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Tag: review

Atum: A Rock Opera in Three Acts

Act Three: l’atto di fede.

Premetto che questa recensione sarà atipica rispetto a una di quelle con una struttura canonica, perché non c’è più molta necessità di presentare il gruppo né il progetto (leggi qui le recensioni di Act One e Act Two, NdR). Gli Smashing Pumpkins hanno pubblicato l’atto finale di un’opera quantomai attesa e discussa. Come il secondo atto ha avuto il sapore dolce amaro di L’amore ai tempi del colera, l’ultima parte di Atum: A Rock Opera in Three Acts non può fare altro che richiamare alla mia un’altra opera di Gabriel Garcia Marquez: Cronaca di una morte annunciata. L’associazione non riguarda i contenuti, quanto l’impressione che il terzo atto ricorda più il sospiro agonizzante di Santiago Nazar che non il seguito dei rimpianti Mellon Collie e Machina.

Ascoltare la conclusione di un progetto così ampio e coccolato dal suo creatore dovrebbe essere un momento di magica estasi per l’ascoltatore. Eppure, questo momento tanto aspettato, cercato, voluto non arriva mai. A partire dall’apertura con Sojourner fino a Of Wings si passa da brani come Pacer, Harmageddon e Cenotaph dove il titolo rimane più impresso della musica stessa. Si possono incontrare delle chitarre distorte in qua e là, dei violini, synth, strumenti che trasmettono solo l’idea di un lungo lamento. La sensazione è che la musica non esploda mai, che l’emozione non decolli, anzi che venga proprio schiacciata da qualcosa che non riesce a librarsi nelle note. L’atto è impregnato di un desiderio incompiuto, senza la vibrante sensazione che il desiderio stesso dà. Le canzoni sono sempre lì, sulla linea di partenza, e se questo poteva essere accettabile, anche se non scusabile, nel primo atto, nel terzo no, non lo è, mentre la voce di Corgan non basta più a lenire il dolore per un amore che si è rotto, anzi diventa a tratti fastidiosa perché butta solo sale su una ferita ormai aperta. Se poi queste undici tracce si ascoltano nell’insieme del progetto completo, la delusione aumenta, e l’affetto per chi ti ha regalato un’adolescenza piena di momenti che ancora senti sulla pelle è inutile. Possiamo dire che ci sono degli spunti qui, o in questa canzone là, oppure in quel passaggio dove la chitarra elettrica emerge, e così via. Io aggiungerei che ci mancherebbe altro che qualcosa non sappiano fare, perché queste osservazioni vanno bene per chi non ha esperienza e fa i primi passi, non per chi ha un posto importante nel panorama musicale. Ascoltando tutto il progetto ti chiedi, però, se forse le tue aspettative non sono troppo alte, se non riesci più a capirli e quella frequenza che loro avevano trovato con altri progetti ora non esiste più dentro di te. Tuttavia, quando ascoltare è più un atto di fede che non un piacere, allora qualcosa non va. Realizzi che l’affetto nato dalla nostalgia di un tempo che fu non basta, che il tempo è passato e non solo per te, che il tiro va aggiustato. 

Atum: A Rock Opera in Three Acts – Act III va ascoltato per realizzare che niente è per sempre, perché la vena creativa può esaurirsi come l’oro del Klondike, le storie di Happy Days, le gomme da masticare preferite al bar sotto casa. Tuttavia, esaurire questa vena non vuol dire essere destinati a sparire, bensì fare la scelta di Klimt, che quando capì di non poter più dare molto al mondo dell’arte decise di usare la sua fama e il suo intuito per scoprire e promuovere nuove correnti, nuovi artisti. Si può essere sempre presenti e importanti nel mondo che sentiamo nostro, solo che è possibile farlo in altro modo e gli applausi, poi, verranno da soli per ciò che si fa nel presente e non solo per uno sbiadito omaggio a ciò che è stato vivo nel passato. 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

Alma Marlia

First Two Pages Of Frankenstein

Avviso per i più sensibili: anche questo disco ti spaccherà il cuore, cosa quasi scontata per i fan de The National ma, se ti stai approcciando per la prima volta a questa band alt rock di Cincinnati naturalizzata Brooklyn, mi sembra doveroso avvertirti.
Bene, ora che hai preparato i fazzolettini, possiamo cominciare.

Esce oggi l’attesissimo ultimo disco de The National, colmo come sempre di feat di una certa importanza, per la celeberrima etichetta 4AD. 

