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Tag: reprise records

Green Day “Father of All Motherfuckers” (Reprise Records, 2020)

2020 Ritorno al futuro

 

L’adolescenza è una situazione transitoria nella vita di tutti, eppure mentre la vivi sembra non finire mai. La ribellione la fa da padrone, verso la famiglia, la scuola, la società. 

Chi ha vissuto gli anni ‘90 come adolescente ricorda quanto eravamo incazzati e rissosi. Non volevamo saperne di adattarci alla società e la musica era il nostro mezzo per comunicare questo disagio.

Grazie alla “new punk explosion”, ossia la corrente di pop punk iniziata proprio durante quegli anni, la rotazione giornaliera di MTV era piena di gruppi capitanati da personaggi strambi, che urlavano inni all’apatia e al disagio verso il mondo. Nelle nostre menti risuonavano i NOFX, Offspring, Pennywise, Rancid, ma la band che più ha caratterizzato la scena pop punk di quegli anni son stati i Green Day.

Nel ‘94 esplose Dookie, terzo album di questo trio di pazzi furiosi, ma fu Basket Case il brano più iconico della band.

Per tutti quelli che son cresciuti al grido di “Sometimes I give myself the creeps, sometimes my mind plays tricks on me” l’uscita del nuovo disco di questo gruppo è un po’ come la telefonata di un ex fidanzato che non senti da anni. 

Father of All Motherfuckers (letteralmente Padre di Tutti gli Stronzi) è la rappresentazione di quello che sono stati i Green Day per noi adolescenti problematici che son cresciuti con quel tipo di rabbia che non svanisce con l’età adulta, ma rimane dentro e si ripercuote nella vita di tutti i giorni.

La paura maggiore (per gli amanti del genere e della band) era trovarsi davanti un Billie Joe Armstrong cresciuto e cambiato. Ma ci sorprendono sempre ‘sti pazzi, e questo nuovo lavoro musicalmente non è molto lontano dalle loro sonorità e contiene testi significativi.

Il brano di apertura (che prende il nome dal disco) possiede un’alone indie rock, e con la frase “I live inside of us” sintetizzano al meglio quasi trent’anni di carriera.

Le schitarrate indie rock proseguono nei brani seguenti Fire, Ready, Aim, Oh Yeah (“I am a kid of a bad education” e noi voliamo) e Meet Me On The Roof.

Si ritorna alle radici punk con I Was A Teenage Teenager, l’intro composto dal basso e voce ci fa rivivere l’adolescenza, le crisi di nervi, l’insicurezza e la nostra maleducazione civica.

Stab in you heart è un omaggio al rock’n’roll, con cori, giri di chitarre ed assoli tipici del genere. Sembra di trovarsi nella scena di Ritorno al Futuro dove Marty intona Johnny B. Goode davanti alle espressioni attonite dei presenti.   

La vecchia sensazione di essere dei perdenti che non fotteranno mai la reginetta della scuola continua a perseguitarci anche da adulti, e in Sugar Youth riversano tutto la loro voglia di scatenare l’inferno. 

Junkies On a High oltre ad essere coerente con il loro stile (ci ricorda vagamente Boulevard Of Broken Dreams)  è  il manifesto della concezione di vita per Billie: “My downward spiral / Rock’n’roll tragedy / I think the next one could be me / Heaven’s my rival / I sing in revelry”. Molti perbenisti odieranno questa canzone, dove vi è quasi un invito ad assumere droga, a lasciare che il mondo vada a puttane senza muovere un dito.                                  

I Green Day sono l’emblema della rabbia giovanile e dell’abuso di qualsiasi sostanza, li ritroviamo anni dopo, sempre pronti a farci scatenare con pezzi ritmati. Il disgusto per il mondo non è cambiato, ma ha lasciato il posto ad una strana consapevolezza di quello che è stato, senza rinnegare gli errori commessi e il bisogno di esprimere sentimenti quasi mai positivi.                                                                                                     

Questo album è un ritorno alle origini musicalmente parlando, il riassunto di una vita passata a sbroccare sul palco, a vomitare disagio. Sono stati un supporto alla nostra adolescenza, ci hanno tolto la solitudine e regalato comprensione. Ora che siamo adulti ci stanno comunicando che loro son qui, e non intendono abbassare la testa.

