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Tag: massimiliano mattiello

Algiers @ Capitol

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• Algiers •

 

Capitol (Pordenono) // 18 Febbraio 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Son da poco passate le 22, sistemati gli ultimi dettagli sul palco del Capitol (anomala sala da concerti, in primis perchè in centro, all’interno di un palazzo residenziale, et in secundis per la presenza sulla gradinata verso l’ingresso di un cospicuo numero di divani comodi e coccoli ai limiti dell’illegale che uno si deve far violenza poi per staccarsi e raggiungere il palco), una flebile luce rossa ad accogliere gli Algiers, oggi in formazione a cinque, con una – per il sottoscritto – sorprendente doppia batteria ad accompagnare il trio storico Lee Tesche (chitarra, cori e synth), Ryan Mahan (basso, synth e coreografie clamorose), ovviamente Franklin James Fisher (voce, piano e chitarra). 

Le mie aspettative per la serata sono tendenti all’altissimo (inteso indifferentemente come molto alto o con la A maiuscola, insomma ci siam capiti) e mi sposta di nulla il fatto che gli Algiers siano qui a presentare il loro quarto disco in uscita a giorni e del quale sono state messi in circolo una manciata di singoli, motivo per il quale la scaletta sarà prevalentemente inedita (set list che peraltro pare stiano cambiando ogni sera per cui il problema proprio non si pone).

È su un’intro rumorosa ai limiti del cacofonico, creata con una vecchia radio, che deflagra con una potenza abbacinante Irreversible Damage, che sul disco vede la presenza del signor Zach de la Rocha. L’aggettivo non è usato a caso perchè l’impressione è proprio quella di un fascio luminoso che squarcia il tetto e punta dritto verso le stelle, un cazzotto in pieno volto se preferite altro tipo di metafora, insomma una rabbia furiosa scaricata verso la platea.

I volumi sono decisamente sostenuti e coprono ogni rumore esterno, permettendoci di creare un privato e intimo collegamento con quanto avviene sul palco; la musica degli Algiers tende infatti ad esulare e evitare qualunque tipo di catalogazione o definizione, arrivando pertanto al pubblico più eterogeneo e diversificato: non è musica strettamente da ballare, date le ritmiche spesso sincopate (73% per citarne solo una), non ci si può pogare sopra, parimenti è difficile restare seduti (provateci voi durante Cry of The Martyrs), non è punk, o forse lo è, ma è anche gospel (Black Eunuch), è elettronica, echi industriali, ci sono passaggi quasi queercore stile God Is My Co-Pilot, un momento sembrano i TV on the Radio dei tempi belli e un attimo dopo i Nine Inch Nails di March of the Pigs. Questa incredibile capacità di mutare senza mai snaturarsi davvero e ciò che li rende a mio avviso uno delle cose più belle accadute alla musica negli ultimi dieci anni. E sono pienamente consapevole di quanto dico e pronto a sostenerlo di fronte a chicchessia!

Musicalmente parliamo di un gruppo con pochi, pochissimi eguali o emuli, e a questa singolarità ci accompagnano testi intrisi di militanza ed impegno politico: il risultato non può che essere un micidiale mix spigoloso e quanto più abrasivo potete immaginare, una band che letteralmente “non fa prigionieri”.

Nella speranza, speriamo non vana, che il quartetto di Atlanta (ma con base a Londra) torni a farci visita a breve, contiamo i giorni che ci separano dall’uscita del nuovo disco, Shook, e nel frattempo ci beiamo della bellezza di cui siamo stati testimoni.

 

Alberto Adustini

Foto di Massimiliano Mattiello
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VEZ5_2022: Massimiliano Mattiello

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Horse Lords Comradely Objects

Entrarono già nella mia top 2020 per The Common Task che ne certificò il valore ed eccoli ancora. Il titolo del nuovo disco fa riferimento al movimento artistico del costruttivismo, il cui assunto fondamentale è che l’opera sia il frutto di una “costruzione”, l’unire insieme qualcosa a partire da una certa quantità e qualità di elementi. Le note sono concepite come delle figure geometriche, con un tiro e una genialità uniche e propongono interi multiversi sensoriali. Un sistema di composizione per pattern, che si intrecciano stagliandosi su ritmiche vorticose e incalzanti. Questo dà vita a qualcosa di estremamente coinvolgente che non lascia alcun punto di riferimento all’ascoltatore.
Un album che definirei gioia per orecchie curiose.

