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Tag: pixies

VEZ5_2022: Alma Marlia

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Benjamin Clementine And I Have Been

Un pianoforte per negare le proprie radici, una voce per ricordare le proprie origini. Vivere una relazione di amore-odio con noi stessi, perché ciò che siamo diventati porterà sempre le tracce di ciò che siamo stati. Trasformare questa sensazione in arte, farne musica è un destino inevitabile.

Traccia da non perdere: Genesis

 

Auge In Purgatorio

Il rock italiano esiste e può essere spietato. Nove brani per parlare di profondità dell’anima, una musica che non rimargina, ma apre ferite. Una chitarra elettrica che taglia le pieghe della pelle, un basso potente che scava in profondità e una voce che ha il coraggio di guardare dentro l’abisso e da gemito di dolore si trasforma in grido di liberazione.

Traccia da non perdere: Tu Sei Me

 

The White Buffalo Year of the Dark Horse

Come il cavallo del titolo, il progetto si muove libero sfuggendo a interpretazioni e definizioni muovendosi tra stili e atmosfere diverse, per soffermarsi, poi, su note intime e paesaggi musicali dolci e familiari. Un piccolo necessario stato di grazia.

Traccia da non perdere: C’mon Come Up Come Out

 

Fantastic Negrito White Jesus Black Problems

Il quarto disco in studio per Xavier Amin Dphrepaulezz con il soprannome Fantastic Negrito dove il rock contemporaneo lascia prevalere le tradizioni ritmiche della black music unita a quel q.b. di psichedelia per parlare di razzismo, disuguaglianza sociale, violenza, ma anche amori struggenti viaggiando tra passato e presente come una macchina del tempo. 

Traccia da non perdere: You Better Have a Gun

 

Florence + the Machine Dance Fever

Dal passato arrivano i demoni esistenziali che prima non si riuscivano a capire, e che ora, invece, vengono affrontati con maggiore maturità e consapevolezza. L’esperienza della pandemia fatta di ansie e aspettative diventano testi che oscillano tra l’introspezione e l’audacia per esorcizzare fantasmi e paura a ritmi di ballate oppure sfumature pop più moderne e synth brillanti. Il tutto abbracciato dall’accattivante voce di Florence Welch.

Traccia da non perdere: Anti-Hero 

 

Honorable mentions 

Cris Pinzauti Moonatica – Musica per raccontare l’essere umano nella sua fragilità di vittima e carnefice, destinato alla follia per rimanere se stesso. 

Pixies Doggerel Un basso pulito e sonorità eleganti per una band che onora la propria storia musicale senza rimanerne intrappolati.

Ivan Francecsco Ballerini Racconti di Mare. La via delle spezie. – Essere cantautori è un mestiere difficile oggi, ma, come i navigatori di un tempo, l’artista affronta i pericoli e le meraviglie dei mari misteriosi della musica.

Harry Styles Harry’s House – L’accattivante voce di Harry Styles si muove tra melodie piacevoli e in apparenza leggere, per svelare momenti di intimità, la malinconia, ma anche la gioia di vivere ogni momento. 

Ariete Specchio Ariete è forza delicata, un simbolo di opposti dove la giovane età abbraccia la profondità di un animo più maturo di molti artisti della vecchia guardia. 

 

Alma Marlia

Pixies “Doggerel” (BMG, 2022)

Il gioco perverso della storia propone e ripropone duelli infiniti.
Nella Provenza del XII secolo infuriava il derby tra i rappresentanti del trobar clus, forma allegorica, chiusa, fottutamente indie, e i piacioni del trobar ric, una sorta di brit pop ma coi testi di Biagio Antonacci, che in Italia (derivativi già allora) sfociò nel movimento degli stilnovisti.
I bei tenebrosi vs. i cantori d’amore. Testi iniziatici, metafore appena accennate vs. spiegoni sulla beltà. 

