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Tag: netflix

Strappare Lungo i Bordi

Attenzione: questo articolo contiene spoiler

Che cos’hanno in comune Xdono di Tiziano Ferro, Clandestino di Manu Chao e Non Abbiam Bisogno di Parole di Ron? 

All’apparenza niente, e soprattutto niente prima del 17 novembre. Poi Michele Rech, al secolo ZeroCalcare, ha deciso che era una buona idea posizionarle una dietro l’altra in quella che è l’unica opera in grado di mettere d’accordo tutto il paese dai tempi del compromesso storico: la serie animata Strappare Lungo i Bordi.

Dell’attesissima serie se ne sta parlando diffusamente, e – tranne qualche voce fuori dal coro sui social volutamente da bastian contrario – sempre con toni lusinghieri ed entusiasti, perché è oggettivamente un gran bel lavoro, frutto di una cura per i dettagli magistrale. E di conseguenza, altrettanto curata è la colonna sonora, eclettica e trasversale, talmente variegata da mettere anche lei d’accordo tutti, o quasi.

Partiamo dalle basi: esistono film in cui la colonna sonora a volte sembra quasi estranea. Magari decontestualizzata non sarebbe neanche malvagia, ma lì, in quella specifica situazione, in qualche modo stona. Qui invece, in sei episodi per un totale di un’ora e mezza, non c’è una nota fuori posto. Anche la giustapposizione fra Clandestino e Xdono per andare a descrivere i decisamente diversi input musicali di un adolescente nel 2001, per quanto suoni strana e faccia pensare “ma che c’azzecca Manu Chao con Tiziano Ferro”, funziona come la voce di Valerio Mastandrea sull’Armadillo, e cioè alla perfezione.

E poi c’è la varietà. Momenti accompagnati dal pop più ballabile a cui possiate pensare accanto ad altri in cui invece è la base strumentale a fare da padrona, lasciandosi avvicinare solo da qualche rara parola, come nel caso di Wait degli M83. Canzoni nazional-popolari vicine ad altre più ricercate, meno note sulla scena italiana, una su tutte Haut Les Coeurs del collettivo francese Fauve. Più che una canzone sembra quasi un discorso messo su una base; un ritmo incalzante fino a diventare ansiogeno, che poi si stabilizza nel ritornello e invita alla speranza molto più di quanto ci si aspettasse. Nonostante non sia nell’ultimo episodio, questo pezzo del 2013 riassume benissimo, a mio parere, il senso della serie.

“Tu vois, moi aussi j’ai peur, j’ai peur en permanence (Vedi, anch’io ho paura, ho paura in continuazione)
Qu’on m’annonce une catastrophe (che mi venga annunciata una catastrofe)
Ou qu’on m’appelle des urgences (che mi chiamino dal pronto soccorso)
Mais on a la chance d’être ensemble, tous les deux (ma abbiamo la fortuna di essere insieme, noi due)
De s’être trouvés, c’est déjà prodigieux” (di esserci trovati, ed è già un miracolo)

Bisogna poi parlare nello specifico di due pezzi. Il primo è ovviamente la sigla, Strappati Lungo i Bordi, realizzata ad hoc da Giancane. È una canzone potente, che ti si appiccica in testa e non ne vuole sapere di andare via. È una canzone che ti fa sentire giovane ma non incompleto, e mi perdonerà il Signor Italo Calvino, perché a suo modo ti fa sentire parte di un qualcosa e soprattutto ti fa sentire compreso, come se dicesse “Tranquillo che ce sta qualcun altro su ‘sta barca”. Anche altri pezzi strumentali apparsi nella serie sono stati curati da Giancane, che già aveva prestato a ZeroCalcare la sua Ipocondria per i video usciti durante il periodo del primo lockdown, a conferma di come questa collaborazione sia ormai già ben collaudata e fruttuosa.

