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Tag: rock

La nuova vita del Rock made in Italy

Cinque band che provano come il rock italiano non sia morto, ma si nasconda solo molto bene

 

Nonostante non sia tanto popolare quanto quella indie o rap, la scena rock italiana è tutt’altro che silenziosa. Accanto a gruppi che calcano i palchi da anni come i Fast Animals and Slow Kids – reduci da un tour per promuovere il loro ultimo album Animali Notturni – i Ministri, i Fine Before You Came oppure gli Zen Circus, freschi di festeggiamento dei primi vent’anni di carriera tra la partecipazione all’ultimo festival di Sanremo con L’amore è una dittatura e varie tappe in festival estivi, esiste un mondo di band emergenti e che decisamente meriterebbero più visibilità. Complice anche la playlist su Spotify Pezzi che Bruciano realizzata dai membri de I Boschi Bruciano, che unisce brani di gruppi già affermati a novità più di nicchia, ecco qualche band a cui vale la pena dare un’occhiata. 

 

 

• Elephant Brain •

 

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Gli Elephant Brain nascono a Perugia nel 2015 e nonostante il nome possa trarre in inganno, scrivono e cantano in italiano. Nello stesso anno pubblicano anche il loro primo EP omonimo, contenente quattro canzoni dalle sonorità graffianti (loro stessi si definiscono nella bio di Instagram “amanti delle chitarre distorte”) e i cui testi spaziano tra cambiamenti, relazioni concluse e qualche rimpianto. L’estate scorsa suonarono in apertura agli Zen Circus ad Umbria che Spacca – festival musicale nella loro Perugia – e contemporaneamente è uscito il singolo Ci Ucciderà, un brano su tutti quei dolori che vale la pena raccontare e che funzionano come benzina per la musica, nonché apripista per il loro primo album, in arrivo quest’anno. 

 

 

• I Botanici •

 

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I Botanici sono un gruppo nato a Benevento nel 2015. Quando suonano dicono di fare “poche chiacchiere e tanto rumore” e nel loro primo album Solstizio si sente eccome: otto brani dai testi essenziali e diretti, con un grande spazio riservato alla parte strumentale, alla musica nuda e cruda, senza però togliere profondità ai loro pezzi, come si percepisce nei due singoli recenti Mattone e Nottata. Quest’ultima in particolare è una canzone che sa di confessione, esprimendo attraverso la musica quella paura di non realizzarsi e rimanere indietro rispetto agli altri – tanto in amore quanto nella carriera – che a volte non ci lascia dormire la notte. Menzione d’obbligo anche al videoclip della canzone, girato in una Napoli vivace e vissuta tra i locali dei vicoli, il lungomare e la metropolitana. Rilasciati rispettivamente a maggio e a giugno, Mattone e Nottata anticipano il loro secondo album in studio che uscirà col titolo di Solstizio per Garrincha Dischi.

 

 

• I Boschi Bruciano •

 

 

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Con I Boschi Bruciano ci spostiamo al nord e più precisamente a Cuneo, dove qualche anno fa iniziano la propria attività sotto il nome di Qwercia. Come Qwercia si fanno conoscere tra pezzi originali e aperture ai live di band già affermate come i Fine Before You Came e i Gazebo Penguins e nel giro di due anni ed un cambio di nome, hanno pubblicato tre singoli: Australia, Odio e Pretese. I temi portanti sono un mix di rabbia, paura e cambiamenti che forse arrivano o forse no, il tutto accompagnato da basi grintose e decisamente in linea coi testi. La band ha recentemente finito di registrare con l’etichetta sarda Bianca Dischi il suo primo album, la cui uscita è prevista ad ottobre.

 

 

• SAAM •

 

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“Tristi come un siciliano fuorisede al Nord”, così si definiscono i SAAM, giovane trio genovese, emocore sulla carta ma dalle sonorità così particolari da risultare difficili da inquadrare in uno schema preciso. Le cinque canzoni del loro EP d’esordio È facile consumarsi le unghie, uscito l’anno scorso con Pioggia Rossa Dischi, esprimono senza mezze misure una tristezza violenta, gridandola a squarciagola al microfono. Com’è naturale che sia, da lì partono per un anno intero a suonare su diversi palchi del nord Italia, tra cui anche quello della scorsa edizione del Goa Boa – festival genovese da sempre molto attento a promuovere e supportare la scena emergente locale – mentre a marzo aprono, sempre nella loro città, uno dei concerti di addio dei Cabrera, band che tra l’altro ricordano molto nello stile. 

 

 

• Cara Calma •

 

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A dispetto del nome, i Cara Calma hanno rabbia e grinta da vendere. Il gruppo nasce a Brescia nel 2016 e già conta due album all’attivo. Il primo, Sulle punte per sembrare grandi, ha tutte le carte in regola per diventare l’inno di una generazione a cui, crescendo, vengono pian piano meno tutte le sicurezze e alterna pezzi dall’animo profondamente rock ad altri più tranquilli – come Buoni Propositi – che esprimono quasi più rassegnazione che rabbia. Anche Souvenir, loro secondo lavoro in studio, continua su questa strada: 10 pezzi energici e a tratti violenti, che non si fanno problemi a gridare in faccia a chi ascolta di ansie, inadeguatezza e relazioni finite non troppo bene, sensazioni con cui tutti siamo familiari. Il disco, che vanta anche collaborazioni con Luca Romagnoli dei Management e Ivo Bucci dei Voina, è stato portato per tutta l’estate in giro per l’Italia, con una delle tappe finali al Filagosto Festival, in apertura ai Ministri.

 

Francesca Di Salvatore

 

 

Photo Credits:

Foto Copertina © Luca Ortolani

Elephant Brain © Leonardo Zen

Cara Calma © Valentina Cipriani

Bay Fest 2019 @ Bellaria – Igea Marina

 

C’era una volta la riviera romagnola la settimana di ferragosto. Le serate in discoteca, le feste nei chiringuitos in riva al mare e il Bay Fest. 

Tra il 12 e il 14 agosto, al Parco Pavese di Igea Marina é andata in scena la V edizione del festival punk rock più amato del nostro paese. La line up ricca, anzi ricchissima, é stata in grado di attirare persone da tutta Italia, anche se sarebbe più corretto dire da tutta Europa.

Varcata la soglia mi sono ritrovata in un marasma di individui completamente diversi tra loro (punk, alternativi, gente in kilt) ma che parlavano tutti la stessa lingua: la musica.

Tre giorni di concerti, uno dietro l’altro, un via vai continuo di performer che hanno riempito le nostre giornate tra un bicchiere di birra e l’altro.

Band italiane e eccellenze internazionali si sono alternate sul palco: nessun ritardo nella scaletta, le performance spaccavano il secondo. Ma andiamo con ordine.

 

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Primo giorno

Con quel misto di eccitazione e trepidazione che accompagna ogni nuova esperienza io e i miei compagni di avventure varchiamo la soglia del Parco. Sembra di essere stati catapultati in un altra dimensione: tutti sono felici e rilassati, pronti a godersi lo spettacolo che sta per incominciare.

Se i presenti sono stati relativamente calmi durante il concerto dei Masked Intruders con i Punkreas ho capito cosa mi sarei dovuta aspettare in quei tre giorni: il delirio.

