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Tag: phoebe bridgers

First Two Pages Of Frankenstein

Avviso per i più sensibili: anche questo disco ti spaccherà il cuore, cosa quasi scontata per i fan de The National ma, se ti stai approcciando per la prima volta a questa band alt rock di Cincinnati naturalizzata Brooklyn, mi sembra doveroso avvertirti.
Bene, ora che hai preparato i fazzolettini, possiamo cominciare.

Esce oggi l’attesissimo ultimo disco de The National, colmo come sempre di feat di una certa importanza, per la celeberrima etichetta 4AD. 

Attesissimo perché il cantante Matt Berninger ha affermato in un’intervista che la band stava avendo diversi problemi: “una fase molto buia in cui non riuscivo a trovare testi o melodie e quel periodo è durato più di un anno. Anche se siamo sempre stati ansiosi e abbiamo litigato spesso durante la lavorazione di un disco, questa è stata la prima volta in cui ci è sembrato che le cose fossero davvero arrivate alla fine”.
Ma, fortunatamente, The National sono stati sempre dei maestri nel saper estrapolare la bellezza anche nella sofferenza e nel dolore, e quindi “siamo riusciti a tornare insieme e ad affrontare tutto da un’angolazione diversa, e grazie a questo siamo arrivati a quella che sembra una nuova era per la band”, afferma il chitarrista/pianista Bryce Dessner.
Il disco inizia con una ballata al pianoforte semplice e romantica, Once Upon a Poolside, che parla della paura di perdersi, emozioni amplificate anche dalla presenza di Sufjan Stevens. Altra canzone da dedicare al proprio partner è sicuramente New Order T-Shirt, singolo che anticipava il disco, con un testo ricco di nostalgia e piccoli dettagli che solo chi è veramente innamorato nota dell’altro. Inoltre, questo singolo, ha portato anche ad una collaborazione con i suddetti New Order per vendere magliette limited edition omaggianti la band di Manchester e donare il ricavato in beneficenza.
Il vero scossone, però, l’ho avuto all’ascolto di Your Mind is Not Your Friend, composta assieme alla cantautrice e chitarrista Phoebe Bridgers, dove attraverso dolci note di piano si parla della paura di affrontare i lati più oscuri della propria mente a causa delle malattie mentali. Altra firma inconfondibile stile National l’abbiamo nel brano The Alcott, caratterizzato da melodie di archi e piano molto scarne e testi introspettivi e quasi brutalmente struggenti. Scritto in collaborazione con la regina dell’Indie Folk Taylor Swift, lei e Berninger interpretano il ruolo di una coppia che cerca in tutti i modi di far rinascere il proprio rapporto ormai finito, ma che nell’ultima strofa sembra aver trovato una nuova luce: “I tell you that I think I’m falling back in love with you”. Dopo esserci disidratati a suon di lacrime, fortunatamente il disco si conclude con un brano positivo e colmo di speranze. Send for Me è caratterizzata da una melodia più strutturata e ritmata, e dalla certezza che c’è sempre qualcuno pronto per te a raggiungerti nel momento del bisogno.

Strazianti ma necessari, The National sono come quel pianto liberatorio che fai a fine di una dura giornata, quello che ti aiuta a superare le ansie e ti dona la carica necessaria per affrontare qualsiasi avversità. Questo nono disco, conferma le enormi capacità introspettive e catartiche della band attraverso melodie semplici che permettono al testo di farla da padrone. Insomma, i Nick Cave americani. E nonostante le due decadi di carriera, la loro capacità di emozionare rimane invariata, anzi ancora più profonda ed viscerale, senza mai diventare ripetitiva.

Alessandra D’aloise

Roskilde Festival 2022

Da dove iniziare a parlare del Roskilde Festival, istituzione danese dal 1971, quest’anno alla sua 50ª edizione (posticipata dal 2020)?

Partiamo dall’inizio: è l’una di pomeriggio di mercoledì 29 Giugno, fa un caldo terribile per la Danimarca, sono schiacciata da 12 kg di zaino sulle spalle pieno di macchine fotografiche e obiettivi, il computer, annessi e connessi, ho due braccialetti al polso che mi daranno accesso al festival e ai palchi e sto camminando in salita.

Ma chi me lo sta facendo fare?!

