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Tag: pias recordings

dEUS “How to Replace It” ([PIAS] Recordings, 2023)

Reinventarsi restando sé stessi

Undici anni di attesa sono tanti. Nel frattempo si cresce, si ingrigiscono i capelli, ci si trasforma in persone più mature. Ecco, questo nella musica non sempre succede, nel bene e nel male, e un esempio lampante sono proprio i dEUS. La caratteristica principale della band belga infatti, rimane intatta: essere in grado di sperimentare generi che apparentemente sembrano lontani miglia ma che nelle loro canzoni si amalgamano perfettamente. Dal rock classico a quello più sperimentale, al jazz passando dal blues, con influenze che vanno dai Velvet Underground ai Sonic Youth, fino a Captain Beefheart. Dopo poco più di una decade di assenza, fortunatamente, Tom Barman e soci tornano con un nuovo lavoro in uscita proprio oggi per [PIAS] Recordings.

Reinventarsi rimanendo fedeli a se stessi anche nel trovare nuovi modi per comporre, dato che raccontano di instancabili jam sessions, cinque giorni su sette, che hanno portato una nuova armonia nella band. “Stavo suonando il piano e ho chiesto al nostro batterista Steph (Stéphane Misseghers) di darmi un ritmo da valzer – afferma Klaas Janzoons –, mi sono saltati in testa subito gli accordi principali, Tom ha aggiunto una terza sezione a otto battute e abbiamo ottenuto il cuore del pezzo. Ma, con tipico stile dEUS, c’è voluto poi molto tempo ed energia per arrivare al risultato finale”.

L’album è stato anticipato dal singolo How to Replace It che dà il nome a tutto il progetto e si dimostra una splendida anteprima: delle percussioni profonde e ritmate vengono raggiunte da cori simil gospel che donano un’aria epica e maestosa. Il resto del disco mantiene quella creatività e ricerca costante, con brani sicuramente più tendenti al jazz (Man of the House) e altri più oscuri e ritmati (Dream is a Giver). Loves Breaks Down invece è una ballata profonda e introspettiva, quella che farà tirare fuori gli accendini durante i live e cantare a squarciagola. A chiudere il disco una canzone nella loro lingua madre, il francese, dal nome Le Blues Polaire, che racchiude perfettamente tutta la schizofrenia musicale della band, con un riff di chitarra blues e ritornelli splendidamente pop.

Impossibile definire un genere preciso a cui far corrispondere i dEUS, ma credo che neanche loro sarebbero entusiasti di essere rinchiusi in un unico compartimento stagno musicale. Questo nuovo disco conferma la capacità della band di continuare ad osare e a mettersi in gioco, mantenendo però il loro stile unico ed inconfondibile. Ritengo che specialmente dal vivo si possa apprezzare il caleidoscopio di generi che i dEUS sono in grado di creare – parlo per esperienza personale – e questo disco ha tutte le potenzialità per mettere in luce l’alta tecnica di ogni componente della band e, contemporaneamente, far emozionare e divertire la platea.
Il 29 Marzo saranno ai Magazzini Generali a Milano, nel corso del loro tour europeo, non fateveli scappare. 

 

dEUS
How to Replace it
[PIAS] recordings

 

Alessandra d’Aloise

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini