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Tag: riccardo rinaldini

Lazza @ Unipol Arena

L’Unipol Arena di Bologna stasera è praticamente tutta tinta di bianco per il colore delle magliette dell’album Sirio, del rapper milanese Lazza. Il pubblico è composto quasi esclusivamente da fedelissimi e giovanissimi: i ragazzi si rivedono nel cantante, cercano libertà, a volte sono spocchiosi, a volte malinconici e romantici. Respiro un’aria fantastica: forse è l’aria di rivalsa del rap italiano, che dopo tantissimi anni riesce a vedere diversi artisti che riempiono i palazzetti di tutta Italia.

Il pubblico è già caldissimo, ma viene caricato ulteriormente da un breve DJ set che riproduce le hit rap italiane più famose, come Non Lo Sai di Shiva e Blauer di Paky, poi si spengono le luci. Una volta riaccese, si notano, sul palco, un quartetto d’archi, la band (composta da tastierista, batterista, chitarrista e bassista) e un pianista, quasi al centro.

Lazza inizia a cantare Ouverture prima di salire sul palco e, chiaramente, una volta entrato fa impazzire il pubblico. Prosegue con altri due banger, poi si interrompe per un breve discorso, una piccola intro per la canzone successiva, poi riparte a cantare.

Il live non ha difetti. L’artista non sbaglia un colpo, né nei ritornelli più melodici, né nelle strofe più aggressive (tipo ZONDA). Tiene bene il palco, cavalca come un cavallo pazzo, salta, urla, scherza e gioca con gli altri musicisti. A buon proposito, sia la band che la strumentale classica è di altissimo livello. Vedere (come ha sottolineato lo stesso Lazza) dei violini dal vivo ad un concerto rap è effettivamente inusuale, ma riesce a regalare dinamicità e freschezza al live, unendo l’autenticità degli strumenti suonati dal vivo.

Certo, il rap è evoluto tantissimo negli ultimi anni, ed è cambiato altrettanto. Oltre ai brevi spezzoni che fanno da ponte fra un pezzo e un altro (tipo il rapper che firma un pallone Super Santos portato da un fan) , il concerto vede presenti diversi ospiti, consueto in un live di Lazza; inutile dire che con artisti del calibro di Capo Plaza e Fred De Palma siano state messe a dura prova le strutture antisismiche dell’Unipol Arena.

Un live davvero speciale, per chiudere il tour di Lazza, che ancora una volta si è imposto come uno dei migliori rapper nella scena nazionale. Ma d’altronde, è vero che “se scrivi Zzala leggi garanzia”.

Riccardo Rinaldini

 

Grazie a Goigest | Studio’s

Mezzosangue @ Estragon Club

Bologna, 21 Aprile 2023

 

Finalmente, dopo tanti anni di silenzio musicale, ritorna sul palco Mezzosangue, all’Estragon di Bologna. Il pubblico è esattamente come mi aspettavo. Sono fedelissimi: poco prima dell’inizio del live si scaldano e gridano in coro “Mezzo – Sangue!”, motto proveniente dalla canzone Sangue, uscita nell’album Soul of a Supertramp del 2016. L’età varia di poco, sono tutti poco più che ventenni, e vestono con felpe larghe, jeans attillati o tuta cargo e scarpe da ginnastica basse. È come se stessero aspettando un amico che è stato in trasferta, lontano, per tantissimo tempo. Hanno voglia di abbracciarlo, parlargli, vedere come sta e com’è cambiato, confidando tanto nello scorrere del tempo, quanto nell’immutevole natura umana del carattere.

Il live è quasi una performance teatrale: diviso in atti, ognuno dei quali anticipato da un piccolo monologo con una maschera dorata che approfondisce temi da sempre cari all’artista, come la decadenza sociale, la debolezza che affligge l’ego e la voglia di rinascita. Gli effetti visivi lasciano a bocca aperta: la scenografia alle spalle dell’artista viene completata, o talvolta addirittura sostituita, da proiezioni su un sipario trasparente poste fra il pubblico e il cantante, in modo da creare un effetto visivo olografico spesso tridimensionale, grazie a disegni caleidoscopici o ritratti naturali o simbolici, come l’albero del disco Tree – Roots and Crown. 

Effetti visivi a parte, la performance è resa viva anche grazie ai musicisti (oltre al rapper) che suonano dal vivo, per cui è necessario scrivere una nota di merito al batterista: folle, geniale, lancia in aria le bacchette e le riprende al volo, pesta sul rullante come se fosse un’incudine, si alza in piedi durante i cambi più impegnativi.

Alcuni brani vedono anche la collaborazione di ballerini, che attraverso la coreografia riportano, danzando, l’anima e il significato del brano.

