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Tag: rca records

Tool “Fear Inoculum” (RCA Records, 2019)

Anni novanta, Torino

Una Opel Corsa rossa percorre strade lastricate di pavé, umido di nebbia. Si è appena concluso un dialogo quasi ritualizzato tra due postadolescenti, universitari per vocazione, amici, e molto, anche se di gusti musicali assai lontani. Uno, il sottoscritto, ha abbracciato il grunge, ha già pianto i suoi primi martiri e ha definito i confini delle sue esplorazioni artistiche. L’altro, chiamiamolo Elmer per rispetto della privacy, è il Babbo Natale del mio subconscio musicale. Lui esplora, insaziabile golosone culturale, e poi pontifica. Ah, quanto pontificava. C’era terreno comune, anche perché i generi, allora, si incrociavano, si imbastardivano, si mescolavano in modo programmatico. Erano gli anni in cui in quella Opel si passava dai Primus a Ummagumma, dai Fishbone a Vitalogy. E poi Elmer si bloccava quando arrivavano loro. E si blocca ancora adesso, come i cani di Up davanti a uno scoiattolo, quando qualcuno cita i Tool. Il suo sguardosi perde all’orizzonte, la bocca pende di lato, a trattenere un ricordo appeso all’acquolina. Il suo neurone preposto all’estasi musicale è entrato in forte sintonia con quello dedicato alla goduria culturale. Si, perché Elmer è affascinato dalla cultura, quella alta, quella che segna un solco tra chi la comprende e chi no. Quella che anche Maynard James Keenan, cantante dei Tool, usa come uno scudo e come uno strumento, e che, inevitabilmente, sottintende un discreto livello di misantropia. Elmer vede nei Tool non un poeta-vate, vede l’incarnazione, o meglio l’unione, un po’ pornografica e un po’ magniloquente, tra una musica potente, violenta, stridente e testi e citazioni alte, a volte altissime.
Da Jung a Fibonacci, i substrati culturali nei loro testi sono tanti quanti i cambi di ritmo. La ricchezza di riferimenti, unita alla sovrabbondanza musicale e alla continua ibridazione di generi e stili, sono i tratti che definiscono la loro essenza.

Per questo l’acquolina. Per questo Elmer si bloccava.
I fan dei Tool sono un esercito, per numero e compattezza. Sono devoti ai mille echi e alle reminiscenze generate dalle cattedrali sonore dai quattro californiani.
E hanno atteso tredici anni.

Fear Inoculum è il quinto lavoro in studio, il quinto in quasi trent’anni di carriera e arriva dopo un’era geologica, se pensiamo in termini musicali e di mercato. L’hype generato da quello che, probabilmente, sarà un successo mondiale rischia di inquinare un giudizio sereno e oggettivo su questo lavoro.
Non si critica la parusia, la si ammira in estasi silenziosa.
Magari con le cuffie.

Premessa: le tracce sono sette. Tutte superano abbondantemente i dieci minuti, tranne Chocolate Chip Trip, delirio strumentale. Siamo quindi davanti a un’opera complessa, da comprendere col tempo, da gustare con la dovuta e rispettosa attenzione.

L’album inizia con la title track, ed è subito distillato di Tool, nel coro:

Exhale, expel
Recast my tale
Weave my allegorical elegy

L’elegia greca prevedeva che gli spettatori fossero esortati dall’io narrante a immedesimarsi. E’ una overture in cui si cita la mitosi. È il manifesto di un ritorno, sono le chiavi per decifrare quanto accadrà successivamente. Ma è anche un rassicurante primo capitolo di una saga che rimane coerente con il proprio passato.
Pneuma è la seconda traccia e nuovamente siamo davanti a richiami arcaici e alti. Il soffio vitale, profetico nella tradizione ebraica, è qui usato per destarci, per svegliarci dal sonno della mente. Magari durato tredici anni. Il pezzo è lento, trascinato, quasi recitato, sembra accompagnare il lento incedere del Maynard-vate nella caverna di platonica memoria, per liberarci dal mondo delle ombre e rivelarci il Vero.
La triade dei tre pezzi successivi (sia chiaro, mia personale interpretazione), è il fallimento dell’invocazione precedente, una lenta presa di coscienza dell’impossibilità di vittoria per il guerriero/uomo. Siamo dalle parti dello stoicismo, in Invincible, terzo brano. Prosegue il tema (anche musicale, i due pezzi sono quasi gemelli) in Descendingma la consapevolezza della nostra debolezza è ormai dato di fatto, si prega:

Mitigate our ruin
Call us all to arms and order

Ma arriva la follia di Culling Voices, in cui noi stessi siamo gli artefici dell’inganno in cui viviamo. Follia che ci porterà alla consapevolezza del trucco, abile e mirabile, autoindotto e autocastrante. È 7empest, ultimo pezzo, che ci lascia con la promessa che la tempesta arriverà, sia essa ekpýrosis stoica, fatta di fuoco e rigenerazione, sia essa apocalisse e fine del tempo.
Non c’è messaggio salvifico, c’è una traccia iniziale che è labile e serpeggia tra richiami e labirinti caleidoscopici.
È la meraviglia di trovarsi di fronte a un testo, meglio un ipertesto, profondo e dalle molteplici letture. E non solo. I Tool suonano immagini, cantano universi paralleli, montano musica. Sono dissonanti armonie, sono ordine dalla frizione. È un’opera enciclopedica, analitica, che parte da una costruzione estremamente razionale e iniziatica per arrivare a sentimenti ombelicali. Come un caro e vecchio film di Kubrick.
Lasciate che i Tool vi portino via e vi elevino, ne vale la pena. Altrimenti potreste aspettare altri tredici anni.

 

Tool

Fear Inoculum

RCA Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Cage the Elephant “Social Cues” (RCA Records, 2019)

C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è che Social Cues è un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.

L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.

I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.

Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cues la metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.

Broken Boy è l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.

Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.

Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.

Black Madonna, insieme a Ready to Let Go, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.

Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.

Skin and Bones è seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.

La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.

L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.

“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.

In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.

Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.

 

Cage the Elephant

Social Cues

RCA Records, 2019

 

Daniela Fabbri