L’altro pezzo che merita una menzione speciale è The Funeral dei Band of Horses, o come ormai può essere definito, dato il suo utilizzo nel mondo cinematografico e televisivo, “il colpo di grazia”. Fin dalle prime note, chi la conosce può presagire che stanno per arrivare le lacrime, ma in realtà è una canzone così eloquente che può intuirlo anche chi invece non ha familiarità. Ed è proprio questa eloquenza, questo quasi invitarti a piangere con i suoi silenzi e i suoi cambi di intensità studiati, che la rende perfetta per il commoventissimo finale della serie. 

Proprio come la voce dell’Armadillo.

 

Francesca di Salvatore

Stranger Things & the faboulous eighties

Il 4 luglio gli americani festeggiano la Giornata dell’Indipendenza. Noi che in Italia non festeggiamo un bel niente, e boccheggiamo a causa del caldo africano, potremo però consolarci con l’uscita della terza stagione di Stranger Things su Netflix.

Aria condizionata, un televisore e una vaschetta di gelato è quello che ci serve per farci trasportare nelle atmosfere cupe di Hawkins e seguire le avventure di Undici e dei suoi amici nerd, che tanto ci piacciono.

La serie fin dalla prima stagione è diventata da subito un cult tenendo incollate al teleschermo milioni di persone che volevano arrivare il prima possibile all’ultima puntata per avere una risposta alla domanda che li tormentava “Che fine ha fatto Will?”.

Il telefilm creato da Matt e Ross Duffer è riuscito a ricreare al meglio le atmosfere dei Fabolous Eighties e a farci respirare l’aria frizzante di quel periodo storico.

Ma come ci sono riusciti?

Sicuramente grazie alla colonna sonora che mixa in modo convincente brani creati ad hoc con i grandi successi degli anni ’80.

I Duffer Brothers hanno affidato fin dall’inizio della serie la creazione delle musiche a Kyle Dixon e Micheal Stein dei Survive (una band di musica elettronica di Austin). Synth elettronici e musiche un po’ psichedeliche che accompagnano i personaggi nel corso delle loro vicissitudini.

E’ proprio a loro che dobbiamo la ormai famosissima canzone della sigla che, già dalle prime note, ci accompagna nelle atmosfere cupe e un po’ angoscianti del Sottosopra.

Ma Stranger Things non è solo buio e ansia. La serie ci apre una finestra su quella che era la vita in una cittadina americana negli anni ’80 tra amori, amicizie e ovviamente problemi. Ed è qui, nella quotidianità, che trovano spazio quelle canzoni che tutti noi conosciamo e amiamo. 

Africa dei Toto, Runaway dei Bon Jovi, Should I Stay o Should I Go dei Clash e Heroes di David Bowie, sono solo alcuni dei titoli che compaiono nella ricca, anzi ricchissima, soundtrack della serie.

Tutto ciò che è anni ’80 trova nuova vita in Stranger Things. 

E voi siete curiosi di sapere cosa ci attende nella nuova stagione? Per scoprirlo dobbiamo aspettare domani quando le porte del Sottosopra si apriranno per noi per la terza volta…

Laura Losi

Bruce Springsteen on Broadway: lo spettacolo del Rock ‘n’ Roll che scuote le anime

Fuori lo sfavillio di Broadway, il traffico di New York, la frenesia dell’America di oggi. Dentro l’eleganza di un teatro, 975 poltroncine, un palco, una chitarra e un pianoforte. E un uomo, vestito di nero. Un grande uomo, un artista inarrivabile.

Bruce Springsteen.

Non va in scena uno spettacolo, non ci sono maschere, né scenografie, né metafore, né giochi di luce. La luce è soltanto una, a tratti soffusa, a tratti decisa ad illuminare l’unico protagonista.

Commedia e tragedia umana che si mescolano, il magic trick del cinismo e dell’illusione, svelato nelle battute finali, per giungere ad una visione di speranza, di presa di coscienza, di responsabilità.

Egli racconta, si racconta e scava così tanto a fondo da toccare le tre molecole fondamentali del suo DNA. La famiglia.