Il pubblico è coinvoltissimo sempre: canta a squarciagola, balla quando si alzano i BPM e si ferma quando è il momento di un brano più intimo, più emotivo. L’artista è stato capace di trasportarlo in un mondo alternativo, quello dei mezzosangue, dove amore e paura si fondono, dove prevale la voglia di rivalsa nei confronti di un mondo e, spesso, di uno stato che non li ha mai riconosciuti come figli.

È grazie alla scenografia che Mezzosangue fa capire cosa intende per arte: non conta l’artista, quanto il concetto che trasmette. Anche perché, come suggerisce sia la canzone che la scena del concerto, non siamo forse nient’altro che ologrammi?

 

Riccardo Rinaldini

foto di copertina Nino Saetti

 

Grazie a Help Media Pr

Shiva @ Estragon Club

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Shiva

Estragon Club (Bologna) // 18 Marzo 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Devo dire che mi mancava davvero Bologna, in special modo l’Estragon. Avrebbe suonato Shiva, e non sapevo proprio cosa aspettarmi dal concerto di un rapper tanto versatile quanto fedele a sé stesso, sia nei contenuti che nella musicalità, quindi mi sono approcciato al live con la curiosità di un bambino che entra in un negozio di giocattoli.

L’ambiente faceva sia biglietto da visita per Shiva, con una porta e delle fiamme rosse come scenografia sul palco, che come fotografia dell’adolescenza moderna: Nike tn squalo ai piedi, tute, skinny jeans e giubbotti lucidi per i ragazzi, le ragazze vestite con pantaloni larghi ma top aderenti, vestiti stretti. Quasi tutti con lo sguardo cattivo e un po’ perso. Non potevano mancare i “bally”, gergo per indicare il passamontagna, accessorio principale dell’abbigliamento trap/drill. La scenografia è tutta tendente al rosso, colore che rappresenta l’artista. Credo fermamente che il mondo dei ragazzi oggi sia velato, quasi invisibile e intangibile per chi non ci sta dentro. È estremamente facile perdersi in pregiudizi vari. Dove tanti vedono ragazzi che provano a tutti i costi a fare i duri, io ci vedo giovani che hanno trovato un mondo che gli appartiene, composto soprattutto di insicurezza e amore mascherato dalla criminalità, e la svolta romantica di Shiva dell’ultimo periodo ne è un esempio. Ridono, è il loro mondo, è il loro ambiente. alcuni ballano, altri fumano a sgamo un paio di Heets, altri si sistemano la bandana (rigorosamente rossa). Poi ci sono le coppie che si concedono qualche momento intimo, incerti nel toccarsi, nel baciarsi, con mani e labbra che respirano di prime esperienze. 

Shiva entra proprio dalla porta in mezzo al palco al grido di “BU BU MILANO”. Il pubblico esplode. Veste felpa college e jeans skinny vita bassa. Le scenografie sono di alto livello, fra costose Ferrari e bicchieri pieni di purple drank. Shiva posa, rappa, non si muove molto ma tiene bene la strumentale e riesce a far cantare bene il pubblico, che è completamente impazzito per il rapper. Non canta il ritornello di Aston Martin, ma è mixata talmente bene che il pubblico impazzisce e saltano tutti a tempo. “Questo è il mio primo tour. Da ragazzino prendevo mille autobus, facevo mille giri, so che cosa si prova a non avere niente”. Durante il live stringe mani ai ragazzi, esclamando “Questa è la mia fottuta gente”. Riesce a performare l’intro di Soldi Puliti facendo fare un cerchio al pubblico che, senza esitare, inizia a saltare appena parte la parte strumentale. 

A livello tecnico non è stato il miglior live di sempre, fra la voce mixata male e l’artista che, ogni tanto, prendeva fiato durante l’esecuzione di un brano. Tutto sommato, però, il suo pubblico si è divertito, ha apprezzato l’artista che ama, capace di farli immergere nell’immaginario drill come nessun altro. Forse stanotte, davvero, “Bologna è dipinta di rosso”.

 

Riccardo Rinaldini

Foto di Luca Ortolani

 

Scaletta

Non è Easy
Cup
Aston Martin
Rollie AP
Niente Da Perdere
Cicatrici
Un altro Show
Purosangue
Gelosa
Soldi in Nero
Soldi Puliti
Regina del Block
Pensando a Lei
Take 4
Star
Fendi Belt
Tuta Black
La Mia Storia
Mon Fre
Alleluia
Bossoli
Non Lo Sai

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Divagazioni su musica raggae e spiritualità con Alborosie

Se dovessi pensare ai nomi più importanti del panorama reggae odierno, sicuramente uno dei primi sarebbe Alborosie. All’anagrafe Alberto D’Ascola, nasce a Marsala il 4 luglio 1977. Si avvicina al reggae nel 1993, quando fonda il gruppo Reggae National Tickets, ancora conosciuto come Stena. Nel 2000 si trasferisce in Giamaica, dove rinnova il nome d’arte in Alborosie (inizialmente Al Borosie) e inizia la sua significativa carriera da solista. Attualmente conta all’attivo ben ventitré album in studio, di cui cinque con il gruppo Reggae National Tickets.
Noi di Vez abbiamo avuto il piacere di intervistarlo.