L’eroe della giornata, per me, è stato Frank Turner che si è lanciato il una performance scatenata che è terminata con lui che ballava tra il pubblico.

Con i Nofx c’è stata una esplosione di grinta. Quando Fat Mike, in abito succinto rosso e capelli azzurri, si è presentato sul palco il pubblico é impazzito. Sotto il palco c’è stata una vera e propria tempesta di sabbia causata dal pogo sfrenato e senza sosta dei fan. C’erano i giovani e i meno giovani ma tutti erano animati dallo stesso fuoco e dalla stessa passione chiamata punk.

 

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Secondo giorno

Per me è stato il migliore di tutto il festival. 

Nonostante i Less Than Jake, i Good Riddance e i Pennywise abbiano fatto un grandissimo show e ci abbiano fatto cantare, ballare e pogare non possono reggere il confronto con i protagonisti indiscussi della giornata: gli Ska-p.

In un mondo dominato dal reggaeton ci pensano loro a ricordarci che la musica spagnola é molto di più. 

Non sono canzoncine che ti tengono compagnia durante le lezioni di zumba o gli aperitivi, gli Ska-p ci sbattono in faccia i loro ideali. La libertà, l’antifacismo, la critica alle tradizioni sbagliate e gli orrori delle istituzioni.

Non sono solo dei cantanti, sono dei veri e propri performer. Il loro non è un semplice concerto è un tripudio di suoni, colori e costumi. Il momento più alto e toccante del concerto si è avuto con Crimen Sollicitationis, la canzone che accusa il Vaticano per aver coperto i preti pedofili. Li, quando un paio di enormi ali nere si sono aperte per far librare in volo il prete corrotto, ho avuto i brividi. Anche il pogo, con gli Ska-p era diverso. Non era una battaglia all’ultimo sangue, é stata una danza. Un ballo tra migliaia di persone, unite dagli ideali di pace e antifascismo della band. Da El Gato Lopez fino al grido di Insistimos de El Vals De L’obrero non c’è stato un momento di pace. Ah, vi ho detto che in tutto questo il buon Pulpul ha cantato su una sedia a rotelle? Eroi.

 

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Terzo giorno

Ultimo giorno, stanchi e provati dal viaggio, dai concerti precedenti e dalle partite di beach volley arriviamo al parco Pavese. Non ho più voce, uno dei miei compagni di viaggio si è rotto il dito di un piede. Sembriamo reduci da qualche battaglia ma non basta certo così poco a fermarci. É la sera degli Offspring, uno dei miei gruppi preferiti. Gli Shandon ci danno la carica che ci serve per affrontare al meglio questa serata. Sangue e Lava dal vivo é da brividi. Il pomeriggio scorre tranquillo. I Dead Kennedys scaldano il palco in attesa degli headliner e si fanno amare. Il loro frontman é uno showman: balla e dialoga con il pubblico.

Poi è il loro turno, gli Offspring stanno per arrivare. Me la sento e decido di puntare alle transenne: sono una povera illusa. Quando i californiani salgono sul palco, e partono le prime note di Americana, il pubblico impazzisce e inizia a pogare senza sosta. E io sono lì, bloccata nel mezzo. Mi sono dovuta dare alla fuga prima della fine della canzone. Bilancio: un livido sulla schiena e moroso disperso. Non male.

Gli Offspring mi sono sembrati decisamente sottotono e fuori forma, per non parlare del fatto che Dexter non riesca più a raggiungere determinate tonalità. Tuttavia sono riusciti a farci cantare e ballare, come fanno da 20 anni a questa parte.

Questo è quello che è successo al Bay Fest. 

Una festa, in puro stile romagnolo dove la musica, il divertimento e la solidarietà sono al centro di tutto. 

Un luogo dove nascono amicizie e dove si fanno incontri inaspettati. Un evento in cui anche se vieni sorpreso da un temporale che ti lava da cima a fondo non ti importa perché l’importante è continuare a cantare.

C’era una volta, e per fortuna c’è ancora, il Bay Fest.

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Testo di Laura Losi

Foto di Luca Ortolani | Daniele Angeli (Offspring)

I NOP e la riscoperta del sano rock italiano

“Ciao mi chiamo Francesco sono il cantante dei NOP e questo è il nostro singolo…”

Ecco come ho conosciuto la musica di questi cinque ragazzi bolognesi che prima di essere una band sono soprattutto un gruppo di amici e sono Francesco Malferrari, Claudio Bizzarri, Gianluca Davoli, Marco Righi e Andrea Pirazzoli, ed ecco come ho scoperto il loro singolo Le strade di Bologna. 

Ricordo di aver pensato due cose dopo il primo ascolto… La prima è stata: “Che bravi!” e la seconda è stata: “Finalmente qualcosa di diverso”. Sì perché ascoltare qualcosa di diverso da quello a cui ci stiamo abituando è davvero cosa rara, così com’è raro trovare qualcuno che faccia musica nel vero senso della parola. Se Spotify avesse tra le sue play list una Scuola Rock e non solo una Scuola Indie, i NOP ne farebbero sicuramente parte.

Con loro è possibile staccarsi completamente dalla massa e da quell’ammasso (se così possiamo definirlo) di musica che sembra non avere neanche più un confine. Che fine ha fatto il vero pop, ma soprattutto che fine ha fatto il vero rock italiano? Mettendo da parte le domande sulla fine dei vari generi musicali, con quella creata da questi ragazzi è possibile ritrovare gran parte di ciò che sembra apparentemente perso. E’ possibile intravedere e  ritrovare quel confine che delinea ciò che fanno gli altri da ciò che fanno loro, ma soprattutto è possibile ricaricare le batterie e allo stesso tempo lasciarsi “coccolare” da testi che vanno a toccare corde profonde dell’anima, come il loro secondo singolo L’unico per te

Dopo anni di gavetta, prove e live, questi due singoli rappresentano solo l’inizio di una nuova storia tutta da scrivere che prenderà definitivamente forma con l’uscita del loro album di debutto, ma lasciamo che siano loro a raccontarci qualcosa in più…

Partiamo dal “punto zero” che comprende la scelta del vostro nome e della vostra formazione, siete stati immediatamente i NOP di nome e di fatto oppure c’erano in ballo altre opzioni? E chi sono i NOP prima di essere una band nella vita di tutti i giorni?

Noi eravamo NOP anche prima di essere NOP, anche se non lo sapevamo ancora! A parte gli scherzi siamo arrivati a questo nome dopo aver scartato, come da migliore tradizione, fantasiosi acronimi dei nostri nomi e cognomi o inglesismi legati ai nostri studi scientifico-chimici. Quando poi ci siamo resi conto che la N, la O e la P sono le lettere centrali dell’alfabeto, abbiamo capito di aver trovato il nome giusto. È solo guardando le cose dal centro, equidistanti dagli estremi, che si può̀ raccontare la totalità delle emozioni. E questo è ciò che cerchiamo di fare con la nostra musica, che rappresenta un pezzo importantissimo della nostra vita. Ovviamente ognuno di noi ha un lavoro che occupa la maggior parte delle ore del giorno: nel nostro “menù” abbiamo un proprietario di una palestra, un ingegnere elettronico e uno chimico, un sistemista e un comunicatore che lavora in ambito politico-amministrativo. Insomma, ce n’è per tutti i gusti

Nel panorama musicale attuale siete sicuramente una sorta di “voce fuori dal coro” per il vostro genere musicale che riporta un po’ a quel sano rock italiano attualmente quasi inesistente tra gli artisti e band emergenti, quali sono secondo voi i vantaggi e gli svantaggi sotto questo punto di vista?

