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Tag: nevermind

Nevermind compie trent’anni e io no

Si è preso il pomeriggio libero. E una bottiglia di buon vino.
Telefono spento, non capitava da secoli. Doccia, vestiti puliti, quasi fosse un appuntamento. Arrivando al mobile del giradischi ha un’esitazione. Prende in mano il disco, osserva la copertina a lungo. 

Due soli pensieri lo sfiorano: il primo riguarda la sua personale opinione del soggetto immortalato, dopo la richiesta di risarcimento. E pace, esiste il karma, ne è convinto. Il secondo è che quel pezzo di cartone, quel bambino che nuota è il suo personale ritratto di Dorian Gray. Anzi, che lui stesso è, per quel disco, il quadro che invecchia. Quel fottuto bambino rimarrà per sempre piccolo, nudo e con pistolino notevole. Quel disco rimarrà per sempre giovane. Per sempre meraviglioso. Per sempre adorato. Lui invece no, invecchierà, diventerà noioso, conservatore e malinconico. Il disco si nutrirà di lui, perché il patto è stato sancito nel 1991 e mai verrà spezzato. Non c’è un solo disco che lui abbia amato che di colpo sia invecchiato male. O che proprio sia invecchiato. 

È il dono che la musica porta con sé, è il modo che la musica ha per fregare il tempo. Perché ci sono tempi scanditi dalle estati, dai viaggi, dalle relazioni, tempi scanditi da olimpiadi, nascite, morti e successi. Ma sono tutti punti sulla linea temporale. 

La musica invece ci segue, a volte ci insegue. La nostra relazione con i dischi che amiamo ha un inizio, raramente una fine, perché si impasta con la nostra vita, si intreccia nella storia, diventa colonna sonora, diventa compagna. A volte è un accento, a volte medicina. 

Lui aveva da poco fatto le analisi per colesterolo e tristezza, le principali candidate del suo malessere. Dieta e musica. Nessuno aveva contemplato il vino, ergo, fanculo. 

Andrea nevermind 30Nevermind compie trent’anni. E lui no. Lui ne ha compiuti di più. Però Nevermind e lui hanno compiuto trent’anni, quindi è il caso di festeggiare come si deve. 

Si siede per terra, si accende una sigaretta, il fruscio della sigaretta si confonde con quello della puntina. E allora cuffie su, il mondo resti fuori, questa è una cosa tra lui e i Nirvana.

Quattro accordi, che sono un portale per l’inizio di tutto. L’alfa degli anni novanta, il big bang, forse involontario o forse no, che cambiò le regole del gioco. Una overture che puzzava di icona generazionale dopo soli cinque secondi. Poi Novoselic riportava la calma, poco prima che Kurt chiamasse tutti alle armi. Letteralmente. 

“Venite siore e siori, venite grandi e piccini. Vi mostreremo come intrattenere tutti quanti per quasi quarantacinque minuti! Uno spettacolo di freaks da psicoanalisi, un trio di emarginati che mettono in versi, su un palco, il loro personal disagio! Rimarrete incantati da golosissimi riff e ritornelli orecchiabili, e nel mentre faremo passare testi pesantissimi, senza che nessuno sanguini dalle orecchie! Intanto caricate i fucili, si sa mai!”.

Benvenuti nella palestra più famosa della storia della musica. Potere di MTV, potere di una generazione pronta a smontare le permanenti di molte band. L’onda lunga degli anni ottanta sbatteva contro tre ragazzi armati di rabbia, intelligenza, sensibilità e una discreta dipendenza dagli oppioidi. 

La depressione, la disillusione, una geniale ironia a tratti macabra. Smell Like Teen Spirits era programmatico, era il manifesto di un disco, di un pensiero, di un inizio. 

(Scivola la puntina, scivola giù altro vino.)

Kurt gioca con Burroughs, e poi fa cantare tutti i fans dell’ultima ora, perfetti analfabeti funzionali, un ritornello che descrive la follia collettiva che li sta per investire. In Bloom. Sì, però. 

Però è la seconda canzone in cui si parla di armi, Kurt. 

Però questa non è solo ironia. Qua si parla di incomunicabilità. “I like beautiful melodies telling me terrible things”, diceva Tom Waits. Sembra la terza legge incisa a scalpello sulle tavole del grunge. 

Come as You Are continua sulla stessa ambiguità, sulle sfocature, in una canzone dove le parole scivolano una dentro l’altra, dove il nemico diventa memoria, dove aprirsi all’altro è una continua scommessa, dove essere disarmati è l’unica condizione per la conoscenza. 