Attesissimo perché il cantante Matt Berninger ha affermato in un’intervista che la band stava avendo diversi problemi: “una fase molto buia in cui non riuscivo a trovare testi o melodie e quel periodo è durato più di un anno. Anche se siamo sempre stati ansiosi e abbiamo litigato spesso durante la lavorazione di un disco, questa è stata la prima volta in cui ci è sembrato che le cose fossero davvero arrivate alla fine”.
Ma, fortunatamente, The National sono stati sempre dei maestri nel saper estrapolare la bellezza anche nella sofferenza e nel dolore, e quindi “siamo riusciti a tornare insieme e ad affrontare tutto da un’angolazione diversa, e grazie a questo siamo arrivati a quella che sembra una nuova era per la band”, afferma il chitarrista/pianista Bryce Dessner.
Il disco inizia con una ballata al pianoforte semplice e romantica, Once Upon a Poolside, che parla della paura di perdersi, emozioni amplificate anche dalla presenza di Sufjan Stevens. Altra canzone da dedicare al proprio partner è sicuramente New Order T-Shirt, singolo che anticipava il disco, con un testo ricco di nostalgia e piccoli dettagli che solo chi è veramente innamorato nota dell’altro. Inoltre, questo singolo, ha portato anche ad una collaborazione con i suddetti New Order per vendere magliette limited edition omaggianti la band di Manchester e donare il ricavato in beneficenza.
Il vero scossone, però, l’ho avuto all’ascolto di Your Mind is Not Your Friend, composta assieme alla cantautrice e chitarrista Phoebe Bridgers, dove attraverso dolci note di piano si parla della paura di affrontare i lati più oscuri della propria mente a causa delle malattie mentali. Altra firma inconfondibile stile National l’abbiamo nel brano The Alcott, caratterizzato da melodie di archi e piano molto scarne e testi introspettivi e quasi brutalmente struggenti. Scritto in collaborazione con la regina dell’Indie Folk Taylor Swift, lei e Berninger interpretano il ruolo di una coppia che cerca in tutti i modi di far rinascere il proprio rapporto ormai finito, ma che nell’ultima strofa sembra aver trovato una nuova luce: “I tell you that I think I’m falling back in love with you”. Dopo esserci disidratati a suon di lacrime, fortunatamente il disco si conclude con un brano positivo e colmo di speranze. Send for Me è caratterizzata da una melodia più strutturata e ritmata, e dalla certezza che c’è sempre qualcuno pronto per te a raggiungerti nel momento del bisogno.

Strazianti ma necessari, The National sono come quel pianto liberatorio che fai a fine di una dura giornata, quello che ti aiuta a superare le ansie e ti dona la carica necessaria per affrontare qualsiasi avversità. Questo nono disco, conferma le enormi capacità introspettive e catartiche della band attraverso melodie semplici che permettono al testo di farla da padrone. Insomma, i Nick Cave americani. E nonostante le due decadi di carriera, la loro capacità di emozionare rimane invariata, anzi ancora più profonda ed viscerale, senza mai diventare ripetitiva.

Alessandra D’aloise

Il Desiderio Che Mi Frega

Accade.

Ogni tanto accade.

E forse è l’unico motivo per cui talvolta mi avventuro ad ascoltare musica nostrana.
Accade che un disco d’esordio solletica territori condivisi, conoscenze, immagini e stupisce per la qualità sia musicale sia di scrittura. Ma se nel primo album si aveva l’impressione che il gruppo avesse l’urgenza di presentare la propria visione del mondo, tritato, masticato e digerito da una profondità di analisi quantomeno notevole, nel secondo lavoro si contano diverse canzoni che iniziano a dare forma a una sorta di visione, di lettura del mondo attraverso il rapporto tra artista e realtà. Accadeva già nell’album di esordio, ma era fenomeno più sporadico. Qui la dualità è il tema. Nel senso più classico ma anche per vie postmoderne.
Con ordine.
Le Viadellironia sono Maria Mirani, Giada Lembo, Marialaura Savoldi e Greta Frera, prodotte dalla Hukapan, dove sono di casa gli Elio e le Storie Tese, tanto che a produrre il disco è proprio (nuovamente) Cesareo. Al disco contribuisce Edda, come già per il primo disco, autore di una intera traccia, Tu Mai, e spicca la partecipazione di Peaches, cantautrice canadese icona dell’electroclash nonché della comunità LGBTQIA+, nel pezzo forse più riuscito dell’album, Sodoma. 

Musicalmente siamo nel secolo scorso, perché le ragazze pescano a mani basse nell’alt rock italiano anni novanta, fedeli alla linea tracciata nel primo lavoro, dove gli echi di Afterhours e soci erano palesi. Sia chiaro, non suona vecchio, suona solo bene. Che vuol dire saper gestire le fonti e il vocabolario, creando un’impalcatura più che stabile per i testi che sono il vero punto di forza della band.
C’è uno spettro di Herman Hesse che si aggira per l’album, fin dalla prima traccia, Boccadoro. Il suo Narciso e Boccadoro, libro uscito nel 1930, torna a dare vita ad un tema archetipico, quello dell’eterno dualismo tra ragione ed emozione, tra razionalità e passione. Boccadoro per le nostre diventa una ragazza, giusto per poter aggiungere alla ricetta nuove sfumature, che, causa machismo inconsapevole, erano assenti tra le pagine di Hesse.
Siamo sul campo di battaglia dell’eterno scontro tra apollineo vs dionisiaco, mentre il tema dello specchio viene evocato per la prima volta, per ricordarci che Narciso era narciso, che Wilde lo ha reso magicamente perfido e che la scatola dei riferimenti è spalancata sul tavolo, vicino alla frutta [cit. di cit. al cubo].
Boccadoro è la nostra Virgilio, ci aspetta alle porte del disco, lei è l’eros, la curiosità per il mondo, è il desiderio che ci frega, prima che il buon Narciso, freddo e razionale, ci riporti con i piedi per terra.
Il dualismo viene cantato con gioiosa consapevolezza nella title track, Il desiderio che mi frega.
Nella seguente Tanqueray i vapori di Baudelaire appannano di nuovo specchi evocati nel testo, mentre lentamente scivoliamo dalla figura letteraria di Narciso al più triviale narcisismo. 
Sodoma mi ha dato una visione, con le ragazze a Sanremo, Peaches decisamente non consona alla fascia oraria e al target, ma l’Ariston in piedi a ondeggiare sulla cassa dritta del pezzo. Pubblico per altro ignaro del testo e del suo significato, perfettamente in linea con quanto narrato poco sopra.
Pezzone, si direbbe, lo candido a secondo singolo dell’album.
Si riposa, nella cinematografica Casablanca, che sa di otium e di sospensione, forse utile alla consapevolezza che sembra arrivare nei brani successivi: Il pianto delle cose e Corallo.  Nel primo la nostra Boccadoro sembra prendere coscienza della propria natura di artista, della condanna all’empatia, al sentire tutto, anche le “cose”, a vedere chiaro e limpido lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Così in Corallo ci si chiede se non si è cercata la verità nel posto sbagliato, con la conseguenza di aver perso la guida, la strada, il filo della realtà.
Edda aggiunge un brano e un punto di vista nel disco, chiuso poi dal singolo uscito a febbraio ’22, Sade Valentino, che anticipa il racconto del dualismo, entrando perfettamente nel tema affrontato, presentando l’affascinante rapporto tra una ragione raffinata e “alta” e un corpo che non disdegna il piacere della carne. La mediazione tra Narciso e Boccadoro passa per il latex. 