Il dualismo sopracitato ha percorso secoli di letteratura e arti varie e sembra continuare a vivere felice nella meccanica dei Pixies, in cui i testi vengono serviti con abbondanti asterischi e le linee melodiche partono dal punk e terminano in territori ibridi, in questo disco particolarmente antitetici, tra Morricone e gli Who, tra un Neil Young e Beatles.

I Pixies sono inaccessibili, sfocati, un gomitolo di generi e attitudini eppure un loro disco ha una filigrana perfettamente riconoscibile. Sarà per il basso e la voce di Paz Lenchantin, che da anni ha sostituito Kim Deal, o per le ritmiche di David Lovering, sarà per il graffio alla chitarra di Joey Santiago o per la perversa, geniale voce (e penna) di Black Francis.
Quest’ultimo ha presentato ai colleghi qualcosa come quaranta pezzi pronti e impacchettati, che sono stati rivisti e scremati negli studi in Massachusetts, con il produttore Tom Dalgety in cabina di regia.

Dal giorno della loro reunion questo è il disco migliore. Partiamo da questo punto.

Il precedente Beneath The Eyrie aveva trovato un nuovo territorio in cui far sfogare i quattro folletti: un rock “creepy”, gotico e fantasmatico, popolato di strane creature e che portava atmosfere da film horror di serie B, condito con surfisti morti e strani pesci gatto. Sembrava un disco “di maniera”, invece era evidentemente un passaggio, una visione laterale che non viene scartata dai Pixies: la prima parte del loro nuovo album riprende temi e stilemi del precedente lavoro. Siamo in zona conosciuta, siamo nella terza parte del vecchio disco. O forse no, perché strani echi iniziano a vagare per il disco, piccoli fantasmi di note che si aggiungono a quelli evocati nei testi: Dregs of the Wine evoca gli Who con una certa precisione, emerge qualcosa dei Beatles in Pagan Man, sfiorano il folk rock quando la chitarra acustica diventa protagonista, arrivano a ricordare i Weezer in Get Simulated, testo geniale in cui una intelligenza artificiale esalta la propria immortalità lamentando mancanza di contatto fisico. Sono proprio i testi a far la differenza, a segnare una tacca verso l’alto nella scala di valutazione dell’album: è un disco di anime perse, di metafore nascoste, di fantasmi, di vinti, come il protagonista di Vault of Heaven, perso in una canzone mariachi e in un 7Eleven che è un portale verso il nulla. È un disco che piacerebbe a Tim Burton e a tutti i suoi personaggi. Canta di loro, passando dal folk-pop al noir-indie. C’è surf music, alt-pop, qualcosa di grunge old-school e poi ho finito le etichette, perché alla fine è semplicemente un disco dei Pixies, che i generi li attraversano con una discreta semplicità. 

La title-track che – colpo di scena – chiude il disco è l’apice del nuovo lavoro: il testo sembra scritto da un Ungaretti con fini iniziatici mentre la parte musicale scivola su un tappeto sonoro elegante e quasi edibile. 

Riassunto: prima parte vicino all’ultimo lavoro, seconda parte del disco esplora nuovi ambienti, coi piedi ben saldi nella follia dei folletti. E alla fine ci si accorge di aver ascoltato un bel disco, nonostante lo stupido assioma che prevede la noia crescere parallelamente al numero di album pubblicati. 

E invece, ottavo disco dei Pixies, promosso.

 

Pixies
Doggerel
BMG

 

Andrea Riscossa

Pixies @ Roma Summer Fest 2022

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• Pixies •

+

Gomma

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R O M A  S U M M E R  F E S T

Auditorium Parco Della Musica (Roma) // 27 Giugno 2022

 

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GOMMA

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ReCover #7 – Pixies “Doolittle”

• Una scimmia andalusa •

 

Fu il mio professore di fumetto a consigliarmi di ascoltare i Pixies, un giorno a lezione.

All’epoca frequentavo l’università, e siccome non avevo un soldo in tasca lavoravo in un ostello come portiere notturno: in cambio di alloggio, s’intende, non di soldi.

Dovendo star sveglia tutta la notte avevo sette ore libere per studiare, guardare film e ascoltare musica, e Doolittle dei Pixies fu parte della mia colonna sonora di quell’anno folle e senza sonno.

Prima traccia, Debaser: iniziai a saltellare sulla sedia nel silenzio della reception; al secondo ascolto, che faccio sempre con testo alla mano, quasi non caddi dalla sedia: “I am un chien andalusia”.

E qua capisco che l’ambizione dell’album è grande, e la dichiarazione d’intenti limpida.

Quella frase in particolare fa riferimento al capolavoro cinematografico Un Chien Andalou del 1929, diretto da Luis Buñuel e Salvador Dalí, che definire solo come cortometraggio surrealista sarebbe sminuirne la grandiosità e l’importanza che ebbe nella storia dell’arte.

Le interpretazioni della pellicola son tante, ma ciò che è chiaro è la forza con cui s’impone nei confronti dello spettatore e nei confronti della settima arte stessa: nella prima scena il Buñuel-personaggio taglia l’occhio della sua compagna, e così facendo Buñuel-regista taglia l’occhio dello spettatore, che al tempo mai si sarebbe aspettato di vedere una scena simile.

Il frontman della band Black Francis, appassionato di cinema surrealista, in un intervista disse che “se provi a spiegare il mistero che c’è in qualcosa che hai scritto, ciò che prima sembrava destinato all’eternità in un attimo diventa stupido”.

Ad esempio Monkey Gone to Heaven all’inizio era solo una frase che Black Francis usava per il gancio, ma che poi decise di lasciare così perché funzionava. La stessa bassista Kim Deal ammise di non conoscere nemmeno le parole e il significato di molte canzoni.

La matrice surrealista è evidente e coerente nel lavoro che fecero Simon Larbalestier e Vaughan Oliver nella realizzazione della cover dell’album, pubblicato nell’Aprile del 1989. Cercarono di raccontare per immagini i testi sotto l’ottica grottesca e underground dei Pixies.

I due artisti ebbero accesso ai testi del nuovo album (opportunità rara per chi crea le cover) e ciò consentì loro di averne ben chiaro lo spirito prima di mettersi a lavoro sul booklet, cosa che a detta di entrambi fece la differenza.

Si può dire che la carriera dei Pixies sia cominciata insieme a quella del fotografo Larbalestier con l’uscita di Come On Pilgrim (1987), e da questo momento il suo lavoro si lega indissolubilmente per lungo tempo con quello del graphic designer Oliver, recentemente scomparso all’età di 62 anni.

Le foto per Doolittle racchiudevano un mix di interessi e tematiche care a Larbalestier, Oliver e Black Francis: macabro, surrealismo, angoscia ed esistenzialismo.

La produzione chiese a Larbalestier di realizzare dei lavori a colori, per distanziarsi dai precedenti album monocromatici, ma il fotografo ignorò totalmente le raccomandazioni e scattò tutte le foto in bianco e nero.

La richiesta venne soddisfatta dall’intervento di Olivier, che aggiunse texture e geometrie rimanendo comunque fedele allo spirito decadente degli scatti: ottennero così il mix di surrealismo e grunge perfetto per raccontare visivamente l’album.

Una tecnica utilizzata dagli artisti surrealisti era quella del Cadavre Exquisit, una sorta di staffetta creativa in cui ognuno aggiunge il suo contributo all’opera attingendo dall’inconscio, e il modo in cui si è lavorato all’album mi ha ricordato molto questa tecnica.

Infatti una volta ricevuti i testi via fax da Black Francis, Larbalestier lavorò da solo agli scatti, realizzando set specifici per ciascun’immagine, e usando un solo rullino per set, in modo da ottenere un risultato preciso.

Una volta conclusi gli shooting passò il materiale a Oliver, che diede il tocco di colore richiesto.