Traccia da non perdere: Zero Degree Machine

 

Širom The Liquified Throne of Simplicity

I tre polistrumentisti sloveni, Iztok Koren, Ana Kravanja e Samo Kutin, hanno realizzato il loro viaggio sonoro, dal suono ricco di riferimenti ma al tempo stesso inedito, dove la mescolanza di tradizioni, etnie e culture, sta al centro dell’ indagine.
Senza strutture rigide, figure ritmiche ripetute e improvvisazioni solistiche giocano di graduali crescendo, a volte sconfinando in un rito primitivo, altre in un vortice inquieto, altre ancora in momenti di intenso lirismo. Si rinnova così il viaggio nei territori sconosciuti e misteriosi di una musica che coniuga krautrock, ambien, folk balcanico e post-rock, e lo fa con attitudine psichedelica, ma al contempo suonando come qualcosa di mai udito. Strumenti come l’hurdy gurdy, la lira, il flauto, l’ocarina, il mizmar, il banjo, violini e percussioni varie creano un folklore sperimentale, alieno e ancestrale intercettando nuove forme di esoterismo. Il finale può evocare i duetti tra i musicisti di JoujoukaOrnette Coleman – Dio ha fatto che sia riuscito a vederlo live una volta, quel giovedì 23 novembre 2006 al teatro Verdi di Padova: magico, come questo disco.

Traccia da non perdere: Grazes, Wrinkles, Drifts into Sleep

 

Black Midi Hellfire

Spregiudicato e potente, l’album in studio dei Black Midi arriva ad allargare i confini della dimensione sonora del gruppo e, oltre a confermare la sua complessità, rivela nuovi impeti narrativi volti a riflettere lo stato caotico del mondo.
Un disco altresì ostico e non immediato dove tutti i tasselli sono al posto giusto, ma non per celebrare una normalizzazione lirica e armonica, quanto per svelare i segreti della destrutturazione sonora. Il disco appare come un film d’azione epico, un’apoteosi di conflittualità stilistica capace però di racchiudere in sé un potere viscerale tale da commuovere e sorreggere l’essenza delle immagini e dei personaggi protagonisti delle dieci canzoni. Spingendo l’acceleratore su una teatralità a perdifiato, i Black Midi sfruttano tutto il loro potenziale strumentale e creativo per un surreale e rocambolesco citazionismo, che mette in crisi qualsiasi tentativo di raffronto o accostamento. Un’epifania che orienta verso nuovi percorsi evolutivi.

Traccia da non perdere: Welcome to Hell

 

Black Country New Road Ants From Up There

Evitando di parlare dell’abbandono dei Black Country New Road, da parte del frontman Isaac Wood, possiamo constatare che anche questa volta la band è capace di stupire con un senso di travolgente instabilità.
La loro euforia, infatti, sembra essere a un millimetro dal collasso e i momenti corali paiono l’eco di soliloqui amletici. La difficoltà di mantenere una relazione amorosa è il filo rosso che collega quasi tutte le tracce del disco, ma questa volta il tema è affrontato senza ricorrere allo stile surreale. Il racconto è spesso metaforico e la metafora è il più delle volte collegata al cibo. Il secondo disco dei BCNR è un dedalo della subcoscienza in cui rischiamo di perderci alla ricerca delle nostre stesse emozioni.

Traccia da non perdere: Concorde 

 

Stefano Pilia Spiralis Aurea

Ecco l’Italia (suona un po’ stonato di questi tempi)!
Che Stefano Pilia percorresse traiettorie mai banali, seppur profondamente intime, incredibilmente umane e tentendi  quasi naturalmente alla composizione classica-contemporanea, era evidente a chi ne seguiva le gesta. Di questa tendenza è perfetto esempio Spiralis Aurea: un gioiello di post-minimalismo ricco di concetti e forgiato da una profonda emotività.
La concezione compositiva di Pilia si staglia con emozionante nitore e richiede all’ascoltatore la capacità di interrogarsi in qualunque momento. Un lavoro stratificato e denso che svela intimità e confronto con stati di consapevolezza che ciascuno poi declina a seconda della propria sensibilità. Passaggio dopo passaggio, il disco trasporta in un luogo sospeso, in una selva di simboli, rituali, codici, indizi, ritorni ciclici che indubbiamente aprono una nuova fase nel percorso di questo alchimista sonoro.
Trattasi di una spirale che guida verso momenti di disarmante commozione, in cui gli ingranaggi fanno brillare l’oro dei dettagli.

Traccia da non perdere: CODEXIII (+)

 

Honorable mentions 

Tom Skinner Voices of Bishara Album breve (sei brani in mezz’ora scarsa), dove però accadono episodi notevoli. Non è facile annoiarsi con Voices Of Bishara. Facile piuttosto chiedersi fin dove potrà arrivare questo “rinascimento” jazz, che jazz non è se non nelle radici.