Il primo e più grande vantaggio è sicuramente che riusciamo a suonare la musica che amiamo. Ciascuno di noi viene da culture musicali molto eterogenee, che vanno dal metal al cantautorato italiano, ma riusciamo nel nostro genere, come dicevi tu un po’ “fuori dal coro”, a fondere i diversi stili. Sicuramente il rock, nonostante stia un po’ riemergendo, non è il genere più in voga in questo momento. E sicuramente suonare un genere non “alla moda” rischia di tagliarti fuori da molte opportunità. Ma è altrettanto vero che, in un mondo di trap e indie, se senti un gruppo rock bravo vieni colpito e poni più attenzione nell’ascolto. Ma, ripeto, dietro alla nostra scelta non c’è alcun calcolo utilitaristico: semplicemente suoniamo il genere che amiamo. Il Rock, con la sua forza, pensiamo riesca a rappresentare al meglio le emozioni, sia quelle belle che quelle brutte. Quelle forti, che ti cambiano. Quelle genuine.

Dal primo singolo “Le strade di Bologna” al secondo “L’unico per te” c’è un’enorme differenza soprattutto per quanto riguarda i testi, chi è la penna del gruppo? Vi è capitato di scrivere qualcosa tutti insieme?

Inizialmente Frizz (il cantante), ma negli ultimi anni moltissimi brani sono nati anche dalla penna di Riguz (il bassista) e un paio anche dalla penna di Bizzo (il chitarrista). Poi quei brani, un po’ grezzi, arrivano in sala prove e insieme li stravolgiamo, li modelliamo e insieme li rendiamo nostri. Ogni volta ogni membro dei NOP riesce a mettere la propria cifra distintiva all’interno di un nuovo brano.

 

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Siete una band composta da 5 componenti e suppongo sia difficile mantenere un equilibrio e trovare sempre un punto d’incontro, chi di voi è il più bravo a scendere a compromessi e chi invece è quello che crea più “casini”?

Tu lo sai vero che questa domanda sta già provocando delle discussioni, vero? No, a parte gli scherzi la forza del nostro gruppo è che prima di essere una band siamo un gruppo di amici. Veri, senza infingimenti. E quindi quando ci sono dei momenti di discussione, ed è inutile negare che capiti, ci troviamo davanti ad un mc chicken o ad una birra e ne parliamo, da amici. E andiamo avanti più forti di prima. Ah, comunque il diplomatico della band è Frizz (il cantante), ça va sans dire e il più schietto Bizzo (il chitarrista).

Avete avuto modo di esibirvi nella vostra città (Bologna) in occasione del primo maggio, quali sono state le sensazioni pre e post live e qual è il palco sul quale un domani sognate di salire?

Un’emozione immensa. Davvero immensa. Lasciamo a voi immaginare cosa possa significare per 5 ragazzi di 28-30 anni che fanno musica, nati e cresciuti a Bologna (e follemente innamorati di questa città), suonare per ben due volte consecutive nel giro di due anni sul palco di Piazza Maggiore. Quando sali su quel palco vedi da un lato San Petronio in tutta la sua bellezza, dall’alto “al Zigànt” (la statua del Nettuno) e davanti a te la Piazza piena di gente. A quel punto sai che devi goderti quel momento fino all’ultimo istante. E dopo Piazza Maggiore ora bisogna puntare allo Stadio Dall’Ara. Tanto sognare è gratuito!

Avete annunciato l’uscita del vostro primo album, potete svelarci qualcosa in più? Sarà un giusto mix romanti-rock?

Sarà un album da vivere tutto di un fiato, dal primo al decimo brano. All’interno ci saranno canzoni per innamorarsi, per ridere, per saltare, per commuoversi e per emozionarsi. D’altronde non potrebbe essere altrimenti: contiene 8 anni della nostra vita artistica insieme. Ci stiamo lavorando notte e giorno e non vediamo l’ora di farlo ascoltare.

Fare musica per voi è…

Emozionare. Ma prima di tutto emozionarci. E capita magicamente ogni volta che Piraz batte i 4 con le bacchette e dà il via ad un live.

 

La verità è che i NOP ad un primo ascolto potrebbero ricordare sonorità familiari, dei chiari richiami a quel sano rock tutto italiano che purtroppo negli ultimi tempi sembra essersi quasi perso, ma poi arrivano loro a ricordarci cosa vuol dire mettere insieme chitarre e batterie e fare musica, ma farla davvero. Insomma potrebbero essere “paragonati” a diversi artisti dello stesso genere, in realtà ascoltandoli ci si rende conto che sono semplicemente loro.

Sono semplicemente i NOP.

Claudia Venuti

 

Eels: rock indietronico e musica per freaks

C’è qualcosa di unico in quello che una sola canzone può trasmetterti.

Uno stupido, apparentemente casuale susseguirsi di accordi, in fondo… eppure quando ascolto un qualsiasi brano degli Eels, succede qualcosa di inaspettato: se sono triste, mi ritrovo felice e se sono felice acquieto la mia euforia, diventando riflessiva.

Mr. Oliver Everett ha fatto questa magia, fin dall’inizio: scrivere canzoni tristi sulla felicità e canzoni felici sulla tristezza.

Ho conosciuto gli Eels a 17 anni grazie al mio fidanzatino dell’epoca. Soltanto in un periodo più maturo li ho realmente apprezzati, potendo dire ora che per me esiste una musica adatta ad ogni mio stato d’animo.

Mi spiego: gli accordi e la musica di Mr. E. si appoggiano senza peso su ogni mio tipo di emozione, rendono impalpabili i guai, mi permettono di riderci su, di alleggerire la pressione o di lasciar correre… E penso che ad avere questo effetto siano le origini, la scossa da cui nascono testi e melodie di Oliver Everett. 

“C’è qualcosa in fondo all’Io, che è fatto per non scomparire mai del tutto” dice Everett, conscio della sua continua forza per rialzarsi da ogni duro colpo infertogli dalla vita. 

L’ispirazione del cantante nasce dalla lotta che lui stesso ha dovuto intraprendere contro le perdite, i lutti familiari e lo sconforto di non essere sempre artisticamente compreso.

La sua esistenza è stata complicata fin da subito. Gli Everett non erano dei genitori tradizionali e avevano deciso di non dare alcuna regola ai propri figli, lasciando che fosse l’esperienza ad insegnare loro come cavarsela: “Ho dovuto imparare tutto nella maniera più difficile: andando per tentativi ed errori”. 

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Forse è per questo che nelle parole di ogni brano sono descritte tragedie raccontate in maniera semplice e diretta. Disarmante.

Scorrere fra le righe dei suoi testi sarà ancora più piacevole per il profondo messaggio di speranza da apprezzare, scrutando da vicino la tenacia che a lui stesso è servita per rialzarsi da ogni dura sfida.

Mentre scrivo, con accanto un bicchiere di birra, ascolto in sottofondo i testi politicamente scorretti, gli arpeggi e la voce roca di Mr. E.: un perfetto mix di rock, pop, beat indietronico, blues cantato da una voce polverosa, degna di un Tom Waits moderno. 