Fu un lavoro di squadra ma soprattutto di fiducia reciproca, grazia alla quale diedero vita ad una cover unica.

“Se qualcuno ha avuto una grande influenza su di me è stato proprio David Lynch. Lui ti mette davanti qualcosa ma non te la spiega”.

Fu un altro cineasta dunque ad ispirare fortemente Black Francis, che con Eraserhead conquistò la sua attenzione tanto che i Pixies fecero una cover di In Heaven, la canzone della celebre Lady In The Radiator del film.

Non a caso anche il cinema di Lynch ha una forte influenza surrealista, sebbene incasellarlo in un’unica corrente artistica sia impossibile.

L’interesse principale di Lynch è infatti quello di scavare al di sotto della realtà delle cose, andando oltre l’apparenza: ce lo dice chiaramente all’inizio di Blue Velvet (1986), con una scena che è entrata nei libri di storia del cinema. 

Curioso come questo viaggio sia iniziato con un occhio tagliato e si concluda con un orecchio mozzato; due pellicole in cui tutto è in contrasto: luce e ombra, sonno e veglia, realtà e sogno. 

Esattamente come in Doolittle, esattamente come il mio anno in Ostello.

 

recover

 

Cinzia Moriana Veccia

Pixies @ Paladozza + Officine Grandi Riparazioni

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• Pixies •

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+
Blood Red Shoes

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Paladozza (Bologna) // 11 Ottobre 2019

OGR – Officine Grandi Riparazioni (Torino) // 12 Ottobre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Ho avuto la fortuna di recensire, esattamente un mese fa, l’ultimo lavoro dei Pixies e l’immagine, costante, che l’album mi evocava era quella di una delirante, divertente, cinica e isterica festa del liceo, vent’anni dopo.
Ecco, sabato sera sono stato invitato a quella festa.

Torino ha sempre amato la scena underground e negli anni novanta è stata una città seminale per band seminali. Sotto la Mole suonavano i Sonic Youth e si ascoltava musica in luoghi improbabili, come Zona Castalia, sotto una chiesa del centro storico, o i Docks Dora, magazzini costruiti nel 1912.
Le OGR (Officine Grandi Riparazioni), un complesso industriale di fine ottocento nel cuore della città, sono una location di rara bellezza e hanno aggiunto un qualcosa di magico allo spettacolo offerto dai Pixies, sabato sera.

La serata è stata aperta dagli inglesi Blood Red Shoes, al secolo Laura-Mary CartereSteven Ansell, power duo accompagnati per il tour da tastiere e basso. La band si ispira a Queens of the Stone Age, Fugazi, Nirvana e, ovviamente, Pixies, e risulta quindi perfettamente in linea con quello che sarà il piatto forte della serata.