E poi, inizia a vedersi un pinnacolo arancione in mezzo agli alberi, sto arrivando da dietro l’iconico tendone arancio dell’Orange Stage, simbolo del festival dal 1978 quando l’organizzazione lo comprò di seconda mano da un tour dei Rolling Stones, e mi rendo conto di starmi avviando verso una cosa forse più grande di me, un’emozione intensa mi prende alla gola sapendo chi è passato su quel palco e tristemente la tragedia che ci si è consumata davanti. È difficile spiegare a parole la sensazione allo stesso tempo di timore reverenziale dettata da un posto che mi ha sempre fatto molta paura (nel 2000 avevo circa l’età dei ragazzi che sono rimasti schiacciati dalla folla, il pensiero va sempre lì: e se fosse capitato a me?) e di pura gioia e senso di appartenenza. Come due poli uguali di una calamita che generano due forze tanto opposte quanto potenti, una paura inconscia e il richiamo affascinante di un’esperienza nuova ancora tutta da vivere, è bastato un passo verso le cancellate per sbilanciare questo stallo emotivo e farmi attrarre dal magnetismo che un evento del genere esercita su chi, come me, è affamato di musica.

Dopo vari tentativi e km camminati a vuoto per trovare il backstage village, è stato il momento di andare a perlustrare il festival prima dell’apertura al pubblico, letteralmente la quiete prima della tempesta. L’area dove si svolge il programma musicale del festival è grande, circondata da aree altrettanto grandi adibite a campeggio, piccoli villaggi con altri palchi, aree ricreative, installazioni artistiche e altro ancora, tant’è che nella settimana del festival la città di Roskilde da decima, diventa la terza più popolosa del Paese.

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È surreale passeggiare in questi grandi spazi, sfilare davanti ai palchi ancora silenziosi e immaginare quanto sarà calpestato il terreno tra poche ore.

A quanto pare c’è un rituale che assomiglia più ad una spedizione di caccia grossa che ad un festival: i fotografi si vestono con delle pettorine ben visibili, si vanno a posizionare in punti strategici, possibilmente al riparo di qualcosa per non essere travolti, e cercano di catturare questa specie di migrazione di gnu hippy. Allo scoccare delle cinque in punto del mercoledì pomeriggio, si aprono i cancelli che separano i campeggi dall’area del festival e c’è “la grande corsa” per accaparrarsi un posto in prima fila al proprio palco preferito.

Il mercoledì è una giornata breve ma intensa, si apre con Fontaines D.C. e in poche ore si alternano sui palchi nomi come Robert Plant, Post Malone e Biffy Clyro. Il mio Tour de Force, in parallelo al Tour de France che si svolge su suolo danese in questi stessi giorni, inizia quindi con un giro di ricognizione: cerco di capire come muovermi tra un palco e l’altro, i percorsi più brevi, gli ingressi ai pit, le posizioni strategiche e quali obiettivi montare sulle macchine.

Alla fine della prima giornata, dopo solo sei concerti, i piedi bruciano come se avessi camminato sui carboni ardenti, ma sono solo 13 km in scarpe da tennis: come faccio ad arrivare a sabato?

Qualche ora di sonno, un’occhiata veloce alla foto e giovedì ricomincia la rumba con un programma ancora più fitto di quello del giorno prima. Oggi tappa crono, nel senso che ho i minuti contati: dalle 16:00 in poi ad ogni scoccare dell’ora un nuovo concerto da fotografare, spostarsi da un palco all’altro attraverso fiumi di gente e birra, ma nonostante tutto riesco a vedere un pezzo di redivivo indie rock direttamente dal mio amato Pacific Northwest, Modest Mouse, e a seguire una reminiscenza adolescenziale, le TLC, per poi saltare da Jimmy Eat World e tornare ad una musica più pacata ma non meno energica con The Whitest Boy Alive, forse uno dei gruppi che più di tutti stuzzicavano il mio interesse. Pausa. Ora di tirare fiato prima della reginetta pop Dua Lipa sull’Orange Stage ma soprattutto, molto più intrigante per me, la dolcissima Phoebe Bridgers con la sua banda di scheletrini a suonare all’Avalon. Atmosfera, delicatezza, un tocco di malinconia intimista molto più nelle mie corde delle ballerine scosciate viste poco prima.

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Quattro giorni di festival sono lunghissimi, come un weekend con tre venerdì, ma il venerdì quello vero arriva e porta con sè The Smile, il neonato progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood presto anche in Italia, e Arlo Parks, energica poesia R&B. Venerdì è la tappa di montagna, come ben rappresentato dalla scenografia che Tyler, the Creator fa installare sull’Orange Stage, e lui così tanto nel ruolo dello stambecco che giustamente si fa fotografare solo da lontanissimo. Venerdì porta anche la pioggia, un paio di scroscioni brevi ma intensi che purtroppo liberano nell’aria quegli odori acri e fermentati tipici di festival, sopiti i giorni precedenti dal terreno secco e assetato di birra (più o meno processata dal corpo umano). Un festival non può considerarsi tale se non ti prendi almeno due gocce d’acqua: è chiaramente indicato nello statuto dei festival nordici, capitolo “avversità inutili per il gusto di dar fastidio”. Adesso, quindi, siamo in regola anche con questo.