La musica degli Eels è malinconicamente acustica, un manifesto indie degli anni Novanta. E lo è davvero.

Come risposta alle migliaia richieste e proposte di offrire la loro musica a scopi pubblicitari, infatti, Mr. E. risponde:  “Dipende da quanto le tue canzoni significhino per te. Quando ho scritto Last Stop: This Town, non ho pensato ad un profumo, ma alla morte di mia sorella”.

É con questa dose di dignità e coraggio che Mr. E. ha subito messo tutti al proprio posto.

Gli Eels hanno sintetizzato, inoltre, quel suono a metà fra Beck ed Elliott Smith, diventato il loro marchio di fabbrica.

Non è musica che vuole seguire le mode del momento, ma nemmeno una musica “difficile”. Non ha pretese rivoluzionarie, ma è un easy listening dalla freschezza inconfondibile.

Mr. E. è un compulsivo della creazione. Ha sempre tentato, con infinita e ossessiva costanza, di superare sé stesso.

In fondo, è il minimo che ci si possa aspettare dal figlio di uno scienziato che ha dedicato la propria (breve) vita alla ricerca di una teoria sugli universi paralleli. “Mio padre era un genio, io sono solo un gran lavoratore”. 

Mr. E. è un compulsivo della composizione: ” È una tortura: certe sere me ne sto a casa a guardare un film e dopo dieci minuti sento che devo scrivere una canzone e se provo ad ignorarla il pensiero che magari quella canzone sia sfuggita per sempre mi fa diventare matto”. 

La risposta, in un’affermazione, a come gli Eels abbiano totalizzato la bellezza di dodici dischi dal 1996 ai giorni nostri.

Alcuni sicuramente vincenti, altri meno convincenti, ma sempre tutti di gran carattere. E talmente personali che, nel mercato, sono stati considerati dei mezzi flop. 

Ma i fan degli Eels, quelli che li seguono da sempre, li prendono quasi come materiale istruttivo, felici che siano l’anteprima di un nuovo eccentrico ed entusiasmante live tour.

Perché per Mr. E. un concerto non è quella sorta di mortificante “gretaest hits con applausi”, ma è un’occasione sempre nuova per ridipingere i propri brani, riarrangiando e riadattando una canzone di anni prima al presente.

Serio, ma spassosissimo dal vivo, Mr. E. crea delle vere e proprie atmosfere da garage, come se stesse suonando, come se stesse improvvisando per pochi amici. 

Insomma, che tu sia un inguaribile romantico, un cinico indefesso o un nerd in cerca di musica che non hai mai ascoltato prima, la musica degli Eels ti farà vivere la tua dimensione.

Struggente, cruda, pazza, disorientante, geniale, silenziosa o con urla da licantropo. Può farti sentire come ti pare. Non ha limiti, non ha confini. 

Foto e testo di Valentina Bellini

Tra maschere e sogni sull’Isola che Non C’è

•Peter Pan secondo Bennato•

 

“Seconda stella a destra, questo è il cammino. E poi dritto fino al mattino. Poi la strada, la trovi da te, porta all’isola che non c’è”.

Mi sembra quanto mai attuale, se pure utopico, parlare ancora oggi di sogni. Per tutta la vita ho sognato di aprire la finestra e volare via, moderna Peter Pan, verso l’Isola che non c’è.

Sarà stata la fiaba di James Matthew Barrie che mi ha influenzato, sarà stato il cartone animato Disney, sarà stata l’insofferenza verso le regole e le costrizioni, non saprei, ma una cosa non è mai cambiata: la colonna sonora.

Soltanto un cantautore italiano ha saputo trasformare in musica alcune delle più belle fiabe mai scritte: Edoardo Bennato, che ha dedicato molti dei suoi album ai personaggi più famosi di alcune opere di letteratura per l’infanzia, fra cui spiccano senza dubbio Pinocchio e Peter Pan.

L’isola che non c’è non è un luogo fisico, è un non-luogo. È una metafora, è un rifugio, è un’utopia politica: esiste per tutti un mondo ideale, che riflette i desideri più intimi, quasi sempre in contrapposizione con la vita che ci scorre addosso quotidianamente.

L’isola raccontata da Bennato è un luogo di pace e armonia, dove la criminalità è assente, così come l’ipocrisia. Un luogo, insomma, impossibile. Eppure, c’è.

Dal mio punto di vista, considerata anche la simbologia dell’isola, l’Isola che non c’è rappresenta un luogo di stasi, una pausa dalla vita di tutti i giorni, in cui il tempo si ferma.

Non deve essere necessariamente un posto reale, può anche essere un luogo mentale in cui ci si rintana dopo una brutta giornata. Per molti, l’Isola è una persona.

Comunque sia, è stato sulle note dell’armonica di Bennato che ho cominciato a sognare, perchè ascoltare una sua canzone è un po’ come ascoltare una favola.

Il Rock di Capitan Uncino invece mi ha sempre dato la carica giusta: mi ricorda l’estate dei miei undici anni, ed è a quel momento, senza dubbio, che risale la mia ferrea decisione di andare controcorrente.

Non sapevo nemmeno bene cosa volesse dire, ma non avevo dubbi: se non potevo diventare una piratessa, avrei per lo meno dovuto perseguire una vita all’insegna della ribellione.

Non so se sono sulla buona strada, ma devo a Bennato la voglia di provarci, senza sosta, ogni giorno.

Anche se “ti prendono in giro”, come canta Edoardo, tu continui a cercarla, ma l’importante è non darsi per vinti, perchè, prima o poi, l’Isola compare, come per magia. Chi rinuncia a cercare la propria oasi è davvero il più folle: cos’è una vita senza sogni?

Sarà forse infantile, ma amo ancora tantissimo le fiabe. Mi piace ascoltarle, amo immaginarne di nuove, mi diletto a raccontarle, quando ne ho occasione.

Raccontare una fiaba è una faccenda più seria di quanto sembri. Innanzi tutto, è rivolta ai bambini, e, si sa, i bambini non perdonano.

Non puoi dire “Vado di fretta”, “Finisco dopo”, “Cerca su Google”. No. Bisogna raccontarla tutta d’un fiato, dall’inizio alla fine. Almeno fino a che il pargolo non impara a leggerle da solo.

Per me, leggere è stata – ed è ancora – una scoperta, e uno dei primi libri che ricordo con immensa malinconia è proprio Peter Pan. Lo spiritello di Sir J.M. Barrie mi faceva arrabbiare tantissimo e allo stesso tempo lo invidiavo.

Passavo le serate pensando a come sarebbe stato volare, cosa avrei fatto io nell’Isola che Non C’è, come avrei sconfitto Capitan Uncino. Poi – purtroppo – sono cresciuta, e non ho più avuto accesso a quel magico mondo, per fortuna però, ho imparato molto altro.

Ho cominciato a chiedermi se Capitan Uncino fosse così malvagio per un motivo: magari era arrabbiato con Peter Pan. E magari aveva pure ragione, chissà.

Ragionando sul background del Capitano, ho pensato che in fondo è solo un uomo che si comporta come il suo personaggio richiede. Se andasse contro al sistema, cosa succederebbe? Si è mai visto un pirata buono? Del resto, si impara a scuola “a far la faccia dura/per fare più paura”, come canta la ciurma.