Black Francis e soci salgono sul palco alle dieci in punto. Al basso, con l’immancabile rosa a decorare lo strumento, c’è, dal 2013, Paz Lenchantin, polistrumentista che vanta collaborazioni con Maynard James Keenan e Billy Corgan. Alla chitarra e coppola Joey Santiago, capace di stregare il pubblico con entrambi gli strumenti, mentre David Lovering ha le redini delle ritmiche del gruppo.
L’inizio è fulminante e programmatico: i quattro folletti inanellano un pezzo dopo l’altro senza sosta, senza dialogo, senza una pausa per applaudire. E’ un’onda che si alza sotto il pubblico e che ci porta tutti nel loro assurdo mondo. Sono in ottima forma, e lo dimostra la scaletta schizofrenica che propongono: dalla nuovissima St. Nazaire si passa all’isterica Rock Music per finire alla delirante Isla de Incanta. Ecco, il concerto è una continua altalena tra carezze e pugni allo stomaco, tra pogo e ciondolante college rock. È un gioco di salite e discese, di ritmi che si alternano, di linee di basso che emergono all’improvviso dal caos. La prima pausa, per un cambio chitarra, la si vede al minuto quarantacinque.
E io sono già a pezzi. Perché i Pixies hanno rievocato quello spirito torinese anni Novanta, e il pubblico, lo stesso di allora, di diverso ha solo il conto in banca e l’ora della sveglia. Fedeli ai riti e alle tradizioni, una massa di quarantenni ha rotto l’indugio, e alle prime note di Caribou è iniziato un primo pogo a trenta metri dal palco. In transenna era iniziato alla seconda canzone.
Colpa di Charles Michael Kittridge Thompson IV che riesce a essere carismatico senza quasi muoversi, usando la voce come quinto strumento, mescolando cantato a urlato, inserendo versi e risate.
Sul palco ci sono solo loro, pochissima scenografia, le luci, scelta geniale, sono poste dietro la band. Il risultato è duplice: da una parte gli artisti vengono proiettati sulle pareti delle officine, costruite con mattoni e ferro, tetto in vetro, e sembrano ombre di automi impazziti, l’altro è quella di avere i musicisti spesso in controluce, come silhouettes, su sfondo fumo. Curiosa metafora per una band che non ha mai raggiunto il successo che avrebbe meritato, ma che da tutti i grandi artisti di fine secolo scorso è stata citata e idolatrata.
La scaletta è impressionante, i Pixies suonano 37 brani in due ore esatte, hanno un motore incredibile, un ritmo infernale. E hanno anche gusto e mestiere perché i brani del loro ultimo disco, Beneath the Eyrie, motivo per cui sono in tour, sono sparsi nella setlist con astuzia. Alla fine però, ventiquattro canzoni saranno pescate dai primi tre album della band, per far felici noi nostalgici, pogatori, quarantenni.
Un ultimo pensiero. Assistere a un concerto di una band così longeva, che ha pubblicato il primo album nel 1986 e che propone una scaletta così varia, concede il lusso di ammirare, nell’arco di centoventi minuti, tutto l’arco espositivo, dal seme al frutto, dai primi lavori a quelli pubblicati il mese precedente. Si notano le differenze, di esposizione e interpretazione, e anche così, inevitabilmente, il concerto diventa viaggio, ricordo, ballo del liceo vent’anni dopo.
Per una sera, per due ore, è stato davvero piacevole rivivere quella sensazione di concerto essenziale, in cui la sola cosa che conta, perché in fondo l’unica presente, è la musica. C’è poco culto della rockstar, non ci sono visual, non maxischermi, nessuna distrazione. Il trucco non c’è, questi la magia la fanno con due chitarre, un basso, una batteria.
Oh, sono Pixies.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo (Torino): Andrea Riscossa

Foto (Bologna): Luca Ortolani

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Blood Red Shoes

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Grazie a: Dna Concerti

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Pixies “Beneath the Eyrie” (BMG/Infectious Music, 2019)

Il nano sulle spalle di un Gigantic (no, dai, si può?)

 

