopra, noi qua ma sono come noi” attivano un effetto di transfert che supera l’ammirazione artistica. Succede quando tra i versi, gli accordi, le pause, le riprese di alcuni brani che hanno rappresentato la colonna sonora di un periodo si intersecano passaggi, tappe e riflessi di chi canta e di chi ascolta. Alla base, un unico comune denominatore: la sincerità. Così con Supersonic ci si elevava allo stato di rockstar, Cigarettes and Alcohol era la fotografia di anni di disoccupazione e tormenti affogati nelle nell’amicizia e nell’eccesso, The Masterplan divenne il manifesto a cogliere le occasioni che l’esistenza riserva come doni, come attimi irripetibili da trascorrere con qualcuno prima che, per la crudeltà del destino, se ne vada per sempre. “È stata l’ultima giornata che trascorsi per intero con mio fratello. Dopo pochi mesi se in andò a causa di un tumore”, confessa una delle fan coinvolte nel progetto. “Alcune ore prima del concerto, scoprii che la mia ragazza era incinta. Sarebbe cambiato tutto. Con la pioggia che scese durante I Am the Warlus venne lavata via anche la mia giovinezza. Non lo dimenticherò mai”, è l’istantanea di un altro speaker, dietro le quinte.

 

 

E poi le voci che animarono il palco. Liam Gallagher che poteva permettersi qualsiasi cosa, avvicinandosi al microfono, digrignando i denti, allungando foneticamente i vocaboli, incrociando le mani dietro la schiena. Lo stato di grazia del miglior frontman del momento. Un timbro nitido, acido e possente che rispecchiava una classe, la working class settentrionale, e un genere, l’indie, che, con loro, diventò a tutti gli effetti mainstream. “Tutto cambiò dopo Live Forever”, ammette Noel Gallagher, autore del singolo spartiacque. Lui, cinque corde, voce e soprattutto penna della band, capace di miracoli – “Scrissi Wonderwall e Don’t Look Back in Anger in una settimana” e che, con quegli stessi capolavori, fece cantare 250.000 anime che si sentivano a casa in quelle melodie, con la cieca fiducia che la modifica del testo fosse il sigillo di un patto rischioso ma autentico: “But please don’t put your life in the hands of a rock and roll band / Who’ll never throw it all away”.

Provando a sorvolare sul peso specifico pressoché inesistente riservato nel film al bassista Paul Guigsy McGuigan e al batterista Alan White, oltre alle suddette voci, risuonano anche echi di personaggi altisonanti, presenti ed assenti. Richard Ashcroft, “l’uomo senza ombra”, a cui venne dedicata una Cast No Shadow da brividi (ed un “Ripigliati cazzo!”). Il chitarrista Bonehead che sottolinea quanto lo avesse stupito assistere ad un sussulto tangibile di Liam su “Now that you’re mine” di Slide Away (scena che mi ha incollato alla poltrona del cinema). John Squire, chitarrista degli Stones Roses, che salì sul palco per Champagne Supernova, quei 7 minuti della tracklist che tutti aspettavano. Un iconico passaggio di testimone – “Il testimone ce lo eravamo già preso nel ’94″, puntualizza Noel –  ed una scia colorata di azzurro che nacque dagli occhi del cantante per accarezzare le lacrime del pubblico. Quei 7 minuti, quell’intro-mantra che, un paio di sere fa, durante la proiezione, tutta la sala attendeva. Atterrita, impaziente ed emozionata.

 