Questo è un disco intelligente. Evoca con musica e parole immagini, miti e personaggi. Crea un piccolo mondo abitato da dubbi e citazioni. Ma soprattutto è una piccola lectio magistralis di trenta minuti sulla presa di coscienza della propria fallibilità, della giustamente squilibrata dualità che vive in noi. È l’autocoscienza che passa anche per la via dell’(auto)ironia a creare gli anticorpi più potenti, perché tra Narciso e Boccadoro non vince nessuno se non alla fine del libro di Hesse, quando tutti, ma soprattutto Boccadoro, imparano a leggere l’esperienza della vita senza un rapporto bulimico con la realtà.
Che poi, contorsioni mentali a parte, quel Sade Valentino alla fine del disco mi ha ricordato l’ultima battuta di Eyes Wide Shut.
Mo’ me lo segno. 

Viadellironia
Il Desiderio Che Mi Frega
Hakupan

Andrea Riscossa

Non Credere a Nessuno

Esiste un dolore persistente, un senso di disagio che attraversa generazioni diverse, che incastra le sue radici nelle anime più fragili e l’urgenza di raccontarlo diventa musica: è qui che si collocano i Sick Tamburo e il loro nuovo album Non credere a nessuno.

Era il 2007 quando Elisabetta Imelio e Gian Maria Accusani hanno fondato la band, dopo l’iconica avventura dei Prozac +, continuando a raccontare la vita attraverso un eterno atteggiamento punk che li ha resi dei capisaldi del panorama alternative rock italiano. Dopo la prematura e drammatica scomparsa di Imelio, l’inconfondibile poetica di Accusani ha continuato a dare vita al progetto musicale.

Mentirei se dicessi che ho sempre conosciuto i Sick Tamburo. Certo, il loro nome e la loro fama sono nel mio radar da anni e Spotify, con il suo implacabile algoritmo, mi ha spesso proposto i brani della band. La mia conoscenza era approssimativa fino a poche settimane fa: ma non è anche questa l’essenza dell’underground? Qualcosa scorre silenziosamente sotto la superficie e poi emerge con prepotenza, fa rumore, spacca il terreno e trovi un senso a tutte le tue emozioni complicate e, a volte, insopportabili. 

Arriviamo alle note, dolenti e no. Per sempre con me è la canzone che ha anticipato l’album Non credere a nessuno e vede la partecipazione di Roberta Sammarelli dei Verdena. Il ritornello entra in testa, una dolce melodia fonde le voci di Sammarelli e Accusani, che ci raccontano la storia di una ragazza apparentemente spenta e confusa che ha perso se stessa. Il brano propone una riflessione: “Hai perso la voglia di alzarti / Si parla di libere menti”. Un periodo buio può essere una conseguenza di una mente libera dalle costrizioni della vita? La sensibilità dei testi di Accusani è un varco che ci conduce verso nuove prospettive. 

Il colore si perde, altro singolo dell’album, ci mette davanti ai cambiamenti d’umore. Ogni sensazione che proviamo è passeggera, tutto è in continua evoluzione. È semplice vivere così? Forse sì o forse no, ma a volte è anche normale lasciare scorrere la vita così com’è, come sembra suggerire il brano Piove ancora. Possiamo sentirci impotenti di fronte alle disgrazie, ma possiamo tenerci stretti, farci compagnia e cercare di non sentirci soli. Il cambiamento d’umore è un tema molto presente nell’album e ne è un altro esempio Certe volte: “Certe volte basta poco / Per far venire il sole / Certe volte basta poco / Per farlo scomparire / Certe volte basta poco / Per fare il carnevale / Certe volte basta poco / Per fare un funerale.”

Il mio unico nemico è una canzone che racconta una verità che a tratti sembra scontata, ma che ci dimentichiamo spesso, come accade per tante banalità. “Cerco sempre un nemico cerco / Per non stare solo […] Ma il mio unico nemico / L’ho capito sono io / Non mi serve più cercare / Ho una faccia a cui sputare.” Quante volte, anche ironicamente, abbiamo sentito l’espressione “fare il dramma”? Forse è il dramma che fa noi, ci plasma, ci dà un senso, crea un movimento nella nostra vita e ne diventiamo dipendenti. Qual è la linea da non superare?

Non credere a nessuno è un disco che attraversa le fasi inevitabili della vita: l’abbandono, la perdita, il bisogno di aiuto, la consapevolezza di sé e il commiato definitivo che porta dolore e lascia spazio a nuove persone pronte a confondersi nel mondo. La malinconia è contagiosa, ma ci dà una sicurezza in più: per ogni emozione che ci sembra strana e insopportabile, per ogni cambiamento d’umore, per ogni tunnel buio e apparentemente senza fine e per ogni addio che dobbiamo dire, la musica dei Sick Tamburo è un abbraccio che ci fa sentire compresi. 

Sick Tamburo
Non Credere a Nessuno
La Tempesta Dischi/Believe

Marta Massardo

Daughter “Stereo Mind Game” (4AD, 2023)

Il mio primo incontro con i Daughter è stato qualche anno fa, guardando una serie tv che al momento nemmeno ricordo, ma ricordo che, a un certo punto dell’episodio, nella colonna sonora compariva il loro singolo Youth, uno dei loro primi pezzi (correva l’anno 2013) ma che sicuramente è rimasto tra i più noti della discografia gruppo. 

Ricordo soprattutto che quella canzone mi colpì perché l’avevo percepita come una carezza, nonostante il peso delle sue parole: delicata ma allo stesso tempo malinconica e travolgente. Il merito era tutto della voce di Elena Tonra e dell’arrangiamento musicale che ancora oggi mi fanno venire qualche brivido dall’emozione. 

E anche con il loro ultimo lavoro, Stereo Mind Game, si vede come questi elementi costituiscano ancora i punti di forza della band. La voce di Tonra, a distanza di qualche anno, continua a colpire come la prima volta. Eterea, carezzevole per l’appunto, ma in grado di sposarsi benissimo con dei testi che possono invece di fare male come lame. 

Stereo Mind Game è infatti un album estremamente introspettivo, ma lo è in modo poetico e figurativo. “I’ve been trying to read your mind by stripping all the poems / I’ve been watching dandelions grow and die and grow / and it’s a shame, because I only came here for the love of you” recita Dandelion, probabilmente la traccia più struggente dell’intero disco, anche se musicalmente procede su toni meno drammatici. 

L’introspezione arriva ad assumere addirittura i toni di una lettera: Junkmail ad esempio è un pezzo che sembra essere più letto che cantato, con un ritmo concitato e un arrangiamento ripetitivo, battente e quasi ansiogeno, coerentemente con il messaggio sull’eterna lotta tra essere e apparire in pubblico. 

La costante dell’album è l’idea che sembrano quasi tutti usciti da un sogno. Saranno le chitarre in purezza, saranno gli archi dell’orchestra 12 Ensemble che fanno un’incursione qua e là, sarà la voce un po’ distante di Tonra, ma davvero la sensazione che si ha durante tutto l’ascolto è quella di un fluttuamento costante. Stereo Mind Game culla l’ascoltatore pur parlandogli di vuoti, paure, rimpianti e amori non esattamente a lieto fine.

L’unica critica che si può muovere a questo lavoro è che tutte le tracce si assomigliano tra loro e assomigliano ai loro predecessori. Manca un po’ di vena sperimentale, ma d’altronde questo è il loro modo di fare musica e di farla anche bene. 

Accompagnando testi fortemente emotivi (e non nego che alcuni brani mi abbiano commossa), la cifra stilistica di questo album – ma in realtà a questo punto dell’intera discografia dei Daughter – è proprio la delicatezza con cui la band londinese decide di raccontarti dolcemente i sentimenti più tristi.

Del resto, se si cerca un po’ di conforto, è sempre bello sapere di poter contare su un riferimento stabile, anche se parliamo di musica. 

 

Daughter
Stereo Mind Game
4AD

 

Francesca Di Salvatore

Punkreas “Electric Déjà-Vu” (Virgin Music LAS Italia / Universal Music, 2023)

“Se tra la vita e la morte l’indifferenza è letale
di chi si fissa le scarpe perché non vuole guardare
e proprio come a un concerto quando sei pronto a saltare
capisci con uno sguardo che quella è la gente su cui puoi contare”

La vera famiglia è quella che ti scegli, persone che ti capiscono e per le quali vale la pena lottare, questo è il significato del secondo verso di Mani in Alto, primo singolo del nuovo album dei (grandissimi) Punkreas.

Storica band punk rock e ska milanese nel 2021 ha festeggiato i primi trent’anni di carriera con Funny Goes Acoustic, album impregnato del loro solito sarcasmo e irriverenza ma con un sound nettamente più acustico.

Quest’anno tornano con un lavoro back to the roots, tipicamente ska punk, sia per sonorità che per testi, dimostrando che l’età è solo un numero, la ribellione è per sempre.

La ritrovata spinta punk è palese in DAI DAI DAI (DIE DIE DIE), in collaborazione con Giancane (cantautore romano che dal 2013 calca la scena punk rock, diventato virale nel 2017 grazie al brano Ipocondria il cui video è realizzato con i disegni di ZeroCalcare, e sempre per lo stesso artista romano nel 2021 ha creato la colonna sonora per Strappare Lungo I Bordi, la rinomata serie). Il brano è un’aperta critica ska punk contro il lavoro precario dei riders, moderni Alice nel Paese delle Meraviglie, con la differenza che il loro Bianconiglio è rappresentato da clienti insensibili, automobilisti fatali e capi la cui unica priorità è il guadagno. 

Non potevano esimersi dallo sputare veleno su I Signori Della Guerra, settimo brano dell’album, in cui criticano i Potenti giocatori di questa folle e scorretta partita, raccontando come, pur di riuscire a mettere sotto scacco socio-economico l’avversario, siano disposti a sacrificare ogni insignificante pedone della propria scacchiera con la bocca piena di parole a favore della pace nel mondo.

Per combattere questo clima dominato dal disprezzo i Punkreas inneggiano alla rivoluzione citando vari personaggi storici che hanno contribuito a cambiare il mondo portando avanti le loro Battaglie Perse, fregandosene dell’opinione degli altri. Ci trasmettono il coraggio di alzare la testa, di credere nelle nostre idee, di aver fede nella scienza e nella medicina, come baluardi dell’evoluzione, scagliandosi sarcasticamente contro terrapiattisti e no vax.

Dispiegano l’armata reggae, con a capo Raphael, una delle voci reggae più importanti in Italia, in Disagio, manifesto ska punk del sentimento più confortante della nostra generazione, il disagio per l’appunto. La personalità unica dei Punkreas si fonde alla perfezione con lo stile reggae, creando un universo parallelo dove facciamo schifo, ma con stile.

Al grido di “We are unstoppable, another world is possible”, si conclude il brano Non c’è più tempo.

Era il 4 dicembre 2018, e questo slogan di una ragazzina svedese quindicenne, dall’aspetto innocente di nome Greta Thunberg, durante la conferenza COP 24 inaspriva i toni sull’inquinamento e sull’ambiente. Il messaggio che ne derivò (e le critiche) resero virale il suo intervento, risvegliando l’intera comunità internazionale su un argomento così delicato come la salvaguardia della Terra. La band affronta il problema del cambiamento climatico di una terra che sanguina.

La vita, sul globo terracqueo, è in decadenza e questo si riflette sulle nostre vite: la sofferenza e la depressione giornaliera che ne scaturisce è il caposaldo di Giorno Perfetto, nel brano ci spingono ad essere noi stessi gli artefici del nostro futuro, di non aspettare il giorno perfetto ma di crearcelo, in un difficile e doloroso processo di autoaffermazione di sé.

In Il Prossimo Show violini birichini all’irlandese e la collaborazione con Franco D’Aniello e Francesco “Fry” Moneti dei Modena City Rambles trasforma il brano in un autentico inno all’uguaglianza: “Perché lo sai che non è facile esser quello che sei, quando tutto intorno è più fragile e capisci davvero quello che vuoi”.

Electric Déjà-Vu è la fedele rappresentazione dell’arretratezza sociale e culturale di questi tempi progressisti, espressa a pennello nelle parole del brano Uomo Medioevo, un’aperta critica verso l’uomo medio moderno, fortemente attaccato alle tradizioni e alla paura che sfocia in omofobia e al razzismo. 

Sei un genio del male o sei solo scemo”, urlano i Punkreas, stanchi di questo mondo becero e improntato solo all’odio verso chi è discriminato come diverso. Necessitiamo un cambiamento per combattere la ristrettezza emotiva e per non sprofondare nella “banalità del male”, questo può essere attuato solo insorgendo contro tutto ciò che consideriamo falso e scorretto.

 

Punkreas
Electric Déjà-Vu
Virgin Music LAS Italia / Universal Music

 

Marta Annesi

Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra “Racing the Storm” (Bella Union, 2023)

C’è stato un momento, a cavallo tra anni ‘90 e 2000, nel quale il principale fulcro musicale in Europa era rappresentato da un’isola posta a nord della Francia, a est della Norvegia e che sorprendentemente non rispondeva al nome di Inghilterra. 

Ólafur Arnalds, Gus Gus, Amiina, Mìnus, oltre ai più celebrati Mùm e Sigur Rós hanno fatto dell’Islanda un caso di studio, in quanto per un periodo, in una sorta di “effetto re Mida”, tutto ciò che varcava quei confini aveva le stimmati del capolavoro o quasi.

Tra i nomi da annoverare in quel gruppo c’era (e c’è tutt’ora) anche quello di Emiliana Torrini, evidenti origini italiane (il padre è di Napoli) ma in tutto e per tutto islandese di Kópavogur (concittadina tra l’altro di Hafþór Júlíus Björnsson, vincitore nel 2018 del World’s Strongest Man, che quell’anno si tenne a Manila, nelle Filippine).

Emiliana Torrini esordisce nel 1999, con un disco a metà strada tra il trip hop e un più canonico cantautorato folk, che diventa preminente nel successivo (e ancor più splendido) Fisherman’s Woman.