Andare contro al “sistema” non è una scelta semplice: secondo Pirandello, non ci libereremo mai delle maschere che ci vengono assegnate, nè di quelle che ci scegliamo autonomamente.

Forse Bennato ci vuole dimostrare qualcosa di simile raccontandoci la storia dal punto di vista dell’antagonista principale della fiaba originale: non esiste una realtà oggettiva, una giustezza univoca delle situazioni, la vita è vera a seconda di chi la guarda.

Sarebbe quindi importante ragionare sulle situazioni e gli eventi esaminandone le sfaccettature: non sempre chi sembra il cattivo lo è davvero.

Mi sono chiesta, infine, se fosse possibile (e giusto) rimanere bambini per sempre. È allettante, dopo tutto, una vita senza regole, senza responsabilità, senza confini. Ma è davvero questo che significa essere liberi?

Irene Lodi

Si scrive “pacca”, si legge Banana Joe: il post-grunge rinasce a Genova

Ci sono tanti modi di definire lo stile Banana Joe, ma quello che ormai li caratterizza di più sta, senza ombra di dubbio, in quattro precise lettere: P-A-C-C-A.

Per capire che cosa sia la pacca firmata BJ non è sufficiente ascoltare qualche loro brano in cuffia: bisogna gustarseli sotto il palco, accanto ad una cassa vibrante, nel bel mezzo del pogo.

Ecco che la pacca si manifesta in tutto il suo splendore, sferrandoti il suo schiaffo migliore e lasciando che le tue viscere si schiantino sopra quel muro del suono dal rumore pesante.

I Banana Joe non hanno quasi bisogno di presentazioni: noi di Vez ci siamo affezionati e tra non molto lo sarete anche voi.

In momento storico in cui la discografia sembra perdersi nei meandri dell’Indie e della Trap, c’è finalmente qualcuno che non perde occasione per infuocare le chitarre, rendendo giustizia ad un suono ormai distante dalle radio e dall’immaginario collettivo.

Tre, ma come se fossero 10: Andrea Gnisci (voce e basso), Fulvio Masini (chitarra) ed Emanuele Benenti (batteria), suonano insieme da diversi anni ormai portando in giro il loro stile che oscilla tra sonorità post-grunge e la musica psichedelica degli anni ‘60-’70.

Genovesi, giovani, gasati: le band che piacciono perché sanno come farsi piacere.

Lo scorso ottobre hanno lanciato il loro primo album Supervintage che hanno fatto conoscere su diversi palchi del Nord-Italia, un concentrato di pura energia rock che lascia ben sperare per i nuovi lavori in arrivo. Perché, sì, sono in arrivo nuovi brani: ora ne abbiamo la conferma.

Noi di Vez li abbiamo incontrati, intervistati e anche un po’ umiliati.

Qui l’intervista a cura di Giovanna Vittoria Ghiglione:

 

 

Gli HANA-BI ci presentano lo spleen rock partenopeo.

E’ già la seconda occasione in cui mi capita di farmi sorprendere dal sound e dalle proposte musicali di una band partenopea.

Si parla di rock.

La prima volta, solo poco tempo fa, sono rimasta folgorata dalla assatanata performance dei The Devils, un duo trash rock ‘n roll: un’immagine dura e selvaggia, nonché parecchio profana, come piace a me. Gruppo spalla dei Mudhoney al concerto di Bologna al Locomotiv Club.

Ora invece sono qui per parlarvi degli Hana -Bi, il cui leader, Johnny Darko, voce e chitarra del gruppo, non con poche difficoltà, ha portato finalmente alla produzione e diffusione su diverse piattaforme mediatiche dei primi brani della band. Band che conta altri due protagonisti: Luca Fumo, bassista e Alex Denial, batterista.

Dico, “non con poca difficoltà”, perché portare quello che loro stessi hanno coniato come spleen rock, un genere di rock psichedelico, che mischia grunge, atmosfere dark e malinconiche non è facile.

Soprattutto in Italia, e questo tutti lo sanno. Quello di cui ci parlano, spiegandoci cosa sia per loro il rock, lo fanno raccontandoci le loro origini e di come per loro la musica non si può tanto classificare in un genere, ma in una sensazione che deve arrivare a chi la ascolta.

 

Partiamo, innanzitutto, dal nome della vostra band: HANA-BI significa “fiori di fuoco” come suggerisce il film giapponese del 1997 o ha tutt’altre origini? Esatto, è una di quelle poche volte che indovinano subito le origini del nome della band! Sono un cinefilo e dovevamo scegliere il nome della band, io proposi fra vari nomi fra cui questo e piacque subito agli altri perché aveva un qualcosa di esotico, ma celava un significato più profondo, i 2 kanji rappresentano 2 cose opposte, Il fiore, fragile, delicato, bello e il fuoco, distruttivo e pericoloso. Questi 2 opposti rispecchiano la nostra musica che ha lati più calmi, riflessivi, “fragili” per poi sfociare in momenti più duri e rabbiosi. Insieme i due simboli stanno a significare  “Fuochi d’artifcio”, il logo che rappresenta questi due simboli opposti, che ho anche tatuato sulla schiena.
Siete un trio di Napoli, giusto? Come vi siete conosciuti e, soprattutto, avevate tutti e tre le stesse influenze musicali o, per iniziare a comporre, avete ognuno “portato dentro” le proprie?

Sì Napoli e zone limitrofe. La line up attuale è nata dopo più di un anno di fermo, nel 2017. Ero alla ricerca di un nuovo bassista e batterista e bazzicavo locali dove si fanno jam e si conoscono musicisti. Mi sono ritrovato più di una volta a suonare con Luca, il bassista, tant’è che un giorno decisi di presentarmi e chiedergli di suonare negli Hana Bi ma inizialmente non accettò subito; poi un giorno mi chiese per curiosità di ascoltare i miei brani e decise di entrare a farne parte. Il batterista, Alex, era una conoscenza di Luca con cui suonava già in un altro gruppo e lo convinse in breve a completare la formazione degli Hana Bi. Tutti e tre adoriamo il rock, ma abbiamo un background molto diverso: il batterista ha influenze jazz e prog rock; il bassista ascoltava molto Nirvana, Placebo, Cure (che sono gruppi che piacciono anche a me). Io ne ho altre ancora: sicuramente la new wave/post punk con i Joy Division in primis poi I Cure e tanta musica Goth, il post rock (amo i Sigur Ros), Smashing Pumpkins e tutto quel rock post-grunge anni della seconda metà dei 90 etichettato come alternative, che era difficilmente catalogabile; fra le mie preferenze musicali aggiungo anche lo shoegaze/dreampop, gli Slowdive su tutti. Quindi abbiamo influenze abbastanza diverse il che rende tutto più vario e con più sfumature.
 

 

Da quanto tempo esistono gli HANA-BI? Avete già prodotto o state per produrre qualcosa? Trovate che sia difficile introdurre nel nostro territorio un prodotto di rock psichedelico come il vostro?