 

Ciao Alberto, benvenuto su Vez Magazine!
Sei un’istituzione riconosciuta a livello globale del reggae moderno. Cosa significa essere una voce importante della religione rasta nel 2022?

“Dopo aver vissuto una rivoluzione spirituale e aver studiato a lungo e a fondo la storia dell’Etiopia – vessata per anni dagli italiani – per me è un onore essere oggi portavoce di questa importante cultura. Quella rasta non è una religione, è spiritualismo, la parola religione implica anche una componente politica da cui io mi sento lontano.”

 

Gli anni caratterizzati dal virus hanno influito sulla tua creatività e sul modo di vedere il mondo? 

“Ho sempre fatto concerti, circa 200 date l’anno, e per la prima volta, non c’è stata alcuna interruzione nella lavorazione del disco. Avevo ritmi così estenuanti che stare fermo un anno e mezzo ha avuto sicuramente i suoi risvolti positivi, anche in fatto di creatività. Durante il periodo della pandemia infatti ho lavorato a casa, avendo la fortuna di avere uno studio a disposizione.”

 

Sei un artista molto seguito sia a livello italiano che internazionale. Qual è il tuo rapporto con i fan, sia nostrani che esteri?

“Ho un rapporto stupendo, e sento che con il tempo mi sto avvicinando a loro sempre di più. Sono contento perché sia dall’Italia che dall’estero, noto sempre una grande attenzione e partecipazione da parte loro rispetto alla mia evoluzione musicale.”

 

Il reggae è in buona parte critica verso il sistema occidentale. Qual è il tuo pensiero sulla situazione politica italiana odierna?

“Reputo la classe politica italiana un po’ tutta uguale, ma non vorrei entrare nel merito in questo contesto, preferisco lasciar parlare le mie canzoni.”

 

Quali sono gli artisti reggae che ti hanno formato di più? E quelli di altri generi?

Bob Marley, Peter Tosh fra gli artisti reggae internazionali che mi hanno formato di più. Fra gli italiani invece, sicuramente gli Africa Unite. Mentre per quanto riguarda gli altri generi, i Doors.”

 

Secondo te quale sarà l’evoluzione del genere reggae in vista di gusti sempre più omologati e mainstream? Evolverà in altri stili sporcandosi anche di generi diversi o rimarrà fedele a sé stesso?

“Sarò io a fare in modo che molto presto il genere si evolva, in questo periodo mi sto dedicando a studiare proprio questo.”

 

C’è qualcosa in cui credi fortemente al di là della musica e del rastafarianesimo che vorresti condividere con i lettori?

“L’unica altra cosa in cui credo fortemente insieme alla musica e al rastafarianesimo è la vita.”

 

Riccardo Rinaldini

Una chiacchierata punk con Amyl and the Sniffers

Read this article in English here

Amyl and the Sniffers è una band punk rock/pub rock, fondata a Melbourne. È composta da Amy Taylor (voce), Bryce Wilson (batteria), Dec Martens (chitarra) and Fergus Romer (basso). La band è famosa per le loro esibizioni dal vivo e il loro stile particolarmente frenetico e dinamico, proprio come le loro canzoni. Hanno vinto diversi premi, come il Music Victoria Awards nel 2020 come miglior band, miglior musicista (vinto personalmente da Amy Taylor) e miglior esibizione dal vivo, vinto di nuovo nel Music Victoria Awards del 2021. La band ha vinto anche ARIA Music Award per il miglior album rock, nel 2019. Attualmente contano due EP, quali Giddy Up (2016) e Big Attraction (2017) e due album, Amyl and the Sniffers (2019) e Comfort Me (2021). In occasione del loro concerto per acieloaperto a Cesena, abbiamo avuto il piacere di intervistare Amy.

 

Siete ben conosciuti per i vostri live dinamici ed esplosivi. Ti senti più a tuo agio sul palco o in studio? Che relazione hai con i tuoi ascoltatori?

“Probabilmente mi sento più a mio agio durante un’esibizione dal vivo piuttosto che registrare in studio. Sul palco ti senti libero e senza inibizioni. 

Adoro i miei ascoltatori. È bello vedere ragazze giovani o donne o, sai, ragazze di sessant’anni che fanno una foto con me, o piccole attività che condividono il loro prodotto con me o mi regalano un vestito, giusto per essere gentili. È fantastico sapere che la mia musica arriva alle persone e gli fa provare qualcosa.”