Sabato: arriva il Tour de France, per davvero, che chiude le strade dalle sette di mattina e mi obbliga ad una levataccia se voglio essere presente al rituale giornaliero della distribuzione dei pass per l’Orange Stage, che oggi ha il programma più ciccio dei quattro giorni: St. Vincent, Haim e The Strokes.

Ma come dice il detto, il mattino ha l’oro in bocca e in particolare a queste latitudini, dove già alle 5:30 è giorno fatto da un pezzo, mi dà l’occasione di vedere un altro aspetto del festival altrimenti non celebrato abbastanza: il lavoro incredibile che fa il personale – esclusivamente volontario – per rendere possibile il tutto. Per la rubrica Non Tutti Sanno Che, infatti, il Roskilde Festival è un evento non-profit; si basa ogni anno sul lavoro di circa 30,000 volontari che montano, smontano, puliscono, gestiscono, sorvegliano e aiutano e chi più ne ha più ne metta in modo che, al netto delle spese vive, il ricavato della settimana vada a supporto di iniziative umanitarie e culturali a beneficio di bambini e giovani.

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Tornando a noi e alla mia passeggiata tra prati che venivano ripuliti dall’immondizia del giorno prima, strade spazzate e facce assonnate, mi ritrovo a far colazione con kanelsnurrer appena sfornate (ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulla varietà e la bontà dell’offerta culinaria) ad un tavolo condiviso con tanti altri mattineri come me, baciata dal sole mentre guardo il tendone dell’Avalon vuoto e silenzioso, ignaro – ed io con lui – di quello che avrebbe visto da lì a poche ore durante il live indemoniato degli Idles. 

La giornata scorre piuttosto veloce, tra Big Thief e St. Vincent – da oggi in poi anche detta Barbie Rockstar, grazie ad una performance impostata e plasticosa – e finalmente arriva il momento: The Strokes come ultimo headliner. Aspettative altissime, soprattutto memore del live sorprendente al Primavera Sound del 2015, ma… il “momento” si è fatto attendere ben mezz’ora – cosa che ai festival proprio non si fa – e forse visto il disastro che si è svolto sul palco forse era meglio che il momento non arrivasse mai. Julian Casablancas è stato a dir poco imbarazzante nella sua performance, stonato, fuori tempo e apertamente senza voglia alcuna di intrattenere le decine di migliaia di persone che si aspettavano di chiudere il festival con il nome più atteso dei quattro giorni.
“Siamo qui, dobbiamo ammazzare il tempo” – non esattamente la dichiarazione di un frontman carismatico; il resto del gruppo nel frattempo faceva il suo sporco lavoro, ma senza particolare coinvolgimento nè nei confronti del suo cantante nè nei confronti degli astanti. Uno spettacolo così misero e un meltdown così pesante non lo vedevo da anni, davvero un peccato e un po’ una vergogna che sia successo nel momento più alto di quello che altrimenti sarebbe stato un festival delizioso.

Lasciandomi alle spalle una Last Nite che da lontano sembrava vagamente meno massacrata di Reptilia, ho salutato il festival grande grosso e che mi faceva paura solo pochi giorni prima con un sentimento di affetto e gratitudine, promettendogli di tornare ancora. Qui lo chiamano orange feeling e adesso capisco a cosa si riferiscono.

Francesca Garattoni

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• Day 1 •

• Day 2 •

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VEZ5_2020: Andrea Riscossa

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Pearl Jam “Gigaton”

Non il loro miglior album, sia chiaro. Ma mentre il mondo si chiudeva su se stesso, implodendo in dati giornalieri, zone rosse, lockdown e autocertificazioni, il 27 marzo, in giorni sempre più difficili, trovavo un appiglio solido e familiare nell’ultimo lavoro dei Pearl Jam.
È la mia wild card per quest’anno. Li salverò, sempre. Quantomeno per restituire il favore.

Traccia da non perdere: Dance of the Clairvoyants

 

Fiona Apple “Fetch the Bolt Cutters”

Si rivede la luce a metà aprile, a maggio riavremo parte delle nostre libertà. Il 17 esce un album sorprendente, mio personal rimpianto per non averlo recensito. Però l’ho divorato. Entrare in casa Apple, con un folletto che canta dello spirito del tempo usando pianoforte, tavoli e isterie. E poi la voce di Fiona è strumento, è espressione, è emozione. Che album.