 

Green Day

Father of All Motherfuckers

Reprise Records

 

Marta Annesi

 

William Patrick Corgan “Cotillions” (Reprise Records, 2019)

There’s something rotten in the (United) States of America

 

Nel 1978 William Trogdon, un professore universitario di origini native americane, perde il lavoro, la moglie e la voglia di vivere. Quale migliore inizio per una storia americana? Cambia nome, diventa William Least Heat-Moon, prende il furgone e inizia un viaggio alla ricerca di se stesso, lungo le blue highways, le strade provinciali americane. E’ un’immersione in una humanitas dimenticata, che salva l’uomo attraverso l’empatia e i chilometri, come se una dinamo fosse collegata a una batteria affamata di storie. Ne nascerà un libro, Blue Highways: A Journey into America, ormai diventato un classico. 

È un’attitudine tutta statunitense quella di partire alla ricerca delle radici, umane e culturali, in momenti di crisi. Un popolo ancorato ad un inspiegabile ottimismo, come se nello spostare continuamente la linea dell’orizzonte si potesse generare futuro.
Cosa può spingere un’icona del rock come William Patrick Corgan a prendere la prima palandrana nera, la sua altrettanto iconica chitarra e partire verso sud?
C’è una mitologia, lontana dalle nostre europee, che ancora vive nelle strade blu. C’è una sottile e quasi invisibile luce che segna le vie dei Canti inseguite da tanti artisti d’oltreoceano.

E questo di Corgan è il quarto album del 2019 che recensisco e che va a sciacquare i panni in Nashville, Tennessee.

Stati Uniti in crisi, sicuramente più morale e identitaria che economica, significa per molti avvertire la necessità di cercare “altro” che non siano i tweet di Trump e il gorgoglio di fondo della pancia del paese che offusca tutto il resto. L’esempio più lampante è il viaggio di Springsteen in Western Stars,  ma ci sono altri artisti che hanno iniziato una ricerca personale sulla musica delle radici, quasi che nella tradizione ci possa essere una chiave di lettura. O più semplicemente il country, il bluegrass, il genere Americana, sono statutari, tanto quanto la costituzione, sono colonne, sono la loro mitologia, utile in tempi di cambiamento poco gradito.

E così abbiamo per le mani un album davvero particolare, perché tutto avrei potuto pensare (soprattutto a metà anni novanta), tranne la possibilità che il frontman degli Smashing Pumpkins si dedicasse ad un’opera in cui violini e steel guitar la fan da padrone. “Un atto d’amore” lo ha definito lui stesso sui social. Di fatto è il prodotto di un viaggio verso Ovest, la frontiera per eccellenza, l’unico punto cardinale che è diventato genere. Thirty Days è il titolo del viaggio/documentario che ha visto la nascita di Cotillions, ultima fatica solista del nostro Billy.

Non è il Nebraska di Springsteen, né una radicalizzazione di una tendenza come può essere stato per altri in precedenza. Mi è parso un genuino gesto di assorbimento della cultura locale durante il viaggio, un utilizzo strumentale di un atteggiamento mentale che dovrebbe essere la quintessenza del viaggiatore. Un Chatwin con la chitarra, vestito di umiltà intellettuale, perché occorre sempre ricordarsi chi è Mr. Corgan. E così, tra esplorazione e filologia musicale, galleggiando tra Steinbeck e Woody Guthrie, il pianoforte che dominò i precedenti lavori solisti cede il passo a chitarra e archi, segnando un clamoroso cambio di genere. I testi rimangono densi, incredibilmente evocativi per immagini, bastano poche pennellate per definire bene i confini e i riferimenti.

E’ un album lungo, diciassette tracce e quasi un’ora di musica, che nelle prime otto canzoni presenta tutto quello che è l’essenza del disco. C’è la morte di To Scatter One’s Own, la crisi in Hard Times, la strada nel deserto della titletrack Cotillions. I generi si alternano, ma raramente sentiremo echi degli Smashing, se non in Fragile, The Spark, classica voce e chitarra, che pare rimasta incastrata tra i due cd di Mellon Collie.

La seconda parte dell’album è meno a fuoco. E credo sia dovuto al fatto che questo “atto d’amore” non abbia subito grandi revisioni e sia di fondo rimasto un atto genuino e viscerale. E forse è giusto così, perché in un lungo viaggio, iniziato per ritrovare un’essenza musicale e umana, dopo un po’ idee e chilometri si confondono. I pensieri si impolverano, scorrono via veloci, si mescolano al paesaggio che scorre a lato strada, si sovrappone al parallasse dell’orizzonte. E allora mi piace, davvero, che quest’album scivoli via nell’ultima parte, e se ne vada, lasciando il silenzio e i pensieri e una frontiera da esplorare, domani.

 

William Patrick Corgan

Cotillions

Reprise Records, 2019

 

Andrea Riscossa