 

Come hai preso la vittoria del premio ARIA Music Award e la conseguente ascesa al successo? Hai rimpianti sugli esordi della vostra carriera?

“Non saprei, è stata una sorpresa enorme quando l’abbiamo vinto, quindi eravamo tipo “Ma che cazzo, è fantastico!” e poi abbiamo tirato dritto. Essere riconosciuti è stato davvero speciale. Non ha corrotto troppo l’umiltà, in generale.

Non ho mai pensato ai rimpianti prima d’ora. Sono sicura che li avrei se ci pensassi su, ma non voglio pensarci ancora, altrimenti mi sentirei male. Credo che se potessi tornare indietro direi alla me più giovane di leggere più libri e più notizie, iniziando a diventare più cosciente perché è come se vivessi sotto una roccia abbastanza grande, cosa che fa parte di chi sono e non cambierei, ma mi è piaciuto ciò che i libri hanno fatto al mio cervello quando ho iniziato a leggere.”

 

Dal debutto fino all’ultimo album, le vostre canzoni sono molto vivaci ed energiche. Qual è la ricetta per una canzone perfetta?

“Non so se esistono cose come la canzone perfetta, perché a volte non ascolto neanche le mie canzoni preferite se non sono nel giusto stato d’animo. Non ho una risposta. Se stessimo parlando di ricette e io fossi uno chef, probabilmente starei facendo toasts e non so perchè sono gustosi, ma a volte lo sono.”

 

I vostri testi sono spesso volgari e fuori dall’ordinario, senza limitazioni o censure. Cosa pensi del moralismo estremo unito alla cancel culture che oggi sfida sia la libertà di espressione che la libertà artistica?

“Credo che la cancel culture sia complicata. Penso che la call-out culture possa essere una cosa buona. Online può essere pericolosa perché è tutto dietro una tastiera, ma in generale la call-out culture significa marginalizzare persone, tipo che le loro voci vengono sentite da chi ha un po’ più di potere ed è complicato perché se hai più potere è più difficile essere messi in discussione e può sembrare di essere sempre sotto attacco, ma a volte è semplicemente qualcuno senza voce che alza un po’ la propria voce.”

 

Credi che il punk (sia come attitudine che come genere musicale) sia morto? 

“Credo che come genere sia definitivamente vivo. Il punk anni settanta è probabilmente morto. È un ambiente diverso e c’è una cultura diversa, ora. Ma è cambiato, esiste ancora. Non so dire quale sia la migliore versione del punk, ma rimane sempre punk, quindi potrebbero essere morti ma esistono diverse versioni. Tante persone hanno una visione molto limitata di cosa è punk, quindi per loro se la loro versione di punk è morta allora tutto il resto è sbagliato. Spesso è soltanto diverso e non riescono a vederlo, perché non vogliono. Dappertutto, nel mondo, è pieno di fan del punk. Può sembrare diverso e può sembrare che ognuno suoni diverse versioni del genere, ma la gente va pazza per la musica e sono sicura che a molti punk non piaccia, ma non c’è niente di più punk di non avere un lavoro quotidiano!”

 

Riccardo Rinaldini

A punk chat with Amyl and the Sniffers

Leggi questo articolo in Italiano qui

Amyl and the Sniffers is a punk rock/pub rock band, based in Melbourne. It is composed by Amy Taylor (voice), Bryce Wilson (drum), Dec Martens (guitar) and Fergus Romer (bass). The band is known thanks to their ability on live performing and their particularly frenetic and  dynamic style, exactly like their songs. They won several awards, such as 2020 Music Victoria Awards as best band, best musician (personally to Amy Taylor) and best live act, won again in 2021 Music Victoria Awards. The band also won the ARIA Music Award for the best rock album in 2019. They actually count two EPs, such as Giddy Up (2016) and Big Attraction (2017) and two albums, Amyl and the Sniffers (2019) and Comfort Me (2021). In occasion of their concert at acieloaperto in Cesena, we had the pleasure to interview Amy.

 

You are well known for explosive and extremely dynamic live experiences. Do you feel more comfortable on a stage performing live or recording in studio? What’s your relationship with your fanbase?

“Probably perfoming live makes me feel more comfortable rather than recording. On a stage it is free and you have no inhibitions. 

I like my listeners. It’s cool to see young girls or women or, you know, sixty years old girls take a picture of me, or small businesses that share their product with me or give me a little outfit, just to be kind. It’s pretty amazing to know that my music reaches people and makes people feel something.”

 

What effect had on you the ARIA Music Award victory and the consequent uprising of your success? Have you any regret about your beginnings?