Traccia da non perdere: I Want You to Love Me

 

Fontaines D.C. “A Hero’s Death”

Il primo ascolto l’ho ritardato. Lo volevo solitario, in un luogo solitario, su un isola solitaria. E il 6 agosto ce l’ho fatta. E nonostante l’estate, nonostante il luogo magico, il disco dei ragazzi di Dublino va preso a stomaco vuoto, e con la giusta dose di tempo per digerirlo. E’ un viaggio oscuro, con lucine sparse verso la fine, ma rispecchia perfettamente la sinusoide dell’umore del 2020.

Traccia da non perdere: A Hero’s Death

 

Idles “Ultra Mono”

25 settembre. Il mondo forse ce la fa, io forse pure, e mi esce un disco che è uno scanzonato vaffanculo al mondo, cantato lanciando peli e amore sulla folla sottostante.
La faccio breve e mi cito: gli Idles sono “post” tutto. Post punk, post rock, post dress code, post etiquette, post igiene intima, post melodici. Eppure.
43 minuti ben spesi 

Traccia da non perdere: MR. MOTIVATOR

 

Bruce Springsteen “Letter to You”

È stato come prendere un’ultima boccata di aria, poco prima di una seconda apnea. Il 23 ottobre arriva la lettera di zio Bruce, che è un messaggio di salvezza ma soprattutto di speranza. E, a sentirlo bene, un signor disco con la E Street Band. È un racconto di tempi andati, di persone che non ci sono più, di momenti che sono diventati ricordi e poi, per nostra fortuna, musica. Ma potevo chiedere di meglio?

Traccia da non perdere: Janey Needs a Shooter

 

Honorable mentions 

Bob Dylan “Rough and Rowdy Ways”. Devo veramente spiegare perchè?

Phoebe Bridgers  “Punisher”. Delicatamente a fuoco.

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow”. Un disco che fa sembrare il 2020 gaio. E quindi vince lui.

Chris Cornell “No One Sings Like You Anymore”. Ok, seconda wild card.

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto”. Quota italiana. Sono giovani, sono intelligenti, prodotte dalla casa madre di Elio.

Stone Temple Pilots “Perdida” Acustico struggente.

 

Andrea Riscossa

VEZ5_2020: Francesca Garattoni

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Muzz “Muzz”

In un periodo dove la pacchianeria sembra essere l’unità di misura delle nuove proposte musicali, l’album di esordio del trio Banks, Barrick e Kaufman lascia il segno per eleganza e raffinatezza. Amore e profondo rapimento al primo ascolto, scelta facilissima come miglior album dell’anno.

Traccia da non perdere: Knuckleduster

 

Doves “The Universal Want”

Dopo undici anni di silenzio dal precedente Kingdom of Rust, tornano i Doves e sfornano un signor album. Solido, limpido, senza troppe stramberie di voler innovare per forza, ritroviamo il sound della band di Manchester come se non fossero passati dieci anni di hiatus.

Traccia da non perdere: Cathedrals of the Mind

 

Nick Cave “Idiot Prayer”

Un pianoforte e la sua voce, è tutto quello di cui le canzoni di Nick Cave hanno bisogno. Già belle con l’accompagnamento de The Bad Seeds, in questa versione scarna ed intimista le canzoni di Idiot Prayer assumono uno spessore e un’intensità da far venire la pelle d’oca.

Traccia da non perdere: The Ship Song 

 

The Strokes “The New Abnormal”

Si, si, lo so: The Strokes non sono più quelli di Is This It e a stento First Impressions of Earth può essere considerato il loro ultimo album interessante, eppure… eppure con questo nuovo The New Abnormal, un titolo che si adatta molto bene a questo 2020 decisamente fuori dal normale, sfornano un album degno di essere ascoltato ancora e ancora e ancora e ci ricordano perchè ci piacevano tanto ad inizio millennio.

Traccia da non perdere: At the Door

 

Deftones “Ohms”

Dei tre album pubblicati quest’anno da altrettanti gruppi major — Deftones, Pearl Jam e The Smashing Pumpkins — solo quello dei primi è degno di una posizione nella mia personale classifica, sia Top 5 che Honorable Mentions. Ancora una volta i Deftones ci tengono incollati allo stereo in bilico tra sonorità classiche e svolte innovative e ancora una volta non deludono.