A questo punto la Torrini esce un pò dai radar, pur continuando ad essere attiva discograficamente, io per primo quasi me ne dimentico, per cui la gioia che mi ha procurato l’ascoltare questo suo ultimo lavoro è stata sincera e genuina. 

E per certi aspetti sorprendente.

Racing The Storm, questo il titolo del disco, è licenziato in realtà a nome Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra, secondo capitolo di una collaborazione che aveva visto la luce nel 2016 con un live album (meno riuscito di questo imho) di brani già pubblicati dalla nostra.

Questa volta invece siamo di fronte ad un disco di inediti, undici per l’esattezza, scritti, composti ed arrangiati dall’artista islandese in concerto con The Colorist Orchestra, ensemble belga (anche se gira attorno alle figure dei due polistrumentisti Aarich Jespers e Kobe Proesmans) formatosi nel 2013.

Il disco è delizioso, veramente. Gli arrangiamenti architettati dai due Colorist sanno essere ora delicati come nella splendida Wedding Song, ora dirompenti, come nel finale di You Left Me In Bloom, strizzano l’occhio al folk nell’apertura intitolata Mikos (qui e lì ci puoi sentire rimandi a quel chamber folk in stile Ben Sollèe), echi pseudo trip hop in Smoke Trails, il dream pop di Dove o più spiccatamente cinematografici (The Illusion Curse o la strumentale A Scene From A Movie) dove i Tindersticks non sono così distanti.

Il resto lo fa la voce di Emiliana, capace di adattarsi con naturalezza alle diverse forme assunte dai vari brani lungo questo disco, un timbro particolare ed inconfondibile, in veste di guida e protagonista di queste undici gemme. Un’artista davvero (per me) ritrovata in tutto il suo splendore, nel pieno di una maturità artistica e varietà stilistica verso la quale è impossibile non rimanere affascinati. E adoranti.

Bentornata Emiliana.

 

Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra
Racing The Storm
Bella Union

 

Alberto Adustini

Sleaford Mods “UK GRIM” (Rough Trade, 2023)

Inglesi incazzosi e dove trovarli

L’immagine che automaticamente si fissa nel nostro cervello quando pensiamo ad un inglese è una persona fredda, scostante, stronza e dall’umore altalenante e, con il clima che si ritrovano, non mi sento di biasimarli. Le nuvole perenni, dalle quali il sole, di tanto in tanto, si affaccia timidamente per poi sparire e poi giù, di nuovo, diluvio. E gli rode il culo si, agli inglesi!

Nonostante questo, quel grigiore accompagnato da una perpetua nebbiolina umida, ha il suo fascino, malinconico e scocciante.

Patria del punk, dalla metà degli anni ‘70 questa subcultura ha sconvolto il mondo e gli inglesi stessi.

Tal genere, indirizzato verso la ribellione, ha subito una grossa evoluzione, conseguente al progresso della società, portando avanti la tradizione incazzosa dei predecessori, creando un genere con una sua personale identità, il post-punk. 

Gruppi come gli Editors, Idles, Fontaines D.C., Shame, Lice, Dry Cleaning, Black Midi, e tra i più giovani i Moin, Squid rispolverano i vecchi ideali punk sperimentando e miscelando musica elettronica e progressive con sorsi di alternative rock pur mantenendo l’inconfondibile identità inglese. Fortunatamente, negli ultimi anni, siamo testimoni diretti di un’ondata post-punk che sta portando questo genere ad un nuovo splendore. 

A cavalcare la big wave anche gli Sleaford Mods con il loro nuovo album UK GRIM. Qui, il duo di Nottingham attivo dal 2007 sulla scena post-punk si mostra in veste grime, un genere di musica dance elettronica molto popolare a Londra negli anni 2000, fondendo sapientemente l’indole ribelle, polemica e poetica a sonorità dichiaratamente hip-hop mantenendo la svogliata grinta punk.

La personalità del cantante Jason Williamson conserva lo stile provocatorio, arrogante e graffiante che si riflette nei suoi testi, il suo modo di essere si interseca alla perfezione con le doti da DJ di Andrew Feam, che, in questo disco, ha dimostrato il suo talento e la sua genialità.

In UK Grime, gli Sleaford Mods esprimono tutto il loro disprezzo per la società moderna, per la perdita dei veri valori ma soprattutto per l’opportunismo dei potenti verso i più deboli. Denunciano situazioni di abbandono da parte delle autorità.

Il loro sdegno è espresso in testi taglienti a volta minimali, a volte ricercati e scivola su basi delicatamente ritmate come in Don o in Apart From You (dal timbro che ricorda molto i Joy Division), fino a pezzi più serrati e sconclusionati come Tilldipper,  Right Wing Beast e Tory Kong. L’impronta hip-hop è chiaramente visibile in Smash Each Other Up ed è una scossa elettrica che parte direttamente dal coccige e si estende su, verso la spina dorsale, scaricando direttamente a livello delle sinapsi, innescando il rilascio di adrenalina e noradrenalina.

Ad arricchire UK GRIM spuntano le leggende Dave Navarro e Perry Farrell dei Jane’s Addiction in So Trendy e la partecipazione dell’eterea Florence Shaw, eclettica frontwoman dei Dry Cleaning, nel terzo brano Force 10 from Navarone.