Birds in Row Gris Klein Trattasi di un lavoro meticoloso sotto il profilo della scrittura e della costruzione, il cui risultato è una creazione intensa e violenta, feroce e complessa, a tratti addirittura disperata. Un sound variegato e al tempo stesso perfettamente riconoscibile. Non sono tanti i dischi che arrivano dritti allo stomaco fin dal primo ascolto, questo lo è.

Crippled Black Phoenix Banefyre Il viaggio emotivo di Banefyre è sicuramente d’impatto. Il loro è un dark prog con sfumature hard, gothic, folk e psych, caratterizzato da chiaroscuri continui. Ancora un lavoro eccezionale dove la componente atmosferica è estremamente importante.

Kae Tempest The Line Is A Curve Questo lo possiamo definire il primo disco in cui Kae Tempest non ha paura di metterci la faccia e la ricerca dell’identità è finalmente completata, dichiarata. È proprio la bulimia poetica dell’artista a far fluire fiumi di parole il cui intento è chiaro e netto: nessuno slogan, nessun ritornello, nessuna bandiera, nessuna ipocrisia. Solo la consapevolezza dei temi centrali: accettazione, resilienza, abbandono, avvolti da un suono dub e hip-hop semplice, elettronico e lineare, alle volte essenziale, altre romantico.

Weyes Blood And In The Darkness, Hearts Aglow Nonostante non ci sia nulla di nuovo sotto il sole per quanto riguarda il lato musicale, ciò che è notevole nelle produzioni di Weyes Blood è proprio questa sua capacità di creare atmosfere surreali, esplorando, nei testi, le proprie paure e sensi di colpa.

 

Massimiliano Mattiello

Arab Strap @ Pesaro + Sexto ‘Nplugged

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• Arab Strap •

Parco Miralfiore (Pesaro) // 29 Luglio 2022

Sexto ‘Nplugged (Sesto al Reghena) // 30 Luglio 2022

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]“Non me ne frega niente del passato, dei nostri gloriosi giorni passati”… è affidata a The Turning Of Our Bones, come prevedibile, l’inizio del live degli Arab Strap a Sexto ‘Nplugged, ancora ferito dalla improvvisa e imparabile defezione del giorno prima dell’accoppiata Agnes Obel + Timber Timbre.

Giunti alla soglia dei cinquant’anni e freschi di pubblicazione del recente e convincente As Days Get Dark, Aidan Moffat (bermuda in jeans con risvoltino, camicia blu e abbondante sudorazione sulla folta barba bianca) e Malcolm Middleton (cappellino d’ordinanza, t-shirt nera di qualche band che non sono riuscito a decifrare e pinocchietto… insomma ecco mi pareva doveroso sottolineare un outfit non indimenticabile, per quanto trascurabile, concordo) hanno riempito una già di suo affollata piazza Castello con un live di grande (sorprendente?) potenza e vigore.

Gli Arab Strap si presentano in formazione allargata a cinque, batteria, basso e tastiere oltre alla chitarra di Middleton e ai synth di Moffat, ed è quest’ultimo, ovviamente, a tenere il palco e le redini del discorso. Nonostante non sprechi preziose energie e tempo ad interagire col pubblico, giusto un paio di “grazie” e “thanks”, un “this is a song about a very bad hangover”, la sua presenza riempie il palco, la sua voce fa il resto e completa la magia. Metà scaletta proviene dall’ultimo lavoro, nel quale svetta sulle altre una versione magnifica di Fable Of The Urban Fox ed una Tears On Tour sensibilmente riarrangiata (e forse addirittura migliorata). I volumi si mantengono decisamente alti, i momenti più distorti sono decisamente apprezzati dal sottoscritto, anche quando vanno a sovrastare brutalmente la voce di Moffat; un live nel quale le contaminazioni post dei Nostri si apprezzano ancora più che da disco, un live nel quale, se ce ne fosse ancora bisogno, si  riesce a carpire e capire l’unicità di una band che ha saputo fondere in sé riferimenti musicali così diversi e rielaborali in un suono che alla fine è solo loro.

La chiusa è di quelle da strapparti il cuore dal petto e farne pezzetti, una The Shy Retirer in versione acustica, chitarra e voce, di abbacinante bellezza, nonostante le fioche luci che in quel momento illuminano Aidan a Malcolm.

Sleep is not an option tonight.