“I don’t know, it was such a big surprise when we won it, so we were like “What the fuck, that is fucking awesome!” and then going forward from winning that. It definitely felt pretty special to be recognized. It didn’t corrupt the humbleness too much.

I’ve never thought about regrets before, I don’t think so. I’m sure I’d do it if I had to think about it, but I don’t want to think about it until late up, ‘cause otherwise I’ll feel bad. I think that if I could go back I would tell to the younger me to start reading more books and news more, and start being more aware ‘cause I live under a pretty big rock, which makes part of who I am, so I wouldn’t change that, but I think that when I started reading the books I liked what they did to my brain.”

 

From your debut to your last record, your signature songs are powerful and energetic. What is your recipe for the perfect song?

“I don’t know if there is such a thing as a perfect song, because sometimes even with my favorite songs, if I’m in a different mood I wouldn’t listen to it and I’m not liking it at that time. I don’t really have the answer. I think that if we’re talking about recipes and I’m like a chef, then I’m probably making toasted sandwiches and I don’t know why they are yummy, but they are yummy sometimes.” 

 

Your lyrics are often coarse and sharp, without boundaries or censorship. What do you think about the extreme moralism borderline with cancel culture that today is challenging both speech and artistic freedom?

“I think cancel culture is complicated. I think that call-out culture can be a good thing. When online it can be too dangerous because it’s all behind keyboards, but in general call-out culture is marginalize people, like have their voices heard by people with a bit more power and so it is complicated because if you have more power it feels quite challenging to be challenged and it seems you’re under attack but sometimes it is just someone without any voice turning up a voice.” 

 

Do you think punk (both as an attitudine and musical genre) is dead? 

“I think that as a genre it is definitely alive. The 1970s punk is probably dead. It’s a different landscape and there’s a different culture now. But it’s reformed, it still exists. I might not know which better punk version is, but it’s still punk. So they might have died but there’s different versions of it. It’s like some people have a really narrow line of what punk is, so for those people if their version of punk is dead then everyone else is wrong, but often it is just different and they can’t see, because they don’t want to. All around the world there are big punk fans. It might look different, and it might look like everyone does different versions of it, people are making crazy about music and I’m sure a lot of punks don’t like that but I think there’s nothing more punk than not having a fucking day job!”

 

Riccardo Rinaldini

A volte bisogna chiamare la pioggia, altre volte basta ascoltare Axos

Andrea Molteni, in arte Axos, è un artista milanese. Il suo primo lavoro in studio è Carne Viva EP, pubblicato nel 2014 sotto Bullz Records, ma esplode definitivamente nel 2016 con l’album Mitridate (dopo aver partecipato a progetti come Machete Mixtape Volume III e Bloody Vinyl 2) grazie a sonorità particolarmente hard e cupe e a testi scritti da una penna a volte violenta, a volte malinconica, ma sempre realistica e piena di riferimenti culturali. Nel 2017 pubblica alcuni singoli, quali Blue Room e 11, e l’EP Anima Mea. Nel 2018 escono i singoli Iron Maiden e Moonchild e un altro EP, Corpus: l’Amore Sopra. Nel 2019 pubblica i singoli Ci Puoi Fare un Film e Harem, dove la penna di Axos e la musicalità delle strumentali subiscono un’evoluzione decisa che traccia il sentiero per il cammino dell’artista. Il 2020 vede l’uscita del singolo Banlieue e dell’album Anima Mundi, che diventeranno poi corpo e spirito della crescita artistica di Axos, con sonorità che spaziano da influenze rock a linee melodiche più dolci. Nel 2022, dopo aver pubblicato tre singoli che saranno all’interno del disco, esce Manie: un album che percorre tutti i crucci dell’artista, in maniera sicuramente molto più introspettiva e personale rispetto ai lavori precedenti, senza abbandonare la penna e lo stile distintivo di Axos, graffiante e decisa, capace tanto di coccolare ed essere affine all’amore quanto di denunciare sia stati d’animo negativi che situazioni sociali discutibili. L’album viaggia moltissimo (se non più di Anima Mundi) su musicalità diverse, anche grazie alla collaborazione del produttore Jvli, passando dall’hip hop di Padri, alle chitarre di Ubriaco e Cosa Vuole Questa Musica Stasera, per arrivare alle influenze boogie e funky di Geloso.

Axos terrà due Live Trip, chiamati The*Experience, ai Magazzini Generali di Milano il 14 e il 21 Aprile: non saranno semplici live, quanto piuttosto vere e proprie esperienze che vanno oltre la musica. 

 

Ciao Andrea e benvenuto su Vez Magazine!
Dai primi progetti all’ultimo disco è notevole e ben definibile l’evoluzione musicale e artistica di cui sei stato protagonista. L’Axos di Mitridate, magari anche dell’EP Carne Viva, continuano ad accompagnarti oppure sono figure ormai lontane?