“You’re gonna be the one that saves me and after all” — Wonderwall 

Trai i racconti che si intersecano nel documentario, uno si distingue per lo spazio in cui vennero vissuti i concerti. È quello di un fan che, il 10 e 11 agosto 1996, chiese ai genitori di non essere disturbato, in quella determinata fascia oraria. Nella sua camera, delle audiocassette vergini, pronte per registrare il live dalla radio che lo trasmise in esclusiva. I tre secondi del “cambio lato”, misurati con il cronometro. “Ho portato con me quei nastri per anni, conoscevo a memoria ogni battuta di Liam”. La sua figura malinconica, ma comunque appagata, appoggiata alla colonna vintage di uno stereo ha racchiuso una delle immagini da Wonderwall, da muro delle meraviglie, al cui contatto tutto sembra possibile. Una superficie di sicurezza che svetta fino al cielo. Può essere la spalla di un amico che canta a squarciagola lì vicino, il compagno di avventure incontrato qualche ora prima dell’apertura dei tornelli, la donna che si abbraccia come se quel brano fosse stato scritto per lei. Oasis, Knebworth 1996 si chiude, inevitabilmente, con Wonderwall, una canzone destinata a diventare un inno al di là delle generazioni. Un inno al potere salvifico della condivisione, della musica e dell’amore. E dell’amore per la musica, quello che supera le differenze, le distanze, le difficoltà. Quello che unisce “after all”, nonostante tutto. Quella matrice di cui oggi, soprattutto nel nostro paese, si sente così tanto la mancanza. Quel motore che non ha bisogno di alcun filtro (neppure di quelli degli smartphone, per fortuna assenti all’epoca). Non necessita di alcun compromesso per rendere realizzabile l’impensabile, per sgranare gli occhi di fronte a Liam Gallagher che scende dal palco e regala il tamburello proprio a te, perché te lo aveva promesso. È ciò che fa le storie. È ciò che fa la storia. 

 

Laura Faccenda

Non fate mai riflettere i Fast Animals and Slow Kids

<< Non era una di quelle persone di cui ti chiedi se è felice, quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c’entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto non contava >>

Novecento, Alessandro Baricco

Questa è un’intervista a cui tengo in modo particolare. I Fast Animals and Slow Kids sono una band che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere più approfonditamente un paio di anni fa, attraverso i loro dischi e qualche domanda che feci ad Aimone, Alessandro, Jacopo e Alessio durante il tour di Forse non è la felicità. È stato bello incontrarli, di nuovo, oggi, poco dopo la pubblicazione del loro quarto album, Animali notturni, uscito lo scorso 10 maggio. Tante curiosità ed esperienze da raccontare. Trasformazioni, come quelle che scorrono e si susseguono in Novecento, traccia che chiude il disco. Un numero che ho ricollegato, oltre al secolo, al libro omonimo di Alessandro Baricco, incentrato proprio sul profondo legame tra uomo e musica. Una ragione esistenziale, la luce inconfondibile che ho visto accendersi negli occhi di questi artisti. Li ringrazio, ancora una volta. E lascio che siano loro a dare il titolo alla nostra chiacchierata.

 

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Partiamo da Animali Notturni, il vostro ultimo album. Quali caratteristiche umane hanno questi animali? Chi sono?

Aimone: Si parla di Animali Notturni ma quello che intendiamo, chi intendiamo è la persona, l’uomo…e le caratteristiche umane principali sono due. Caratteristiche opposte ma che sono presenti, assieme, in ognuno di noi. Quindi capita che, nella stessa sera, puoi essere una persona estremamente superficiale, distaccato, che non riflette e non ragiona…anzi misragiona, cercando proprio di non utilizzare la testa e poco dopo…o il giorno dopo…una persona riflessiva, chiusa in se stessa e che non ferma mail il cervello. Alla base dell’album c’è questa idea dualistica dell’animale notturno inteso come quello che esce la sera e si spacca a merda, non ricordandosi come sia fatto…e il totale contrario…cioè quello che si ricorda bene come è fatto e anzi non si piace, si chiede cosa sta sbagliando e che cosa può migliorare.

Sulla copertina appaiono insegne al neon, in contrasto con la notte. Quale edificio o locale potrebbero illuminare?

Aimone: Pensavamo più che altro agli hotel scrausi. Hotel che hanno caratterizzato dieci anni di concerti…da quando sono diventati hotel. All’inizio non c’era niente che avesse a che fare con un hotel o motel. Già il passaggio all’insegna è stata una tappa importante: scoprire che non fossero divani o furgoni. Al di là di questo, se c’è un immaginario a cui ricollegare le insegne è proprio quello della strada, del furgone, dell’unione rafforzata anche da queste esperienze. Esistono ormai poche band in Italia con un percorso così lungo di concerti. Sono un po’ animali estinti. Abbiamo intrapreso un cammino particolare che ci ha fatto sperimentare un contatto profondo con i chilometri, con posti assurdi, persi così tanto nel nulla che ti chiedi: << Siamo ancora in Italia? >>. Molta della nostra poetica è connessa ai chilometri, alcuni pezzi sono stati scritti in tour. E il nuovo disco è ampiamente influenzato dal driving rock americano. Quei pezzi che ascolti guidando lungo le strade deserte. Sei tu, la musica e il paesaggio intorno. E magari qualche insegna.