(Vino. Serve vino.)

Paura, depressione, fuga di Breed. Si cade poi nel paradiso artificiale di Lithium, dove è bipolare la struttura della canzone, che diventa lei stessa messaggio, facendo per un attimo comparire McLuhan sopra la puntina. No, sarà il vino. Però la canzone-è-il-messaggio, poche storie. 

Polly rovescia i punti di vista, è come se a metà di una partita a scacchi vi scambiaste le parti. È un esercizio di stile, ma di nuovo è anche una domanda profonda sulla comprensione e sulla visione della realtà. Si passa a Heller, al Comma 22 , nelle terre tiratissime di Territorial Pissing, tre accordi in 2:22 per un crescendo di alienazione, di differenze, di urla disperate, mentre Grohl maltratta definitivamente la batteria e il “The Terminator”, il rullante comprato apposta per Nevermind dal suono quantomeno incisivo. 

Si passa ai sentimenti, all’amor scortese, quello per Tobi Veil, anche se Drain You fa un po’ di confusione tra infanzia, sesso e droga. Tra fluidi corporei e sostanze stupefacenti, tra dipendenze e interscambi. O forse è tutto voluto, sepolto solo da un velo di buoni accordi per celare il significato ai più?

Stay Away è un collage di frasi fatte, è inno alla superficialità. Il puzzle di Nevermind è quasi completo. Serve il non-sense di On a Plain, perché Kurt lo dirà, anni dopo: era pigro, spesso scriveva i testi all’ultimo e non sempre questi avevano un senso vero e proprio. “Impressionismo cazzaro”, fu definito da critico anonimo. A volte uscivano grandi cose, a volte materiale buono per la psicoanalisi, a volte solo parole.

(Sono veramente ubriaco)

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Something in The Way ha dentro l’essenza di Nevermind. In studio proprio non veniva. Butch Vig, che durante le registrazioni rubava i takes a Kurt con ogni mezzo possibile, si accorge che il cantante stava finalmente suonando da dio, ma era in sala di regia, con la chitarra scordata e senza qualcuno che gli desse il ritmo. Ma era buona, vera e unica. Prese Novoselic e scordò il basso. E seguì il violoncello.
Nevermind era questo. 

Kurt urla ancora per qualche minuto nella ghost track. 

Poi la puntina esce dal solco. 

Silenzio, un bicchiere vuoto, un sospiro. 

Nevermind è stato il primo che “ho lasciato entrare”. Il primo album che ho amato, studiato, giustificato, idolatrato, tradito.
Nevermind fu il primo bacio. Indimenticabile, umido, direbbe il signor Gump, inaspettato. Sperato.
È il mio Dorian Gray, sarà sempre lì, identico e monolitico nella sua grandezza. 

Nevermind compie trent’anni. E io no. Loro sono diventati una pagina nera sul diario del liceo. Otto aprile, data dell’annuncio. Lasciarono un groviglio indistricabile di domande, un peso infinito nella testa di un adolescente. Fu un dolore fisico, che ricordo bene. La loro fine e la loro storia successiva sembrarono le risposte alle domande di Nevermind. Tre vie, tre possibili bivi da prendere, tre modi di affrontare la vita. Servono gli anni in più che ho per accettare il fatto che il lieto fine non è tanto rock. 

Ma questo album servì a iniziare qualcosa. Servì per aprirsi a una nuova musica, a nuovi anni, a trovare nei Pearl Jam il mio “bright side” del grunge e innamorarmi di nuovo, servì per i dischi, i concerti, la musica. 

Servì per parlare con nuove persone, con amici che resistono, servì a condividere, a ballarci su e a viaggiare cantando. Servì riascoltarlo dieci anni dopo, vent’anni dopo e vedere dove cazzo stavo andando. Serve riascoltarlo anche a distanza di trent’anni e sentire che gusto ha. 

Nevermind compie trent’anni. Io molti di più, ma stiamo ancora bene insieme. 

Senza arrossire, sono fortunato. 

Oh well, wathever, 

Nevermind. 

 

Andrea Riscossa

 

appunti andrea nevermind 30

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa

Kurt Cobain, 25 anni dopo

Esterno, giorno.
Varazze, Liguria.

Marzo 1994

“I Nirvana scrivono roba pesa, ma nell’ultima riga c’è quasi luce”.

Andrea mi telefonava quattro volte in un anno.

“C’è d’onda”, mi diceva. Era un richiamo, era una convocazione a un rito pagano tra maschi adolescenti.