La madre Adele, instancabile lavoratrice, la Legge della casa, lo sguardo della benedizione divina, la donna con la grande passione del ballo, perché quando la vita si fa difficile “troveremo un piccolo rock ‘n’roll bar e ci metteremo a ballare”.

Il padre Douglas, il lavoratore dalla tuta verde, l’uomo che abitava la doppia dimensione, quella della casa e quella del bar… e, quando sedeva al bancone, non voleva essere disturbato. Lui che aveva ribattezzato la chitarra “the fucking guitar”, mai d’accordo sul percorso intrapreso dal figlio.

Il meccanismo inconscio dell’emulazione: << Emuliamo coloro il cui amore desideriamo ma non otteniamo. Scelsi la voce di mio padre perché alle mie orecchie aveva qualcosa di sacro. Mio padre, il mio eroe e il mio peggior nemico. “Vedi quell’uomo sul palco, papà? Sei tu, quello è come ti vedo io” >>.

Il fantasma che per anni ha continuato ad aleggiare sull’esistenza di Bruce uomo e musicista e che si è trasformato in antenato nel momento in cui, alla vigilia della nascita del suo primo nipote, ha confessato le proprie colpe, liberando un futuro padre dalle catene, permettendogli di intraprendere l’avventura di genitore lontano da demoni e rimorsi, suggellando il momento più bello nell’album dei loro ricordi.

Famiglia che sale fisicamente sul palco nella figura di Patti Scialfa, moglie del cantante. La rossa delle cui gambe e della cui voce Springsteen si innamorò quando la vide esibirsi sulle note di Tell Him degli Exciters allo Stone Pony, nel 1984.

Lei ispirazione costante, compagna di vita e di musica. Lei sigillo della fiducia, l’unico valore che conta nella fragilità dell’essere umano e delle relazioni. La resistenza di un legame costruito solidamente, con il tempo e nel tempo.

E poi c’è il Rock ‘n’ Roll che ha scosso l’anima di un bambino di Freehold, nel New Jersey, durante una tranquilla domenica estiva del 1956. La routine di casa-compiti-chiesa… e fagiolini, fagiolini e i cazzo di fagiolini… è stata spezzata dalle movenze di un Adone che si agitava in TV, abbracciando una chitarra. Un nuovo genere di uomo che spaccò il mondo in due, “quello sotto la tua cintura e quello sopra il tuo cuore”.

La magia di Elvis Presley, colui che permise di ricavare dal buco nero di Freehold una pagina bianca con un futuro da scrivere. Un destino, quello di chi rischia e mostra il vero se stesso. Da lì, un lavoro continuo: la prima chitarra in affitto, lo show d’esordio a sette anni di fronte ai bambini del quartiere che ridevano di lui perché in realtà faceva tutto tranne che suonare.

Non aveva imparato nulla in due settimane di noiose lezioni. Tuttavia agitava in aria la chitarra, si metteva in posa: << È stata la prima volta in cui sentii l’odore del sangue>>. Da lì, una corsa continua.

Fino al 1971, anno in cui aveva esaurito le esperienze possibili per un musicista nel New Jersey. Aveva suonato a matrimoni, funerali, battesimi, nei bar, nei licei, nelle prigioni, all’ospedale psichiatrico.

No, non poteva fermarsi. Lui era la next big thing. Il tipo che passava la radio non era più bravo di lui, lo sapeva.

E allora imboccò la strada che lo portò lontano da Freehold, la Thunder Road, per seguire, per realizzare il sogno americano. Ma non si fa Rock ‘n’ Roll senza una band. Senza la sua E Street Band, dietro cui è celato un segreto.

Lo confessa, Bruce, in questa occasione privilegiata: << Nel rock esiste un’equazione per cui, quando tutto va bene, 1+1=3. La grandezza del rock dipende dalla grandezza dalla band, è una comunione di anime, è una fratellanza. Non deve essere composta dai migliori musicisti ma dai musicisti giusti. 1+1=2 è l’ordinario, 1+1=3 è quando la tua vita cambia, quando sei folgorato da una visione e ti senti benedetto >>.