 

Alberto Adustini

foto di Francesca Garattoni e Massimiliano Mattiello

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Marnero @ Teatro del Baraccano

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• Marnero •

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Teatro del Baraccano (Bologna) // 01 Febbraio 2022

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]Non giriamoci tanto intorno, via; le aspettative erano alte, l’hype attorno all’evento non trascurabile, anzi, biglietti bruciati in pochi minuti, teatro gremito in ogni ordine di posti, l’attesa per scoprire la scenografia e i visual, le indiscrezioni, gli ospiti a sorpresa, rumours che hanno animato queste settimane di avvicinamento a quello che, a conti fatti e senza timore di smentita, è stato il principale evento musicale accaduto, quantomeno in Italia (che la prudenza non è mai troppa) in questo freddo martedì di inizio febbraio: i Marnero in concerto a Bologna al Teatro del Baraccano.

I Marnero, il cui nome, coincidenza vuole abbia lo stesso numero di lettere e le vocali nella corretta sequenza di una nota cittadina costiera in provincia di Imperia, proporranno a poche decine di fortunati, selezionatissimi e soprattutto buongustai spettatori, l’esecuzione integrale di quello che è, a mio insindacabile giudizio, uno dei dischi usciti in Italia più importanti e belli degli ultimi, che ne so, facciamo venti, trent’anni? Un disco che io e il resto degli astanti, come mi sarebbe poi parso di capire dalle reazioni in sala, conosciamo a memoria, parola per parola, nota per nota; quei 31 minuti sono un sentiero, forse meglio un vortice, una spirale, nella quale smaniamo di addentrarci quanto prima. Un disco di mare, del tempo, non necessariamente atmosferico, di navi, di rotte, del perdersi; signore e signori, ecco a voi Il Sopravvissuto.

L’attacco del disco è una sberla in faccia, un pugno in pieno volto, un muro d’aria che ti sbalza a metri di distanza, l’impianto si satura subito, la voce dell’elegantissimo signor Raudo fatica a trovar spazio tra quel turbinio di distorsioni e fendenti di batteria, ma tanto stiamo già tutti urlando “Io sono il Sopravvissuto, son trino e non uno, son vuoto a metà e non mi aspetta nessuno” che a queste quisquilie diamo poca se non nulla importanza. 

I quattro baldi bardi (?) mostrano, ancora una volta, un affiatamento ed un’alchimia commovente da quanto risulta naturale ed intrinseca, e rapito come sono da quanto avviene sul palco, nel mentre attaccano gli inconfondibili violini di Non Sono Più Il Ghepardo di Una Volta, lo sguardo sale di qualche metro sulle immagini (ah, i visual di cui tanto si vociferava!) che scorrono sul fondale – non marino – giusto in tempo per intravedere, da lì in avanti, un individuo malmenare un malcapitato volatile, scorgere delle navi naufragare od in alternativa andare a fuoco (che io debba quindi intuire che sia giunta l’ora, chiedo eh…), vergini in bianca veste dalla bocca grondante sangue, lupi (ah, quanti lupi! sono loro i veri protagonisti della serata sia chiaro) un Cristo crocifisso sulla spiaggia, cadaveri presumo reduci di qualche cruenta battaglia, ed altre simpaticissime immagini che potrete rivedere nei prossimi giorni su Rai Gulp o Cartoonito.

(Che Non Sono Mai Stato) ci porta verso uno dei momenti più alti della serata, ovvero quel Il Porto Delle Illusioni che ti fa un po’ maledire il dover star seduto a con una mascherina sul viso ma tant’è, come dice nuovamente Raudo, “Scalpitate interiormente” (anche se non son sicuro fosse scalpitare il verbo, ma è il pensiero che conta, qui come altrove).

C’è spazio anche per l’imprescindibile (per una kermesse che aspiri ad essere tale) ospite a sorpresa, quel Francesco Zocca già ospite del disco in questione e poi un altro paio di passaggi video di lupi, un riferimento che non colgo (e che ancora mi rode) a Daniele Bossari, una cravatta legata in fronte, ed è tempo di volgere all’epilogo, virare verso il porto, sotto con Zonguldak, e tutti all’unisono con tutto il fiato che c’è rimasto gridiamo “Sono qui, fermo seduto, sopravvissuto ma stanco morto. Guardo le navi ormai arrugginite nel porto”, mentre con la mano sul telecomando digitiamo in maniera compulsiva 01, il codice per votare i Marnero, vincitori morali del Festival di Niente.

 

Alberto Adustini

Foto: Massimiliano Mattiello
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Notwist @ Sexto ‘Nplugged

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• Notwist •

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Sexto ‘Nplugged

Sesto al Reghena (Pordenone) // 7 Agosto 2021

 

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