“C’è d’onda fino a lunedì”. E così il sottoscritto il sabato entrava nel suo liceo classico con la valigia.

Poi treno, poi Varazze, poi onde. La sera birra e paste scotte e soprattutto una montagna di parole, finché all’alba si tornava in acqua. Quel weekend di Marzo, domenica mattina Andrea esce dall’acqua, mi raggiunge sul molo e con un sorriso irripetibile mi annuncia che aveva capito, i Nirvana scrivevano “cose sensate”.

Era così, lui, ci rimuginava. A scuola ci andava per far contenta sua madre, ma apparteneva a quella schiera di persone intelligenti e refrattarie al programma ministeriale. Parlavamo di Shakespeare, degli Who, di Sturm und Drang e Sonic Youth. Lui masticava cose nuove, le digeriva nella notte e poi l’indomani ruttava sentenze. Eravamo opposti e inevitabilmente attratti.

Se a sedici anni due maschi diventano amici lo saranno per sempre. Goonies quasi automuniti.

I Nirvana erano argomento di discussione tra di noi, e furono l’argomento di una delle più belle chiacchierate della mia vita, arrivata sotto un cielo stellato l’estate successiva. Eravamo ubriachi, belli come eroi greci, pieni di paura e con un bisogno infinito di un pilota per il viaggio verso l’età adulta.

 

 

Segnali.

A volte bisogna prevenire, o istintivamente agire per tempo. I segnali erano lì, alla luce del sole.

Ho ritrovato Bleach, un oggetto mistico, in formato cassetta, comprato dopo Nevermind, in un atto filologico che si rivelò un pugno in pancia. A dirla tutta avevo appena ritrovato tutte le cassette dentro una scatola rimasta chiusa come una capsula del tempo dopo l’ultimo trasloco.

E’ stato un salto mortale all’indietro nei primi anni ‘90, ma senza particolari momenti di malinconia o nostalgia. Quelli sì, sono arrivati pochi giorni dopo quando, inspiegabilmente, mi ritrovo il diario del liceo del 1994. Otto aprile, pagina nera.

E lì realizzo che il destino, come le donne della mia vita, si era dovuto impegnare per farmi comprendere qualcosa. Mi sarebbe arrivato uno tsunami di ricordi che avrei voluto volentieri tenere sepolti e invece.

E invece succede che venticinque anni dopo, forse, è giunto il momento di fare pace con te, Kurt Cobain.

Scrivere è catarsi, scrivere ti farà bene, mi dico. Ma sì, devi elaborare il lutto, mi dicono. Che poi questa storia di elaborare i lutti io davvero non la comprendo. Magari lo faccio a mia insaputa, elaboro a mia insaputa. So che sono passati venticinque anni dall’ultima volta che ho ascoltato per intero, per bene, dall’inizio alla fine, Nevermind.

Quindi, cuffie in testa, motori accesi, pronto a salire in sella alla più grande madelaine mai preparata. Ho la speranza che a forza di pensarci e di girarci attorno, come un derviscio in camicia da boscaiolo, io possa cadere in trance e tornare a quell’inizio aprile, per completare la mia missione.

 

 

Esterno, notte
Barrumba, Torino
ore 01.30 am

Ho appena percorso la scalinata del locale senza toccare gli scalini. Nonostante i miei 184 centimetri il buttafuori mi ha elevato al cielo, come cime ineguali, sparandomi nella neve fuori del locale.

Ballavo. Strafatto di Radiohead, Rage Against the Machine, Alice in Chains, Pearl Jam, Nirvana e, ammetto, un pò di alcool. Mi ha fregato Plush degli Stone Temple Pilots, stavo pogando, mi dicono, contro il buttafuori in persona, il che, in effetti, è disdicevole.

Ho scoperto la musica, questa musica, perché come spalla dei Guns, a Torino, vennero chiamati i Faith No More e i Soundgarden.

E fu un’epifania divina. E fu l’inizio di un amore infinito. E fu allora che Kurt Cobain, per primo, guardando dentro un obbiettivo fotografico, guardando dentro una generazione, sembrò dirmi “ma sei veramente sicuro di capire quello che vi sto dicendo?”.

Il cosiddetto grunge (facciamolo una sola volta, adesso, di nominarlo, poi smetto, prometto), aveva una caratteristica che mi affascinò: diceva cose terribili, con giri di chitarra epici. In generale gli artisti di quegli anni si erano finalmente tolti la maschera e cantavano, letteralmente, della loro imperfezione.