Immaginate di partecipare a un’entusiasmante raduno del liceo. Trent’anni di distanza dalla maturità, da quelle pance piatte, da quegli sguardi disincantati sulla realtà, sul futuro. Dopo aver rapidamente constatato che le carriere dei vostri ex compagni sono decollate, esattamente come i loro capelli, vi rendete conto che siete detentori di una merce rara, preziosa, roba che non si compra perché viene da lontano e deve maturare, per valere. Portate con orgoglio coerenza e uno sguardo sul mondo rimasto intatto, un vocabolario aggiornato ma fedele a un’idea, un messaggio che ha attraversato anni, mode, stili e correnti e che adesso, più che mai, vanta una matura e dignitosissima indipendenza. Poco importa se avete appena parcheggiato un maggiolone semidiroccato, rigando il Mercedes del vostro ex compagno di banco, e se avete – inavvertitamente – agganciato col vostro orologio le extensions dell’ex miss liceo. Dio, siete i Pixies, cosa diavolo vi può scalfire?
L’integrità, però, costa. E i Pixies il conto lo hanno pagato molto presto, forse perché hanno preso un’onda prima di tanti altri gruppi, che hanno poi seguito la scia. Kurt Cobain rivelò di essere un fan e di ispirarsi a loro, Eddie Vedder li ha sempre indicati come esempio di libertà di espressione e, recentemente ha inserito Surfer Rosa nell’elenco dei dischi preferiti.
Per scrivere del nuovo disco dei Pixies ho fatto un festoso bagno in quel brodo primordiale che fu la scena indipendente americana di fine anni ottanta. Band seminali che meriterebbero un capitolo nella storia della musica: dai Dinosaur Jr. ai Fugazi fino ai Sonic Youth. Perché Beneath the Eyrie è un ritorno al passato, anzi, è un disco che riporta a un ambiente familiare. E’ come rientrare nella stanza della propria adolescenza, ma con qualche anno sulle spalle.
E allora largo a un backbeat fatto come si deve, largo alla libertà e alla fantasia, largo al gotico, come immaginario e al barocco, come stile. Registrato al Dreamland Studio, una ex chiesa, è stato definito dallo stesso Franck Black come il loro Blair Witch, un disco infestato di streghe, mostri, morte. Ma i temi stridono con le melodie, che ciondolano tra punkabillie, surf rock e proto-grunge. E’ come ritrovarsi a tagliare il prato di casa una domenica mattina di giugno. Ma in un film di Tim Burton. Come se a ballare con John Travolta in Pulp Fiction ci fosse la sposa cadavere. Ok, siamo a fuoco.
Del resto è dalla frizione che nasce parte della grandezza dei Pixies, da quel cantato a volte isterico che tira per i capelli le chitarre, da quei bassi subacquei che introducono chi ascolta in mondi inquietanti e pericolosi. Sono ritornelli e cori grandiosi, ma che raccontano weird things. Capita così che il primo singolo estratto, Graveyard Hill, attraverso streghe, morte e maledizioni ci riporti a casa Pixies, interno 22, soprattutto se la consideriamo un elemento di una combo, un dinamico duo, con la successiva Catfish Kate, un delirante racconto di una lotta mortale tra una tal Kate e un pescegatto, accompagnato da riff golosi, un basso narrante e rime baciate.
Il disco si dipana così tra storie cupi, gotiche, costruite su testi a volte ermetici, a volte surreali. Citazione per merito alla bassista Lenchantin, autrice della doppietta Long Rider e Los Surfer Muertos, pezzi dedicati a un’amica surfista morta in mare a Dana Point. Il surf e le sue chitarre sono prepotenti in questo lavoro, e se non sono protagoniste sono eco, come nella splendida St. Nazaire.
Impossibile sostenere che siano tornati i vecchi Pixies, sicuramente però Beneath the Eyrie è un ottimo album, che riporta indietro l’orologio a quel glorioso periodo che dal college rock ci portò all’esplosione del grunge. Non è Surfer Rosa e non è Doolittle, ma è una scusa perfetta per riappropriarsi di una fetta di storia della musica (e personale) lasciata in naftalina senza ragione. 

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”, scriveva Giovanni di Salisbury.
Leggasi: la grandezza del passato ci sorregge e ci fa vedere più lontano, oltre ad elevarci. Questo disco poggia sulla storia dei Pixies per porsi (forse), più in alto di quanto potrebbe, ma sta lassù perché è coerente col passato, perché è un’ottima promessa per il futuro, perché è dannatamente ben suonato.

 

Pixies

Beneath the Eyrie

BMG/Infectious Music, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Pixies, una monografia personale

Era il 1986, i Nirvana e l’intera ondata grunge non erano ancora apparsi sulla scena, ma l’avrebbero fatto da lì a breve in tutta la loro devastante potenza deflagratoria e con il migliore arsenale sonoro a disposizione.