 

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Il disco ha un respiro più “aperto” rispetto ai precedenti…

Aimone: Più aperto significa “più pop”…? È il nuovo modo del 2019 per dire pop…? (ride)

No aspetta, mi spiego…Con “aperto”, intendo un disco in cui si contemplano addirittura le parole “cuore” e “amore”, impensabili nei precedenti. Ho notato, però, una tendenza a riscoprire un sentimento o una persona dopo averne sperimentato la perdita.

Aimone: Madonna! Sono pienamente d’accordo con te. Al 100%. Ma ci conoscevamo noi prima? (ride) Quindi posso farti una domanda io ora. Invertiamoci ti prego. Ok torniamo seri. È assolutamente così. Riguardo al discorso di aperto, chiuso…All’esterno è sembrata quasi una rivoluzione. In realtà, non è cambiato un cazzo. Abbiamo sempre continuato a raccontare la quotidianità, le nostre giornate. Il musicista non è solo musicista. È una persona e vive una sua emotività.

Alessio: Quotidianità ed emotività che cambiano per fortuna, di giorno in giorno!

Aimone: Esatto. Ci sono le due anime che dicevamo prima. Vissute, spezzate in mezzo, ma sicuramente autentiche. Proprio in funzione delle rivoluzioni che accadono in questi frangenti, abbiamo pensato di togliere ogni sorta di maschera, finzione…in senso buono. Abbiamo voluto che nella nostra musica fossero evidenti gli step degli ultimi anni. Lanciare la nostra vita nella nostra musica, come sempre. Dunque questo disco si è trovato a raccontare un nuovo mondo, anche lessicale, dialettico. E lo dici “cuore”, lo dici “amore”. Cazzo. Sono parole che utilizzi davvero. Tuttavia, nel momento in cui si va a creare “arte”, c’è sempre quella stupida, infondata paura di esprimersi, di essere male interpretati. Soprattutto oggi, con tutta la merda che gira…dici “cuore”, allora sei it pop. È un attimo che sei lì dentro…e tutti in crisi con questa cosa qua. Ma il modo peggiore per reagire a un contesto che non ti piace è autocensurarsi e mettersi nella posizione della non libertà. La nostra posizione è l’opposto. Anzi ci sentiamo ancora più liberi, ancora più puri. L’apertura è massima coscienza, ecco.

 

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E quali sono gli artisti che vi hanno maggiormente ispirato anche in questa concezione musicale. Il giorno dell’uscita dell’album, sulla foto che avete pubblicato, è apparsa una dedica ai Rem e Bruce Springsteen…

Aimone: Ecco, mi ricollego al discorso di poco fa. Uno può chiedere: << Quali sono le tue ispirazioni? >>. Risposta: << Rem e Bruce Springsteen >>. Allora, cazzo, fallo davvero! Suona in quel modo! Provaci! Con qualche anno di esperienza alle spalle, abbiamo anche imparato a conoscere il suono, a studiarlo, più scientificamente quasi… Abbiamo gli strumenti per avvicinarci a quello che sogniamo. Allora proviamoci. Per una volta, davvero. Artisticamente si tende sempre a fare un passo indietro. Ma perché? Chi dice che è troppo…Poi se non mi riesce, almeno ho tentato! È matematico, magari, che non ti riuscirà: sono i Rem e Bruce Springsteen…Do vai? Però tendi a quella cosa lì e ti impegni per avvicinarti il più possibile a quello che per te è il sogno musicale.

Alessandro: Soprattutto “Do vai?” è bellissimo, Aimo (ride).