Erano infanzie atroci finite in liriche, erano tossicodipendenze molto meno intellettuali di quelle degli anni settanta. Dal superomismo, al supermachismo si era arrivati a un rock di antieroi.

E l’antieroe, più umano e più reale, porta a un livello superiore l’immedesimazione, si alza il grado di empatia. Kurt e soci cantano di quanto ognuno di noi fosse legittimato a sentirsi inadatto al mondo, alla famiglia, alle aspettative sociali. E’ come un nuova rivoluzione, in cui l’attrito non è più intergenerazionale, qui la frizione è all’interno della generazione stessa.

Un adolescente, davanti a questa visione, abbraccia Kurt con le lacrime agli occhi.

Ma.

 

 

Interno, giorno
Torino, venerdì
8/4/1994

E’ la televisione a dirmelo. Asettico. Dio, era così prevedibile che già esisteva un “coccodrillo”. Un mese prima, a Roma, ci aveva provato. Solo che finché non succede pensi che possa non succedere. Speri che una persona che ha saputo mettere in versi un malessere così vero, profondo e universale abbia gli strumenti per gestirlo, per tenere lontano tutti i demoni evocati dalla propria arte. E invece no, come un golem senza controllo, creato dalla potenza delle parole, arriva la morte.

Smemoranda. Pagina nera, ritagliai una piccola foto da una rivista di musica. Quella fu la mia lapide per lui, senza epitaffio. Nevermind, In Utero, Bleach, Incesticide, finirono in un cassetto. Tutto il senso di quelle parole erano offuscate dalla mia rabbia.

Suona il telefono.
“C’è d’onda”.
“Andrea, Kurt si è sparato in faccia”.
“Lo so, per questo c’è d’onda”.
Torino era la mia Seattle. Grigia, bagnata, vibrante di musica nelle cantine. La musica non la lasciai, ma odiavo i Nirvana perché mi sentivo tradito, mi avevano dato la benedizione per essere imperfetto e poi…

E poi capii cosa aveva portato un tossicodipendente a spararsi. Lessi, mi informai, pendevo dalle labbra dei suoi amici sopravvissuti. Anche se, negli anni seguenti, Seattle si trasformò in una Spoon River. Prima di Cobain ci fu Andrew Wood, dopo di lui quasi tutti, in anni diversi.

Staley, Hoon, Weiland, Cornell. Altri entravano e uscivano dalle cliniche per disintossicarsi. Cosa ci poteva essere di buono in gente così? Dove stava la coerenza tra il messaggio e l’artista che questo messaggio lo aveva non solo creato, ma poi cantato al mondo intero?

Kurt Cobain scrisse, nella sua lettera di addio che è meglio ardere in fretta piuttosto che spegnersi lentamente. Mi piace ancora adesso leggerla come l’ultimo atto di autoindulgenza, l’ultimo tentativo di dare un senso a quanto era successo. Faceva musica per sentirsi libero. Era musica di libertà, diceva. Dopo Nevermind questo non fu più possibile.

Guardandosi allo specchio credo non abbia più trovato la stessa intenzione, la stessa empatia o, semplicemente, lo stesso naso.

Sospesi il giudizio. Era inutile, imparai ad accettare che alcuni eventi esulano dal controllo o dalle proprie speranze. Anzi, ne trassi una morale che mi servì pochi anni dopo.

All’ennesimo “bisogna essere forti”, capii che invece no, non bisognava essere forti. Bisognava aprirsi al mondo, proprio in quel momento di dolore planetario e generazionale. Bisognava mollare la presa, far cedere le mandibole serrate, cercare l’empatia e allargare le braccia in cerca di abbracci.

Fu esattamente l’opposto. La morte di Kurt Cobain fu un passo in avanti verso l’essere adulti. Fu un insegnamento doloroso, ma così carico di significati che ci ho messo anni, letteralmente, a digerirlo. E fu triste, perché fu un addio.

Come una supernova, esplose. La sua polvere resta ancora oggi in quasi tutta la musica che ascolto. Ne nacque una galassia di artisti liberi di cantare un nuovo umanesimo, spostò l’obbiettivo dell’epos musicale degli anni novanta, lo fece restando fin troppo coerente col messaggio che portava, ma indicandoci, forse, anche la via più sicura per non seguire i suoi ultimi, sbagliatissimi, passi.

Non rimaneva altro che fare un bel respiro, voltare la testa al futuro, convincere i piedi a fare lo stesso e rimettersi in cammino.

Ma sì, dopo tanti anni, posso fare pace con te, Kurt.

 

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Jeff Kravitz/FilmMagic