Erano gli anni del cosiddetto college rock, da una parte c’erano i REM di Michael Stipe, belli e di sani principi, dall’altra i Pixies, capitanati da uno strano tizio che si faceva chiamare Black Francis, con una voce isterica e qualche chilo di troppo.

Facciamo però un passo indietro. Stava finendo il secolo e io avevo iniziato il liceo. Ai tempi ero una silenziosa e insicura ragazzina di provincia. E chi non è mai stata “la reginetta del ballo” lo sa quanto sia difficile essere adolescenti timidi e abitare in provincia.

Per fortuna, proprio per le persone come me, esiste il rock, con il suo enorme potere consolatorio. Così, visto che oltre ad essere timida e insicura, ero pure incazzata e un po’ stramba, avvicinarsi al grunge fu facilissimo.

Finalmente non ero più sola, eravamo in tanti a sentirci inadeguati, strani e completamente fuori posto. Per tutti noi c’erano loro: i Pixies. Gli alieni della scena garage. Estranei al grunge, pur essendone i padri fondatori.

Oggi, nell’era dell’apparenza, una band come i Pixies non sopravviverebbe un giorno. Troppo originali, troppo menefreghisti, troppo caustici, troppo – apparentemente – normali. Per fortuna però, il loro esordio risale al 1986 e, forse, si badava meno a tutte queste cose.

I Pixies sono una delle cose migliori successe al mondo del Rock, e non sorprende che perfino i Nirvana abbiano cercato ispirazione proprio nella loro musica, alla fine degli anni Ottanta.

Kurt Cobain ammise infatti di essersi ispirato a loro, o come disse lui stesso “di averli derubati” per scrivere Smell Like Teen Spirits. Kurt voleva essere come i Pixies, suonare con loro, o almeno essere in una loro cover band. Ascoltando la musica dei Nirvana si trova la stessa identica onda anomala presente nella musica dei Pixies.

Si parte morbidi, quasi innocui, fino a salire, sempre più rumorosi e duri. Impossibile non essere d’accordo con quello che disse Manuel Agnelli quando affermò che ”i Pixies erano i Nirvana qualche anno prima. Ma più bassi e brutti”.

La storia dei Pixies, come dicevo, inizia nel 1986, quando il cantante Black Francis, all’anagrafe Charles Thompson, incontra il chitarrista Joey Santiago, a Porto Rico. Come nelle migliori storie del rock, i due mettono un annuncio su un giornale: “Cercasi bassista appassionato di Husker Du e Peter Paul & Mary“. Ed è qui che entra in gioco l’affascinante Kim Deal, che porta con sé l’amico batterista, David Lovering. Kim è la regina nera dei Pixies che con la sua personalità ha letteralmente rubato la scena e il ruolo di leader al non convenzionale Francis.

Ma andiamo con ordine: il loro primo album Come On Pilgrim, è un lavoro sicuramente acerbo, ma che dimostra già un enorme potenziale della band di Boston. E’ sufficiente leggere i testi per capire di cosa sto parlando. Sono surreali. Francis Black e i suoi hanno inventato un nuovo linguaggio, lo spanglish. Metà inglese, metà spagnolo. “Non lo facciamo per accattivarci il pubblico latino-americano”, ha spiegato in un’intervista Kim Deal, “è che talvolta lo spagnolo suona più percussivo e riesce a definire meglio quello che cerchiamo di dire”.

Tra il 1987 e il 1992 i Pixies incidono due album incredibili: Surfer Rosa e Doolittle. Ascoltarli, ancora oggi, mi crea un curioso solletico alla corteccia cerebrale. Surfer Rosa viene osannato da critica e pubblico. In tanti lo definiscono l’ultimo capolavoro “post-punk”. Tra i tanti pezzi dissonanti e ossessivi che si possono trovare al suo interno ci sono anche Gigantic e Where is my Mind, che è diventato uno dei loro brani più conosciuti anche grazie a film come Fight Club. La chiusura del disco è la psichedelica Caribou. Si tratta di un lavoro sorprendente che, come un diamante, cambia aspetto ad ogni ascolto.