La registrazione del disco a Milano è stata influenzata da questa ricerca sul suono? Vi è mancata la casa sul Lago Trasimeno che ha visto nascere i precedenti lavori?

La registrazione del disco a Milano è dipesa anche da una componente emozionale. Abbiamo scritto e registrato tre dischi nella stessa casa, nello stesso modo. Andarci una quarta volta avrebbe avuto senso? Oggi so benissimo come cucina Alessio. So benissimo come si riduce una casa tra persone che non puliscono mai. Ma abbiamo voluto cercare nuovi stimoli. Abbiamo fatto i musicisti per avere una vita incasinata, per essere sempre un po’ nella merda. Se ti crei un orticello e coltivi soltanto quello…prima o poi finisce la fiamma, finisce la voglia di arrivare e convincere qualcuno. E decadi. Questa è una cosa da evitare. Il musicista deve stare sull’orlo del baratro, sempre e comunque. Quindi ci siamo detti: << Ok ragazzi, ci piace fare dischi così? >>. << Si ci piace. Continueremo a pensare a quel posto come il posto della nostra vita…eppure…proviamo una cosa nuova! Usciamo! >>. Sullo stesso slancio, abbiamo provato cinque produttori e siamo finiti con Matteo Cantaluppi, il produttore dei Thegiornalisti ragà! Visto così può sembrare che essendo passati sotto Warner, la stessa Warner ha imposto il produttore.

Alessio: Invece no! Siamo arrivati da loro che avevamo già fatto tutte le scelte.

Aimone: Ammetto che, in termini comunicativi, abbiamo scatenato un po’ un casino con l’unione di FASK + WARNER + MATTEO CANTALUPPI. Che cazzo è successo? Cortocircuito completo.

Alessandro: La scelta fatta ha reso semplicemente giustizia alle canzoni, così come erano state pensate.

Aimone: Ecco, l’unico obiettivo che ci siamo prefissati è la realizzazione dei nostri brani così come ce li avevamo in testa. Tendere a una pulizia sonora messa in conto già durante la scrittura del disco. Come è sempre avvenuto poi negli anni… solo che, andando avanti, i cambiamenti di etichette o di riferimento non sempre vengono compresi e non sempre si ha il tempo di spiegarli (in realtà non ce ne frega nemmeno niente di spiegarli…). A prescindere da ciò… io dico sempre che i Fask sono un po’ anomali in questo periodo storico e uno dei motivi di questa anomalia è che son dieci anni che fanno come cazzo vogliono. E con questa base è difficile spostare degli artisti dal loro punto di vista. Noi continuiamo a comporre in quattro, come a diciassette anni, alle superiori. Quindi oggi, qualsiasi interlocutore con cui ci confrontiamo trova una band molto coesa, molto granitica sia a livello di pensiero che di composizione. Tutti i passaggi e i vari step sono delle scelte che imputiamo a noi stessi, essendo molto coscienti di quello che accade e di come lo stiamo facendo accadere. Secondo la nostra prospettiva, non è cambiato mai nulla: andiamo a registrare nella maniera con cui vogliamo registrarlo, provando tanti suoni, ottenendo quello migliore e più vicino a quello che volevamo. È un processo lineare, dritto e in funzione dell’aspetto più importante: la musica.

 

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Mi ricollego alla musica… anche la musica è un po’ un animale notturno? Si sottolinea sempre un sentimento dicotomico di amore e odio rispetto ad essa. Vedi canzoni come Odio suonare o le “note che non sopporto più” di Un’altra ancora