La frazione di un istante di silenzio e vola sul palco un altro fantasma, quello del sassofonista Clarence Clemons, scomparso nel 2011. Il Big Man a cui l’artista è stato legato da un’indissolubile amicizia, l’uomo dalla grande risata, dalle grandi mani, dal grande suono che proveniva dal suo strumento.

Una perdita incolmabile. << Perdere lui è stato come perdere la pioggia >> – e aggiunge – << Se credessi nel misticismo, direi che Clarence e io siamo stati compagni di viaggio in vite precedenti. Ci vediamo nella prossima vita, Big Man! >>.

E poi c’è l’America, oggi minacciata da uno spettro pericoloso, dalle tenebre della divisione, dell’odio, della censura della libera stampa.

<< Una situazione che credevo morta e sepolta e pensavo di non rivivere mai più durante la mia esistenza. Troppe vite, troppi uomini giusti si sono sacrificati in nome della democrazia americana >>.

Se per il tema politico vengono intonate The Ghost of Tom Joad e una delle versioni più intense mai eseguite di The Rising come inno alla rinascita, ogni canzone in scaletta è la perfetta colonna sonora degli aneddoti, dei racconti e delle parole pronunciati da quella voce così solenne, così profonda, così spezzata, in alcuni istanti, dall’emozione.

I brani sono quasi “parlati” sulla scia dei monologhi che li introducono. La musica, riarrangiata in chiave acustica, è essenziale, nuda, spogliata di qualsiasi artificio e accompagna le singole tappe del viaggio esistenziale di Bruce Springsteen.

Un viaggio di andate e di ritorni.

Sì, perché oggi la sua casa di trova a dieci minuti da Freehold, nel New Jersey. Una notte è tornato a passeggiare proprio lungo la strada natia. Il grande albero sotto il quale, da piccolo, egli trascorreva l’estate non c’è più. Ricorda che, all’epoca, era stato l’unico fra i suoi coetanei ad arrampicarsi fino alla cima, scorgendo per la prima volta il mondo oltre la città.

Di quell’albero restano le radici ben piantate a terra. Terra fatta scorrere tra le dita mentre, quella notte, si fermò ad ascoltare i suoni, i rumori, ad odorare gli stessi profumi di sempre. Ci sono cose che rimangono intatte. Ci sono anime che vivono in eterno.

C’è Douglas Springsteen a cui il figlio fa visita ogni sera.

C’è la sua mancanza e il desiderio che fosse seduto in quel teatro e vedere tutto ciò.

C’è l’amore per il ballo di Adele, più forte della sua perdita di memoria.

C’è il valore del Rock ‘n’ Roll che è quello di scuotere le anime nello scambio vitale tra l’artista e il pubblico.

Infine, c’è una preghiera che gli torna in mente, quella noiosa che era costretto a recitare più volte al giorno da bambino e che oggi acquista un nuovo significato.

Bruce Springsteen on Broadway si chiude con il Padre Nostro. Una benedizione.

Il recupero di una dimensione quasi ultraterrena, di totale trasporto emotivo in cui è impossibile non immedesimarsi, rintracciando alcuni frammenti della propria storia, sentendosi chiamati in causa, per intraprendere lo stesso viaggio, a ritroso, di recupero dell’Io più autentico.

E non averne paura. Redimere il passato per costruire il futuro, prendendo sul serio il presente.

Su quel palco, in oltre 230 shows dallo scorso 12 ottobre 2017, Bruce Springsteen l’ha fatto, per tutti noi.

(Springsteen on Broadway disponibile ora su Netflix ndr).

 

Testo di Laura Faccenda

Fotografia di copertina di Henry Ruggeri

 

Show Setlist

Growin’ Up
My Hometown
My Father’s House
The Wish
Thunder Road
The Promised Land
Born in the U.S.A.
Tenth Avenue Freeze-Out
Tougher Than the Rest
Brilliant Disguise
The Ghost of Tom Joad
The Rising
Dancing in the Dark
Land of Hope and Dreams
Born to Run