“Ciao Vez Magazine! Sì, la figura di Mitridate e tutto quello che è il mio passato mi perseguitano, nel senso che ci sono alcuni miei fan che proprio non riescono ad accettare che io mi sia evoluto e che io stia meglio nella mia vita, ed è una cosa non bellissima. Da me, invece, sono figure abbastanza lontane, dico la verità. Sono così lontane che tante volte, quando risento Mitridate mi sento un po’ strano. Sono lontane perché mi sono evoluto tanto e sono andato avanti con la mia vita. Sono passati sei anni da quel disco e mi sento di aver fatto tante cose in questo tempo che mi hanno allontanato da quella realtà, ma proprio nella vita.”

 

Manie, dal punto di vista della scrittura, è un album più intimo e più introspettivo a livello personale rispetto ai progetti precedenti. Credi che la scrittura di questo disco in particolare sia stata, in qualche modo, terapeutica nei tuoi confronti? Ti ha aiutato a definire meglio quelle che sono le tue manie, e magari ad affrontarle?

“La scrittura di questo disco è stata terapeutica, soprattutto nel momento in cui mi ha fatto buttare fuori tante consapevolezze che, però, arrivavano da un mio viaggio introspettivo, un lavoro personale che andava fuori dalla scrittura, ma che in realtà, è stato molto legato ad altre forme artistiche. In questo viaggio introspettivo ho disegnato tanto, ho scolpito, ho creato tantissimo, perché avevo bisogno di vedere i miei cambiamenti interiori e poterli affrontare meglio. La scrittura ha fatto sì che io potessi poi buttare fuori tutto. Effettivamente questa volta ho avuto, e non mi succedeva da un po’, quell’approccio alla scrittura che avevo da bambino: un vero e proprio sfogo buttato fuori.”

 

Hai mai avuto, durante la carriera, momenti di blocco o momenti in cui pensavi di mollare la musica? Cosa consigli, anche ad artisti emergenti, quando ti viene voglia di lasciare tutto, oppure vedi tutte le porte sbarrate?

“Ho avuto nella mia vita voglia di mollare tutto, perché ho vissuto delle cose veramente brutte. Il mondo della musica è costellato di persone di dubbio valore morale, è umano, e io ci ho avuto a che fare e ci ho lavorato. Tante volte mi hanno fatto passare la voglia e tante volte la voglia mi è passata vedendo ciò che effettivamente fa successo, che è tutto un po’ contrario ai miei principi sotto determinati punti di vista, soprattutto quello artistico. Ho avuto, quindi, sì voglia di lasciare quando vedevo che i numeri non corrispondevano, quando vedevo che venivo eletto il “king” dei sottovalutati. Come affrontarlo? Semplicemente non lo so spiegare, perché di fatto sono una persona che non si arrende. Basta ammettere dove sono i gap e cercare di sistemarli in base a quello che stai vivendo, quindi alla realtà (non ci si può mettere i salami sugli occhi). Se delle cose non vanno c’è un motivo, quindi riuscire a mettere se stessi all’interno di dinamiche che non sono perfettamente le tue. Per farlo devi anche avere una forte personalità artistica, un controllo di quello che fai abbastanza deciso, perché se no vieni risucchiato dal mercato e, invece di fare qualcosa che possa andare bene sia per il mercato sia per te, fai qualcosa che magari può andar bene solo per il primo e che neanche funziona. Quindi rimani completamente vuoto e triste. Questa è una cosa che non voglio fare e che consiglio di non fare mai nella vita. In definitiva consiglio di cercare il connubio tra quello che sei e il mercato. Nel mio caso è stato difficile perché io sono il contrario. Chiaramente, secondo me ce l’ho fatta nel momento in cui con Manie sono riuscito a tirar fuori il sound. Forse mi sono anche appassionato a delle parti del pop e della musica che nel mercato funziona tantissimo, soprattutto a livello internazionale, vedi Adele e molti altri che fanno parte dei miei ascolti. Riesco a comprendere, molto più di prima che ascoltavo musica più di nicchia, come poter fare qualcosa di estremamente bello ma che piace alla “massa”.”

 

Da sempre, nelle tue canzoni, ci sono stati riferimenti alla musica e alla letteratura. Quali sono i generi musicali e letterari e gli artisti e scrittori che apprezzi di più?