Celebrano il loro odio verso le istituzioni, e onorano la loro casa, la terra che li ha cresciuti, rovinata da chi si è approfittato degli ultimi solo per il dio denaro.

Urlano sarcasmo e orgoglio.

Ultima chicca. Il video del singolo UK GRIM è opera del visionario artista emergente inglese Cold War Steve, un capolavoro caustico, di satira, assolutamente da vedere.

Un album da sentire con le cuffie, che ti fa entrare direttamente in modalità Hooligans.

ATTENZIONE! NON ASCOLTARE IN AUTO, POTREBBE CAUSARE RISSE PER UN PARCHEGGIO RUBATO.

 

Sleaford Mods
UK GRIM
Rough Trade

 

Marta Annesi

Story of the Year “Tear Me To Pieces” (SharpTone Records, 2023)

Operazione nostalgia o semplice congelamento nel passato?

A sei anni da Wolves e dieci dalla reunion, gli Story Of The Year tornano in scena con il reboot album Tear Me To Pieces, pronti a cavalcare l’onda dell’emo-revival.

La formazione è quella della golden age di Page Avenue, anche i suoni e i testi vanno immediatamente a richiamare il passato della band di St. Louis; il terzo singolo 2005 inizia con l’auto citazione “Remember when we said: I spill my heart for you”, insomma all’appello di quella che è a tutti gli effetti una reunion adolescenziale, manca solo l’iconico produttore John Feldmann, ma in realtà pare che sia stato proprio lui ad indicare il nome del prescelto per questo progetto: Colin Brittain (All Time Low, Papa Roach, 5 Seconds of Summer, One OK Rock…), in pratica li ha lasciati nelle mani del suo fidato successore.

Intendiamoci, la band non è mai veramente uscita dai suoi vecchi schemi e ha sempre proposto la sua antica formula screamo early ’00, tra alti e bassi, con coerenza; in questo caso però, non stiamo parlando di attaccamento alle radici, ma di un prodotto che sembra pensato, scritto e suonato per scuotere i ricordi degli gli emo genitori ma anche per avviare i loro emo figli alla famosa fase non fase col ciuffo.

L’album inizia col botto, la title track Tear Me To Pieces e la successiva Real Life sono i primi due singoli estratti e, senza girarci troppo intorno, possiamo tranquillamente definirle le migliori delle undici canzoni totali. La prima, in pieno stile Story Of The Year, ha un ritornello che non ti molla più, la seconda ti obbliga a cantare senza ritegno quelle melodie iper catchy che ricordano i migliori All Time Low.
Da qui in poi si procede con il freno a mano tirato, ma anche questo è 100% SOTY, il quartetto infatti ci ha da sempre abituati all’alternanza tra tracce che funzionano e cosiddetti pezzi minori.
E allora si va da canzoni che sembrano quelle skippabili degli Yellowcard ad altre che invece sono effettivamente canzoni skippabili e degli Story Of The Year, passando per le immancabili ballad, come la malinconica Sorry About Me, che sembra una canzone non skippabile dei Simple Plan ed è capace di strappare anche un piantino.

Qualcuno si aspettava una svolta matura e concettuale? Non credo, a mio parere Tear Me To Pieces è un album di facile ascolto e piacevole spensieratezza, a cui è giusto volere bene, a lui, a tutti i suoi difetti e soprattutto agli Story Of The Year, per quello che hanno rappresentato e tentano di salvare oggi, a braccetto con i colleghi The Used, From First To Last, Silverstein, Hawthorne Heights e gli altri compagni di lacrime che quella fase non l’hanno solo vissuta ma hanno contribuito a crearla. 

 

Story Of The Year
Tear Me To Pieces
SharpTone Records

 

Stefano Cece Gardelli

Ron Gallo “Foreground Music” (Kill Rock Stars, 2023)

“This is foreground music you don’t need a background”

Canta così Ron Gallo nel secondo brano del suo ultimo disco, Foreground Music. Un album eclettico, sfaccettato, ma soprattutto difficile da tenere in sottofondo, perché altrimenti si rischia di perdersi delle chiavi di lettura (e forse anche perché appunto, come ci dice lui stesso, un sottofondo non ci serve).

Diverse le associazioni che si possono fare ascoltandolo: ci sono vibes (passatemi l’anglicismo) che ricordano gli ultimi lavori de The 1975 per un’associazione tra testi crudi e musiche a tratti allegre; altri pezzi invece – musicalmente parlando – ricordano vagamente gli Oasis (seppur in versione 2023), in particolare Vanity March e Yucca Valley Marshalls. Ma sarebbe riduttivo limitarsi alle associazioni con altri artisti, dato che l’album spazia dai chitarroni distorti a pezzi più dance passando per sentieri più malinconici.

Dunque malinconia, ma anche tanta ironia, quando non sfocia in vero e proprio cinismo. Questo fa sì che Foreground Music si ritagli il suo spazio in quel filone di prodotti artistici tipicamente millennial di cui la serie tv Fleabag è il massimo esempio internazionale: il racconto di una vita non esaltante e un po’ miserabile che si pone l’obiettivo di distrarre ma anche di far riflettere. Emblematica in questo senso è At Least I’m Dancing, dove appunto emerge un mondo che cade a pezzi, ma almeno si può ancora ballare.