Traccia da non perdere: Ohms

 

Honorable mentions 

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” Quest’album di Lanegan è come mangiare un carciofo: lo si apprezza una canzone alla volta e dopo l’amaro iniziale rimane il retrogusto dolce della bellezza.

Sophia “Holding On / Letting Go” Ennesima riprova della qualità artistica di Robin Proper-Sheppard, un po’ ritorno al rock e un po’ sperimentazione.

Matt Berninger “Serpentine Prison” In un momento di pausa da The National, Matt Berninger si dà al pop e One More Second è una canzone che vale l’album.

Phoebe Bridgers “Punisher” Ascolto/scoperta dell’ultimo minuto, ma brava brava brava.

Adrianne Lenker “Songs” Splendida anche in versione solista senza i Big Thief.

 

Francesca Garattoni

VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” (Dead Oceans, 2020)

Non mi vergogno a dire di essere arrivato tardi. Capita.

In più sono anche particolarmente orgoglioso di aver superato la mia naturale ritrosia e sofisticatezza nei confronti dei nomi troppo mainstream e inflazionati, come in effetti quello di Phoebe Bridgers potrebbe sembrare.

Tuttavia mi sa che siamo di fronte ad una versione femminile di re Mida, almeno attualmente, perché la ventiseienne californiana continua imperterrita a trasformare in oro tutto ciò che le passa per le mani, vi basti fare un salto su Youtube e cercare Phoebe + Bridgers + Radiohead (poi mi fate sapere).

Ebbene quasi a sorpresa qualche giorno fa la nostra esce con un EP, Copycat Killer, quattro brani, quattro estratti del suo ultimo album, Punisher, rivoltati e scarnificati e ridotti all’osso e poi rivestiti di archi e arrangiamenti che poco avevano da spartire dai precedenti ma che stanno di un bene che sembra siano nati assieme.

Prendi una Kyoto, che il suo incedere à la Belle and Sebastien diventa una dolce confessione su quel mirabile tappeto orchestrale fatto di viole e violini e molto altro, arrangiato dal prodigioso Rob Moose. Così la dolce Savior Complex e le sue chitarre folk e quel malinconico violino assumono toni quasi teatrali, con partiture ariose alternate a pizzicati saltellanti, come pure nella successiva Chinese Satellite. Punisher, scritta assieme al sempre caro Conor Oberst, a chiudere questo quartetto, in maniera molto più che degna questi 13 minuti che valgono tantissimo.

Qualche giorno appena ed ecco un altro EP, If We Make It Through December, altri quattro brani, tra cover e vecchie registrazioni, a tema Natale. Allora risparmiatevi (e risparmiamoci) stucchevoli polemiche o discussioni inutili su questo tipo di operazioni, ok? Me lo sono comprato su Bandcamp, l’ho pagato 5,13 € col cambio, non me ne pento, soprattutto perché è meraviglioso. E a me il Natale piace. E piace anche la buona musica.

Già l’omonima traccia d’apertura, incisa da sua maestà Merle Haggard nel 1973, regala, è proprio il caso di dirlo, emozioni sincere che se non vi si muove qualcosa ad altezza del cuore avete qualche problema mi sa, con la voce di Phoebe che mostra sfumature e colori che non avevo saputo vedere in passato, come quel flebile, talvolta impercettibile tremolo che si palesa, di tanto in tanto.

7 O’Clock News/Silent Night è invece un rifacimento del brano di Simon & Garfunkel (cioè il brano è Silent Night, quello famoso), cantato in coppia con Fiona Apple, con il contributo di Matt Berninger nelle vesti di anchorman a dare le notizie, che piano piano crescono fino a coprire il soave duetto femminile nel celebre motivo natalizio (con le cuffie l’effetto è molto migliore, parer mio). E sono brividi veri. Nuovamente.

Christmas Song mi ha ucciso, letteralmente. Un duetto con Jackson Browne (proprio lui) che ti scava dentro in maniera inesorabile. È una canzone di Natale, ma triste, con quel piano annacquato, “The sadness comes crashing like a brick through the window / And it’s Christmas so no one can fix it”, poi cresce, ma quando finisce continui a ricantarti in testa “You don’t have to be alone to be lonesome”. 

Have yourself a Merry Little Christmas torna nei binari della classicità, senza perdere quel tocco di phoebismo che ormai starete adorando quanto me e se guardate fuori e molto probabilmente, come me, non vedrete la neve, sarete comunque già in pieno clima natalizio. 

Questa è magia.

 

Phoebe Bridgers

Copycat Killer

If We Make It Through December

Dead Oceans

 

Alberto Adustini