La loro è musica abrasiva, isterica e, in qualche modo, grottescamente pop. Le canzoni sono corte, in perfetto stile Ramones per capirsi. “Difficile sopportare quei riff cattivi per più di due minuti” dirà una volta Kim.

 

 

 

 

Doolittle invece è un disco che ho letteralmente consumato. Una cavalcata di 12 pezzi, che parte con Debaser e termina con There goes my gun. In mezzo c’è il meglio che la musica abbia prodotto in quegli anni: Here Comes Your Man, Wave Of Mutilation, Monkey Gone To Heaven, Gouge Away e La La Love You, il brano che non ti aspetti, uno dei più assurdi di sempre, che con fischietti, cori femminili e schitarrate ironizza sul concetto di storia d’amore. L’intro di Debaser è indimenticabile: “I am un chien, anda-luuu-sia!”, che fa riferimento al cane andaluso del film di Buñuel, pronunciato in un francese stentato e ridicolo. E non solo, basti pensare al “Rock me, Joe” di Monkey Gone To Heaven. I testi di Debaser parlano di suicidio, di nevrosi, di depressione, di droga, di prostituzione e di disastri ecologici. Siete un po’ smarriti? Pensate a come si sarà sentito chi l’ha ascoltato nel 1989.

Purtroppo però, niente dura per sempre, e anche la verve creativa dei Pixies è destinata all’inesorabile tramonto. Nel 1990 esce Bossanova, l’anno successivo Trompe Le Monde. Due lavori confusi, lontani dai precedenti. Anche a causa di continue tensioni tra Kim Deal e Black Francis, nel 1992 i Pixies si sciolgono. La storia però non finisce qui.

Di solito quando un grande gruppo del passato decide di riunirsi, lo fa partendo da qualche concerto, per poi tornare in studio e produrre materiale nuovo. I Pixies no. Dal 2004 al 2012 hanno fatto concerti, per otto lunghi anni, senza mai entrare in sala di registrazione. Nessun inedito, niente di niente. Il motivo è semplice, quasi lapalissiano, a raccontarlo è Joey Santiago: “suonando molto dal vivo non avevamo tempo di entrare in studio”.

Black Francis aveva bisogno di tempo per scrivere brani adatti al nuovo suono. Nel 2013 arrivano EP1, EP2 ed EP3, con quattro pezzi ciascuno, e infine il tanto atteso Indie Cindy, che unisce al suo interno i brani dei tre EP, senza ulteriori aggiunte. A Giugno 2013 Kim Deal abbandona la band e da quel momento in poi al basso la sostituisce Paz Lenchantin.

Tralasciando gli ultimi lavori, non troppo degni di nota, quello dei Pixies è un universo bizzarro e sconclusionato. All’interno dei loro album si può trovare tutta la psicopatia del mondo del Rock: le nevrosi dei Pere Ubu, l’acidità lisergica dei Velvet Underground, l’isteria dei Violent Femmes. Hanno shakerato tutto insieme e l’hanno servito in un bel bicchiere con l’ombrellino.

Senza i Pixies, con grande probabilità, oggi non esisterebbe quello che viene chiamato “indie”. La loro influenza è stata indelebile. Anche sui miei gusti musicali.

Il linguaggio dei Pixies, il loro modo di scrivere canzoni, ha fortemente influenzato la maggior parte dei gruppi o dei musicisti che ho amato: i Nirvana, Pj Harvey, i Radiohead, per nominarne solo alcuni.

I Pixies per me sono stati un incontro fortuito, quello che quando accade cambia tutto. Fino a quel momento ero una ragazzina timida che guardava film in bianco e nero e passava un sacco di tempo a leggere libri. E’ stato come conoscere per la prima volta qualcuno come me, sfigato e altrettanto perso: “è fatta” mi sono detta, “allora non sono sola”.

 

Daniela Fabbri