Esistiamo dal 2014 ma sono stato fermo per due anni ad intervalli vari, ho sempre avuto problemi con membri che lasciavano il gruppo per motivi ahimè lavorativi; sono tutti pian piano emigrati e mi toccava sempre ripartire da zero, cercare nuovi membri fargli imparare il repertorio e così via. Le cose stanno andando bene da un paio di anni a questa parte e infatti abbiamo appena prodotto il primo EP: HANA BI presente su varie piattaforme quali Spotify, Itunes, Bandcamp,Soundcloud, YoutubeMusic ed è uscito il nostro primo singolo e video LABYRINTH. Sì è molto difficile far attecchire questo tipo di musica: in questi cinque anni in cui ho coltivato questo progetto, ho visto affermarsi varie “mode” e generi musicali, che ciclicamente si sono alternate nel tempo, ma mai un genere come il nostro, che chiamiamo “spleen rock“. Abbiamo voluto inventare noi questo termine per indicare il tipo di stato d’animo e mood in cui è avvolta la nostra musica: spleen inteso come malessere esistenziale, come disillusione. Al momento, nei locali soprattutto, si ascolta spesso musica minimale, acustica, folk, cantautorale, diciamo così… Un genere che non cede sulla scena musicale è anche il metal, il punk e in parte lo stoner: seppur di nicchia questi generi sono sopravvissuti ed hanno uno zoccolo abbastanza duro di seguaci, esiste un certo “movimento”, un circolo di sostenitori fra fan, etichette e organizzatori che mantengono la scena viva. Nel mezzo ci siamo noi ed altri come noi che fanno un qualcosa di diverso che non hanno già una scena, un background e devono crearseli. Siamo piccole isole che provano a galleggiare. Inoltre i locali che fanno un certo genere di musica alternativa stanno chiudendo qui dalle nostre parti e in questi anni ne ho visti sparire diversi. Farsi avanti in questo tipo si situazione diventa sempre più complicata, ma noi non molliamo! In maniera più ampia posso dire che l’ Italia è un paese che ha un certo gusto musicale, parlo di grossi numeri, per cui è difficile emergere se fai un certo tipo di musica, ma il mio fine, attualmente, è quello di creare una buona base, anche se di nicchia, e farlo approdare fuori da questo contesto, anche all’ estero.

 

hanabi 2

 

Ho ascoltato le vostre canzoni: alle mie orecchie è arrivato un sound bello convincente. Avete già riscontrato successo nei live e finora dove avete suonato oltre che Napoli e dintorni?

Ti ringrazio! Credo molto nel nostro sound, ci abbiamo lavorato per anni ma ho sempre avuto le idee abbastanza chiare su come dovevano suonare  soprattutto per quanto riguarda i suoni delle chitarre, ma in generale ho sempre avuto chiaro la direzione da prendere. Sì,  è un periodo in cui ci siamo accorti che le cose stanno cambiando, abbiamo fatto da poco un live per esempio, in provincia di Napoli, nemmeno in città, ed è stato un successo: il locale era pieno, Il che significa che pian piano ci stiamo facendo conoscere, ci accorgiamo che la gente ci segue e raccogliamo ogni volta nuovi fan,  che ci chiedono i nostri testi e cantano i nostri pezzi ai live, solo un sogno fino a qualche anno fa e mi emoziono ancora quando succede… I fan vogliono conoscere di più sulla band e ci stanno sostenendo nella promozione dell’ EP e video: non ci siamo affidati ad agenzie o altro, come sponsorizzazioni e promozioni a pagamento, ma sta funzionando tutto tramite passaparola ed è una bella soddisfazione, è un bel momento ma è comunque ancora in stato embrionale e per arrivarci abbiamo fatto anni di serate, in cui ad ascoltarci c’erano solo una manciata di persone ad orari assurdi. La classica gavetta, insomma, ma in fondo non ne siamo ancora usciti; comunque sia, questo per noi è un buon punto di partenza finalmente, è piccolo, certo, ma ce lo godiamo e penso che ce lo meritiamo. Abbiamo suonato a Roma, Potenza e in alcune zone sparse della nostra regione ma sempre a festival o rassegne varie, ancora dobbiamo fare un live nostro o comunque più sostanzioso, magari in apertura nomi un po’ più conosciuti: a riguardo, ci stiamo organizzando per la prossima stagione dove vogliamo promuovere il nostro EP in giro per l’Italia. Soprattutto speriamo di venire a suonare al nord, per ora ci stiamo scaldando qui in zona con un po’ di date, sarà una sfida ripartire da zero in posti dove non siamo ancora conosciuti, ma la cosa, non ci spaventa, anzi ci stimola. A breve suoneremo il nostro repertorio in versione semi acustica, quindi niente distorsioni e fuzz, sarà anche questa una sfida perchè dovremo riarrangiare i pezzi in chiave diversa… Staremo a vedere!

 

Ultima domanda per discostarsi dal biografico. Ci siamo conosciuti in fila ad un concerto degli Smashing Pumpkins a Bologna, non proprio dietro l’angolo per voi. Deve avere un forte ascendente su di te Mr. Corgan per averti fatto fare tutta quella strada: quanta influenza hanno i Smashing Pumpkins sulla vostra musica?

Posso dire che Corgan insieme a Robert Smith, è il mio artista preferito in assoluto, alcuni riconoscono in me il tipo di voce: in verità, non è intenzionale, cantavo così già da ragazzino prima ancora di conoscere gli Smashing Pumpkins. Quando li ascoltai infatti capii che erano il gruppo per me, perché per la prima volta sentii qualcuno che cantava in modo del tutto diverso dai cantanti sentiti fino a quel momento, qualcuno che non aveva paura di mostrare un lato delicato nel modo di cantare, cosa che già facevo io un po’ per indole un po’ per timidezza; alcuni amici sentendomi cantare mi dissero che ci somigliavo parecchio, ad ogni modo, di loro amo tutto, il suono delle chitarre, le melodie, la batteria… tutto. Su di noi musicalmente parlando penso abbiano influito sul sound, sull’uso del Big muff ed altri pedali che mi sono scelto nel corso degli anni e un certo modo di arpeggiare e posizioni strane sulla chitarra. Non ho studiato musica, non so che arpeggi faccio ma ho imparato da loro a tenere le posizioni più strane e inusuali per gli arpeggi che uso parecchio nei miei pezzi.

 

Valentina Bellini

Aerosmith, rollercoaster e l’urgente desiderio di parchi a tema musicale

Lo sguardo scettico e il ghigno beffardo, classici di chi ha la certezza di essere in procinto di vivere un’esperienza deludente, tragicomica e trash, si spengono inesorabilmente all’ingresso della struttura che contiene, espone ed insieme cela lo spettacolare Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith, periferica attrazione che fa sfoggio della sua strepitosa scenografia tanto al Disney’s Hollywood Studios di Bay Lake (in Florida), quanto al Walt Disney Studios di Disneyland Paris.

Abituati come siamo ai simulatori di Formula 1, l’iSpeed di Mirabilandia, a quelli di jet supersonico, l’ormai  antiquato Blue Tornado di Gardaland, e a cannoni capaci di lanciarci nel cuore di una battaglia spaziale contro l’Impero di Star Wars, la famosa Space Mountain anch’essa situata nel parco di Topolino della capitale francese, può involontariamente sorgere un sorriso carico d’ironia nel sentir parlare di un’attrazione che tira in ballo la band il cui frontman è l’istrionico Steven Tyler.

Se la musica è un fattore che può incrementare l’adrenalina, e lo fa alla grande, come diremo in seguito, la contestualizzazione di una rock band in un rollercoaster pare ardua, pretestuosa, azzardata.