Nessun accenno di poesia, anzi, tutto il contrario: da autore indie che si rispetti, Ron Gallo propone immagini estremamente prosaiche e quotidiane, come le tasse sempre in At Least I’m Dancing o i grandi magazzini in mezzo al deserto di Yucca Valley Marshalls. Tuttavia, sono proprio queste immagini quasi mediocri a raccontare sensazioni profonde e sentimenti  potenti: rabbia, solitudine, critica alla società della performance o all’idea che agli uomini sia tutto dovuto.

Insomma, i temi sociali non si sprecano e spesso quello che racconta è in netto contrasto con le sonorità adottate, molto più allegre e ballabili. D’altronde lo stesso artista ha definito l’album “what an existential crisis would sound like if it could also be fun”.

E probabilmente ha ragione: un’ipotetica, divertente crisi esistenziale suonerebbe proprio così.

 

Ron Gallo
Foreground Music
Kill Rock Stars

 

Francesca Di Salvatore

Dry Cleaning “Swampy EP” (4AD, 2023)

– Chi era?
– Nulla, erano i Dry Cleaning, hanno lasciato una musicassetta, sul tavolo, vicino alla frutta.
– Roba importante? Urgente?
– Pare di no. Solo una canzone rimasta orfana dopo l’uscita di Stumpwork, un intervallo musicale per chitarra e deserto, due remix di pezzi già noti e una demo.
– Ah.
– Già.
– L’hai già ascoltata?
Swampy l’ho messa in loop per venti minuti. È un sunto dell’estetica della band. Ciondolante, sudato, afoso, fumo blu su silhouette in controluce. Ma anche desertico, desolato e poco londinese.
– Domani li chiami?
– Esce il 1° marzo, direi che è urgente.

A Swampy segue in ordine Sombre Two, pezzo solo strumentale di circa due minuti, una clamorosa Gary Ashby remixata da Nourished By Time, e Hot Penny Day, smontata e rimontata da Charlotte Adigéry & Bolis Pupul.
Chiude il tutto un oscuro demo chiamato Peanuts.
Tra vent’anni, davanti alla tracklist del best of dei Dry Cleaning, potrete sfoggiare uno slancio di cultura ricordando a tutti che quel bel pezzo polveroso e misterioso non ha mai abitato nessun album, Swampy era un EP.
Un EP che dura un quarto d’ora. Esce a quattro mesi di distanza dall’ultimo album. È come ricevere a Natale una foto dell’amore estivo.
Non lo avrei mai detto, sei bella anche non abbronzata.
Ci vediamo dal vivo, sicuro. 

 

Dry Cleaning
Swampy EP
4AD

 

Andrea Riscossa

Algiers “Shook” (Matador Records, 2023)

Non mi pare di averlo visto scritto da nessuna parte, ma non ci sarebbe stato male un alert stile “handle with care”, maneggiare con cura, sulla copertina di questo Shook degli Algiers.

L’ultimo lavoro in studio della band di Atlanta, uscito ancora per la fedele Matador Records, è probabilmente il loro lavoro più impegnativo, complesso e potente.

Non so dire se sia il loro migliore, anche perchè qui entriamo in una sfera strettamente personale, ed io lo ricordo ancora in maniera nitida qualche anno fa lo stupore che provai la prima volta che ascoltai The Underside of Power. 

Stavolta è stato diverso. Già con l’iniziale Everybody Shatter mi sono visto costretto ad abbandonare tutto ciò che stavo facendo e focalizzare l’attenzione nell’ascolto, nella potenza di un verso come “So we imprison ourselves and don’t see we hold the key”. 

Shook è un disco esigente, come d’altronde sono gli Algiers, nella sostanza, dall’alto delle sue 17 tracce e oltre 50 minuti di durata, o dei suoi innumerevoli ospiti, che campeggiano in bella vista sulla copertina del disco. 

Esigente soprattutto però nella forma, nei frenetici ritmi di A Good Man “So many shadows / that I can’t sleep at night”, o nei versi sempre taglienti di Zach de la Rocha nella travolgente Irreversible Damage “And my peace torn in an alley abandoned an’ murdered then reborn in a beat form breathless”, come nel lamento di Out Of Style Tragedy sulle sparatorie che ormai nemmeno fanno più notizia.

I momenti più riflessivi ed intimi sono affidati a dei simil spoken words, come in Born, con la voce di LaToya Kent, anima dei magnifici Mourning [A] BLKstar, o in As It Resounds (“We can no longer sit in acceptance of our own spiritual recession” è un monito drammaticamente vero e universale che difficilmente qualcuno di noi riuscirebbe ad ignorare serenamente) con le tonalità baritonali di Big Rube.

Non mancano ovviamente nemmeno i passaggi debitori al tanto amato gospel, che ben si sposa con la voce multiforme di Franklin James Fisher, Green Iris ed il suo incedere dispari o la conclusiva Momentary, un barlume di speranza, una luce in un presente fatto di violenza ed ingiustizia, di egoismo e di sempre più diffusa ignavia:

“When we die

Our beloved 

Our kinfolk 

Fear not

We rise”

 

Algiers
Shook
Matador Records

 

Alberto Adustini