“I generi musicali, letterari, gli artisti e gli scrittori che apprezzo di più sono davvero tanti, fare una lista è impossibile. Sicuramente tra questi c’è Tolstoj, Jung, Baudelaire… Però come avrai già capito da questa risposta, variano sui generi, sia dal punto di vista letterario, ma anche dal punto di vista musicale, perché vado dagli Iron Maiden a Eminem e in mezzo c’è un mondo variopinto. Questa cosa si rivede nella mia musica: mi appassiona tutto, in base ai periodi. Proprio in base ai periodi vengo travolto da determinati generi, determinati scrittori e determinati autori. Mi piace tantissimo, ad esempio, scegliere i miei libri entrando dentro le librerie facendomi trasportare, come se loro scegliessero me. Ho sempre fatto così e credo mi abbia portato a una grande varietà.”

 

Riccardo Rinaldini

 

Grazie a BPM Concerti

The Dead South, suoni bluegrass e folk dal Canada

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Chitarre, banjo, testi cantati da voci da pelle d’oca che raccontano di antieroi e antagonisti: stiamo parlando del gruppo folk-bluegrass The Dead South. L’ensemble, formatasi nel 2012 a Regina, Saskatchewan, in Canada, vede come membri Nathaniel Hilts (voce, chitarra e mandolino), Scott Pringle (voce, chitarra e mandolino), Danny Kenyon (violoncello e voce) e Colton Crawford (banjo). Il gruppo ha debuttato nel 2014 con l’album in studio Good Company. Attualmente, contano all’attivo tre EP, fra cui The Ocean Went Mad and We Were To Blame, EP d’esordio pubblicato nel 2013 e gli EP Easy Listening for Jerks Pt. 1, Easy Listening for Jerks Pt. 2, entrambi pubblicati nel 2022. Hanno inciso tre album in studio, quali Illusion and Doubt, pubblicato nel 2016 e Sugar & Joy, del 2019, oltre all’album di debutto citato precedentemente. Si esibiranno all’Alcatraz a Milano il 18 aprile e abbiamo avuto il piacere di intervistarli.

 

A livello personale, come avete affrontato questi due anni di pandemia? Hanno avuto qualche effetto sulle dinamiche della band, ad esempio distanziamento emotivo o piccoli attriti causati dall’essere stati inattivi musicalmente?

“Crediamo di aver affrontato la pandemia abbastanza bene. Abbiamo avuto tutti il tempo di fare cose personali per un po’, il ché è stata una cosa carina, almeno per i primi mesi. Abbiamo avuto tempo per lavorare su altri progetti personali, Scott è diventato papà. Abbiamo speso buona parte del tempo libero esercitandoci e registrando i nostri due nuovi EP, perciò non sono stati un anno e mezzo di blocco totale. Quando siamo tornati alla normalità, ci è sembrato di non esserci mai fermati. Siamo tornati come prima molto facilmente.”

 

Presto verrete a suonare in Italia: come vi sentite a tornare a fare dei concerti? Vi piace l’Italia? Pensate che il vostro genere musicale sia apprezzato di più o di meno, rispetto ad altri paesi?

“Non siamo mai stati in Italia, quindi siamo davvero entusiasti di poter suonare qui! È sempre difficile dire quale paese apprezzi la nostra musica. Le persone sono pur sempre persone, e ogni paese al mondo ha gente che apprezza il nostro genere e gente a cui non piace. Sarà interessante vedere come reagirà il pubblico italiano rispetto ad altri.”

Una delle vostre canzoni più famose è In Hell I’ll Be in Good Company: con chi vi vedete all’inferno, sempre che ci crediate? Come vi relazionate con la religione e la spiritualità?

“Nessuno di noi è una persona religiosa, la maggior parte dei nostri testi racconta soltanto una storia, di solito a proposito di antagonisti piuttosto che di eroi. Se esistesse un inferno, siamo sicuri che passeremmo tutti e quattro un sacco di tempo insieme.”

 

Chi sono gli artisti che vi hanno ispirato di più, sia a livello personale che musicale?

Quando abbiamo formato la band ascoltavamo tanto i Trampled By Turtles, The Devil Makes Three, e Old Crow Medicine Show. Personalmente, sono cresciuto ascoltando molto metal, genere che tuttora ascolto di più. Lamb of God, Trivium, The Black Dahlia Murder sono probabilmente i miei preferiti. Siamo cresciuti tutti con punk e classic rock, e credo che questi generi ci abbiano influenzato tanto a livello di scrittura dei testi.”

 

Qual è l’origine del nome The Dead South?

“Avevamo un batterista nella band, e se n’è uscito con il nome The Dead Souths. Non ci piaceva il plurale Souths, così abbiamo troncato la “s” e siamo diventati The Dead South. Dovevamo fare la nostra prima esibizione e avevamo bisogno di un nome, quindi abbiamo dato per buono quello e così è rimasto. Pare si sposi bene anche con il genere che facciamo, ma se avessimo anticipato di una decina d’anni la battuta“The Dead South?? Ma siete CANADESI!!” sicuramente ci avremmo ripensato.”