Nulla di tutto ciò. Per accorgersi dell’errore, per pentirsi del pregiudizio, dicevamo, basta immergersi nel finto studio di registrazione che introduce all’attrazione vera e propria. Una cura del dettaglio made in Disney e una lunga serie di oggetti storici, quali chitarre e dischi firmati da artisti di tutto il globo, non solo distolgono l’attenzione dall’inevitabile fila che si crea sin dall’apertura del parco, ma aiutano il pubblico a calarsi nello scenario, nel mood, nel personaggio imposto dagli artisti ed ingegneri che hanno concepito il Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith.

Finalmente seduti e assicurati al proprio posto, non prima di aver ricevuto un saluto virtuale dalla band stessa, tramite un simpatico video proiettato all’interno di una sala di registrazione perfettamente riprodotta, si intuisce e si accetta l’efficacia e tutta la potenza di un concept nato ormai diversi anni fa, in Florida l’attrazione ha aperto i battenti addirittura nel 1999, inspiegabilmente non cavalcata o riciclata in nessun’altra forma, né contesto.

Ogni carrozza che compone il rollercoaster ha la sua personalissima colonna sonora, una o più tracce che vengono “pompate” dalle casse poste sopra la testa del passeggero. Si tratta, naturalmente, di hit degli Aerosmith, una sorta di medley in onore della loro carriera per intenderci, con testi opportunamente e scherzosamente riadattati per l’occasione. Un esempio? Love in Elevator diventa Love in a rollercoaster.

Non è l’unico elemento musicale dell’attrazione, visto che l’intera esperienza è modellata attorno all’illusione di vivere, in prima persona, le emozioni e le sensazioni di una vera rockstar alle prese con un concerto live. Non appena il countdown raggiunge lo zero, si viene proiettati in un tunnel che avvolge il passeggero con luci abbaglianti. Non fosse per il giro della morte che segue immediatamente dopo, non fosse per l’adrenalinica velocità e spinta con cui si attraversa il passaggio, si potrebbe davvero giurare di aver percorso a perdifiato la scaletta che collega le quinte al palco vero e proprio, un palco che, per l’occasione, si attraversa tutto d’un fiato, da parte a parte, tra avvitamenti, paraboliche e scintillanti giochi di luce.

Complice l’oscurità, che avvolge il resto dell’edificio entro cui è contenuto il rollecoaster, fari e musica, che avviluppano il partecipante alla lisergica festa su binari, incrementano il divertimento, l’euforia, il desiderio di averne ancora e ancora.

Scesi dalla giostra e recuperata la capacità di pronunciare parole di senso compiuto, è inevitabile chiedersi come mai Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith rappresenti un caso praticamente unico nel suo genere, piuttosto che una consuetudine da declinare in decine di modi diversi.

Una casa stregata a tema Iron Maiden? Sarebbe un’idea semplicemente pazzesca. Un cinema 4D in compagnia degli assoli esaltanti dei Dragon Force? Non vediamo già l’ora. Una torre a caduta libera a ritmo con le hit dei Queen? Probabilmente sarebbe troppo, ma saremmo ugualmente curiosi di vederla in azione.

Musica, performer affermati e attrazioni è un connubio che funziona alla grande. Lo stesso Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith ci ha fornito la controprova, quando abbiamo deciso di concederci l’ennesima cavalcata e, per un problema di natura tecnica, la musica di sottofondo era disattivata. Le sole luci, il semplice percorso confezionato dagli ingegneri, non bastava, non era più sufficiente per l’estasi, l’esaltazione, l’apoteosi.

Il ghigno beffardo con cui mi sono avvicinato per la prima volta all’attrazione di Disneyland Paris, qualche settimana fa, al termine del percorso si è tramutato in un sorriso d’ebete stupore. Sì, perché adesso pretendo un parco a tema musicale quanto prima.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

L’arte “perfettamente inutile” dei Pixel, la band spezzina tra Indie Rock e New Wave

Si chiamano Pixel, ma se pensate all’informatica siete completamente fuori strada.

Il gruppo spezzino tra Indie Rock e New Wave, per autodefinirsi, infatti, ha preso in prestito una canzone dei Verdena, ma con l’aggiunta dell’articolo.

Nati nel 2013, lo scorso 2018 hanno lanciato il loro primo LP intitolato “Perfettamente Inutile”. Un titolo – si potrebbe pensare – che si presta a giochi di parole e possibili strategie marketing, ma che invece – molto semplicemente – punta il dito al romanzo Il ritratto di Dorian Gray e la sua definizione di arte.

Ogni artista – dicono – quando crea, deve farlo in modo perfetto, al meglio delle sue possibilità; ma al tempo stesso deve rendersi conto che tutto quello che sta facendo potrebbe essere, per certi versi, inutile: se a quel punto vuole comunque continuare a creare, per il puro gusto di farlo e per esprimere veramente se stesso, allora sta creando arte”.

Una definizione che i ragazzi, fin da subito, si sono sentiti tatuati addosso come una seconda pelle e che hanno deciso di traslare sul loro modo di concepire e fare musica.

E che dire sul loro repertorio? Un vasto background che fa capo a diversi generi a cui la band fa inevitabilmente riferimento. Gusti personali, spunti, nuove tendenze e reminiscenze del passato: I Pixel sono curiosi, amano ficcare il naso ovunque e prendere ispirazione da elementi differenti.

Ma poi, quando arriva il momento di creare, fanno sul serio.

Da quei suggerimenti che la musica riesce a dare – in tutte le sue forme, dimensioni e generi – la band riesce sempre a trarre le sfumature necessarie a rendere la propria musica ricca e maledettamente attraente, pur mantenendo il proprio stile.

Conosciamoli un po’ meglio.

 

 Ciao Pixel! Chi siete? Raccontateci un po’ di voi!

Ciao Vez! Come data di formazione del gruppo ci riferiamo sempre al giorno in cui si sono svolte le prime prove con la nostra formazione iniziale, ovvero il 6 dicembre 2013. Andrea e Alex sono i componenti da cui è nata l’idea di creare questo progetto. Nicola è entrato a far parte della band in un secondo momento: ci aveva sentiti al concerto di presentazione di Niente e Subito ed era venuto a dirci che gli sarebbe piaciuto suonare con noi, quando poi c’è stata la necessità di trovare un nuovo bassista, abbiamo saputo subito a chi chiedere! Marco suona con noi dal 2017, da dopo le registrazioni di Perfettamente Inutile. Lo abbiamo contattato su consiglio del suo insegnante, alla prima prova sapeva già suonare alcune nostre canzoni alla perfezione e ci ha subito gasati.

Come luogo che ha avuto un’importanza fondamentale per noi, ti diciamo la cameretta di Alex, dove Andrea ha suonato per la prima volta una chitarra elettrica. Da lì è nata questa passione, iniziata col riff di Where Is My Mind dei Pixies suonato all’infinito nella sala musicale del nostro liceo, insieme ad altri ragazzi. Epica la frase “Brise, smettila con quella sirena dell’ambulanza!” urlata dal metallaro di turno.

 

Perché “I Pixel”? Siete un po’ nerd dentro? Da cosa nasce questo nome?