Aimone: La musica rovina…. Aspetta, come la imposto questa. Allora… abbiamo trovato una via per definire noi stessi come persone, per sentirci meglio, per dare una risposta ai problemi esistenziali…e per crearcene una valanga dietro. La musica è qualcosa che ti prende come uno tsunami…e prende insieme a te tutto quello che hai intorno. Noi siamo diventati musica, parte di ferro del nostro furgone. In questo processo, viene coinvolto chiunque sia accanto a noi. Le relazioni, le amicizie, gli amori sono completamente devastati dallo tsunami musicale che ci ha mangiato dentro. Quindi, alcune mattine, ti alzi e pensi: << Stiamo sbagliando qualcosa? C’è davvero solo la musica e un concerto è più importante della tua stessa salute? >>. La risposta gira sempre attorno al fatto che la soddisfazione che ti dà la musica non arriverà mai da nient’altro…ma allo stesso tempo è impossibile non percepire l’energia che prosciuga. Nella musica dai te stesso, ti stai spiegando e stai anche cercando di convincere gli altri con le tue opinioni. È più vicino alla politica… un politico fallito che vuole trovare il suo spazio nel mondo…e urla e parla e canta e sgomita… C’è un sottofondo drammatico, ecco. E non molto normale…perché non è normale che un essere umano si metta lì a suonare, a farsi vedere, a farsi notare…. non è normale! C’è qualcosa che non funziona (ride). Per me, ogni concerto, è un po’ come chiedere a una ragazza: << Ti vuoi mettere con me? >>. Metti in campo tutto te stesso.

In Hybris cantavate Combattere per l’incertezza, in Alaska vi chiedevate Come reagire al presente, ora a chiudere il disco c’è Novecento con il suo sguardo fiducioso e con il suo brindisi al futuro. Quali sono state le tappe di questo cammino? O è stata più una svolta?

Aimone: Io credo che sia più una speranza, ragazzi (ride). Ci ho provato dai. Lasciatemi stare, fatemi sperare. Riflettiamo così tanto sulle nostre esistenze che forse, a un certo punto, anche una botta di ottimismo ci vuole. Quella canzone parla di cambiamenti coscienziosi, basati su una serie di ragionamenti precedenti. Non stravolgimenti. Trasformazioni in base all’età. Io ho trentuno anni…Ognuno di noi sta vivendo un passaggio da una vita musicale ad un’altra, dall’incoscienza alla coscienza di suonare solo per suonare. Sapere che non c’è futuro in questo, è una via senza futuro. Mia nonna diceva: << Se la cima è aguzza, il culo non ce lo posi >>. Io ci credo. Quindi, quel brano è un’esortazione a non vedere tutto questo come un qualcosa che svanirà e basta…ma come un arricchimento che porterà a un altro passaggio, a nuove fasi, diverse ma non per forza negative. Il brindisi al futuro è davvero un invito a continuare così, perché in termini emotivi stiamo facendo la cosa giusta, stiamo assecondando noi stessi e stiamo esaudendo il sogno che avevamo da bambini. Quella frase tipo: << Voglio fare l’astronauta >>. E poi lo fai.

Ultima domanda. Ad oggi, qual è il demone che vi fa più compagnia e qual è il demone che vi spaventa di più?

Aimone: Ah questa è personale…iniziate voi dai…

Alessio: Il demone del fallimento credo…

Aimone: Ma che demone è… quello lo devi accogliere…io ho già una stanza preparata per quello (ride)! Io, ad esempio, ho paura del demone di diventare un essere senz’anima. Di iniziare a vivere la musica come un lavoro, lontana da me stesso. Vale lo stesso per i rapporti…viverli in funzione di… di una posizione sociale, del potere, dei soldi. Questa è una paura che ho da sempre, di perdere l’umanità. Il mio vero demone è il timore di diventare io il demone senza cuore.

Alessio: Wow! Questa è pesante… Il demone Aimone!

Aimone: Ho una band scema!

Jacopo: L’altro giorno, mentre portavo mia figlia all’asilo, ho pensato alla morte. Mi è balenato in testa: << Se oggi morissi, mia figlia non mi ricorderebbe >>. La persona più importante della mia vita, non mi ricorderebbe. Questo mi fa davvero paura.

Aimone: La chiusura del cerchio con la morte. Evviva! Queste sono le riflessioni della nostra band. E la morale è: << NON FATE MAI RIFLETTERE I FASK >>. Deve essere questo il titolo dell’intervista. Più domande sul perché ci chiamiamo così. Per quanto riguarda le domande esistenziali…Beh lì, apri una porta verso l’inferno.

 

Intervista a cura di Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani

 

Grazie a Ma9 Promotion

 

 

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Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

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  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri

 

I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

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Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

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E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

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Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani

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