 

Il successo ha cambiato, in qualche modo, la percezione e visione che avete della musica? Avete sperimentato qualche cambiamento nel modo in cui scrivete o componete? Se si, è stato un cambiamento positivo o negativo?

“Non credo ci abbia cambiato, se non altro è più difficile uscirsene con idee originali rispetto a quando avevamo appena iniziato a suonare, perché stavamo tutti imparando a suonare e a scrivere. Non vorremmo mai scrivere due canzoni identiche, né tantomeno cambiare gli strumenti che suoniamo, quindi è più difficile scrivere canzoni originali rispetto a prima. Oltre a questo, tutto è rimasto esattamente come prima. Ci esercitiamo e componiamo ancora nei seminterrati, non abbiamo qualche posto stravagante dove riunirci e suonare, e il nostro “successo” non ha cambiato davvero nulla. Ci sentiamo ancora gli stessi quattro ragazzi di Regina che provano a scrivere belle canzoni.”

 

Riccardo Rinaldini

The Dead South, bluegrass and folk from Canada

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Guitars, banjo, terrific lyrics performed by vocals that can give you goosebumps: we’re talking about the folk-bluegrass group The Dead South. The ensemble, formed in 2012 in Regina, Saskatchewan, Canada, features Nathaniel Hilts (vocals, guitar and mandolin), Scott Pringle (vocals, guitar and mandolin), Danny Kenyon (cello and vocals) and Colton Crawford (banjo). They published their first studio album Good Company in 2014. At the moment, their discography counts three EPs – The Ocean Went Mad and We Were To Blame, published in 2013, Easy Listening for Jerks Pt. 1 and Easy Listening for Jerks Pt. 2, both published in 2022 – and three studio albums: Illusion and Doubt, published 2016 and Sugar & Joy, published in 2019, on top of their debut from 2014. They will play at Alcatraz in Milan on April 18th and we had the pleasure to interview them.

 

On a personal level, how did you cope with the past two years of pandemic? Did you notice any effect on the dynamics of the band, for example emotional distance or small frictions due to the frustration of being idle?

“I think we coped with the pandemic quite well. We all had some time to do our own thing for a little bit, which was a nice thing, at least for the first few months. We all had time to work on other personal projects, Scott had a baby. We spent lots of the down time practicing and recording our two new EP’s, so it wasn’t 18 months of being totally idle. Once we got back on the road, it felt like we had never stopped. We fell right back in to the groove pretty easily.”

 

Soon you will come and play in Italy: how do you feel about touring again? Do you like Italy? Do you think your music genre is more or less appreciated here rather than in other Countries?

“We’ve never been to Italy, so we’re super excited to finally play there! It’s always tough to say which countries appreciate our music more. People are people, and every country in the world is going to have people who enjoy our music and people who don’t. It will be very interesting to see how the Italian crowds compare to other crowds.”

 

One of your most famous songs is “In Hell I’ll Be in Good Company”: who do you see yourself with there, if you believe in Hell? How do you relate to religion and spirituality?

“None of us are religious guys, most of our lyrics are just stories, usually about villains instead of heroes. If there is a hell, I’m sure the four of us will be spending lots of time together there.”

 

Who are the artists that influenced you the most, both on a personal and musical level?

“When we started the band we listened to a lot of Trampled By Turtles, The Devil Makes Three, and Old Crow Medicine Show. Personally, I grew up listening to lots of metal, and that’s still what I listen to the most. Lamb of God, Trivium, The Black Dahlia Murder are probably my favourites. We all grew up on punk and classic rock as well, and I think those genes influence a lot of our songwriting.”

 

Which are the origins of the name “The Dead South”?

“We used to have a drummer in the band, and he came up with the name The Dead Souths. We didn’t like the plural Souths, so we dropped the “s” and became The Dead South. We had our first show booked and needed a name, so we went with that and it stuck. It seemed to fit the genre of music well, but if we had anticipated 10 years of “The Dead South?? But you’re from CANADA!!” jokes we might have reconsidered.”

 

Has success changed in any way your perception and vision of music? Have you experienced any change in the way you write and compose your music? If so, is it a good or a bad change?

“I don’t think it has, if anything it’s maybe a bit harder to come up with original ideas than when we first started playing, because we were all just learning our instruments and learning how to write songs. We never want to write two songs that sound the same, and we don’t want to change our instrumentation, so it’s more of a challenge to come up with unique songs than it used to be. Other than that, everything is exactly the same. We still just jam acoustic in someone’s basement, we have no fancy jam space or anything like that, and our “success” doesn’t really change anything. We still feel like we’re the same four dudes from Regina trying to write fun songs.”

 

Riccardo Rinaldini