No, no, il nome non ha niente a che fare con l’informatica! Durante i primi tempi di attività del gruppo abbiamo proposto diversi nomi prima di arrivare a quello definitivo. Per un certo periodo eravamo propensi per “Astoria”, da un famoso teatro londinese (ora demolito) che avevamo conosciuto tramite il video di un concerto degli Arctic Monkeys, mentre il nostro primo concerto lo abbiamo fatto suonando con un nome proposto dal nostro bassista iniziale 5 minuti prima di salire sul palco: Eleanor, per la canzone dei Beatles, Eleanor Rigby… Ricordo che lo avevamo annunciato sul palco senza troppo entusiasmo. Il nome definitivo è poi arrivato su proposta del primo batterista e deriva da una canzone dei Verdena. Ci piace semplicemente come suona e il connubio che forma con l’articolo rispetta perfettamente il fatto che abbiamo sonorità internazionali, ma cantiamo in Italiano.

 

Parlatemi del vostro genere: a chi vi ispirate e come nasce la vostra musica?

Ognuno di noi ascolta generi più o meno disparati, ma nel momento in cui componiamo le canzoni che costituiscono il nostro repertorio cerchiamo di mettere d’accordo le nostre influenze, di farle sfociare in quello che poi è diventato il nostro sound, che credo sia piuttosto riconoscibile.

Alex è più indirizzato sull’Indie, ma in quanto pianista ascolta spesso anche musica classica; Marco è più improntato sul Punk e sul Britpop, mentre Nicola ascolta davvero un po’ di tutto: gli piacciono molto gruppi tecnici come i Tool, influenza riscontrabile nei suoi giri di basso. La nostra musica rispecchia soprattutto i gusti musicali di Andrea, in quanto è lui a elaborare e strutturare le idee che ogni componente porta in sala prove. I suoi ascolti spaziano molto tra l’Indie Rock, la New Wave e diversi artisti italiani. Ascolta davvero un po’ di tutto, l’importante è che ci siano bei testi e intrecci strumentali che ti smuovano qualcosa dentro. Il nostro ultimo pezzo, per esempio, è stato influenzato dai Blur, quello prima ancora da un brano dei Wire, ma non è detto che queste influenze siano riconoscibili quando ascolti le canzoni in questione (che saranno nel prossimo album).

 

Nel 2016 avete realizzato il vostro secondo EP con il quale avete intrapreso il vostro primo tour: che esperienza è stata e quali difficoltà avete incontrato? Avete qualche aneddoto simpatico da raccontarci?

Mondo Vuoto è il disco che ci ha permesso finalmente di uscire a suonare anche fuori dalla nostra Liguria. Lo abbiamo portato in diverse regioni e locali, tra cui l’Hard Rock di Firenze e il Samo di Torino, ed è stato bello vedere per la prima volta la reazione di gente con cui non hai mai parlato in vita tua che ballava e si muoveva sulla nostra musica. Ti fa capire che magari i tuoi amici che ti dicono “Questo pezzo ci sta” forse non lo fanno solo per metterti a tuo agio. Aneddoti simpatici? Così su due piedi, ti diremmo una cena offerta da un locale in cui siamo stati a suonare, di cui non faremo il nome, a base di patate lesse e fagioli. Tre di noi praticamente quella sera non hanno cenato, mentre Alex continua tuttora a dire che è stata una delle cene più buone che aveva fatto in quel periodo. Da lì in poi, ci siamo sempre fatti delle domande sulle papille gustative di Alex.

 

Il 5 marzo scorso è uscito il vostro primo LP “Perfettamente Inutile” per La Clinica Dischi: raccontateci qualcosa di questo disco.

Se pensiamo alla genesi di Perfettamente Inutile, ci viene in mente prima di tutto un periodo molto prolifico. L’EP precedente era uscito a dicembre 2016 e l’estate dopo eravamo già in studio a registrare le 9 canzoni che poi sono andate a far parte del nuovo disco. Andrea allora studiava ancora a Firenze, e ogni settimana entrava in sala prove con un’idea su cui poi lavoravamo tutti insieme, eravamo particolarmente ispirati anche se, pensandoci, anche ora siamo in un bel periodo da questo punto di vista. L’idea e il concept del disco sono totalmente racchiusi nel titolo: dopo aver letto Il ritratto di Dorian Gray, Andrea è rimasto colpito dalla frase contenuta nella prefazione “Tutta l’arte è perfettamente inutile” o qualcosa del genere, e ha deciso di usare questa parte come titolo dell’album collegandola al modo in cui noi Pixel concepiamo la musica. Ogni artista, quando crea, deve farlo in modo perfetto, al meglio delle sue possibilità; ma al tempo stesso deve rendersi conto che tutto quello che sta facendo potrebbe essere, per certi versi, inutile: se a quel punto vuole comunque continuare a creare, per il puro gusto di farlo e per esprimere veramente se stesso, allora sta creando arte.

 

Quanto della vostra terra c’è nella vostra musica?

Tutti e quattro viviamo e siamo nati in provincia di Spezia (tranne Nicola, che è nato in Emilia-Romagna) e siamo tutti molto legati alla nostra terra. Andrea e Nicola abitano a Santo Stefano di Magra, un piccolo paese di provincia dove abbiamo anche la sala prove, Alex abita proprio in città mentre Marco vive nelle Cinque Terre, a Riomaggiore. L’unico che non vive fisso qui è Andrea, che ha studiato prima a Firenze e ora a Milano, ma torna ogni fine settimana nella madre patria. Tuttavia, nella nostra musica non ci sono riferimenti espliciti a Spezia o alla Liguria in generale, ma sicuramente il posto in cui vivi influenza, in modo o diretto o indiretto, il tuo pensiero e quindi le cose che scrivi quando componi. Quindi si potrebbe dire che almeno a livello inconscio, la nostra musica è influenzata dal nostro essere spezzini. Belina!

 

Quali sono i vostri progetti futuri?

Siamo a buon punto con la composizione di nuove canzoni e abbiamo in mente di pubblicare un nuovo album. Quest’estate entreremo in studio per registrare il nuovo materiale che avremo composto fino a quel punto e a momento debito lo pubblicheremo. Nei nuovi brani, stiamo mantenendo una linea col nostro stile, ma al tempo stesso stiamo introducendo molte idee che fino a ora non avevamo preso in considerazione in fase di composizione. Siamo molto contenti di quello che sta venendo fuori e delle demo che stiamo realizzando, noi stessi non vediamo l’ora di ascoltare il lavoro finito.

 

Formazione

Andrea Briselli (voce e chitarra)

Alex Ferri (chitarra e tastiera)

Nicola Giannarelli (basso)

Marco Curti (batteria)

 

Singoli estratti da Perfettamente Inutile.

I Sogni degli Altrihttps://www.youtube.com/watch?v=62FGRgWzi94

Carosellohttps://www.youtube.com/watch?v=CXGFUzZdrNM

 

Giovanna Vittoria Ghiglione

 

Il mare di emozioni dei SEAWARD.

Float è il nuovo album dei Seaward, che segna il loro debutto con Platonica.

Il duo, composto da Francesco e Giulia, con questo album ci aiuta a immergerci in una serie di atmosfere che spaziano dal pop, al soul, all’r’n’b per arrivare fino all’elettronica.

La parola immergere non è stata usata a caso perché sia Float ( che letteralmente vorrebbe dire galleggiare) che il nome stesso della band richiamano alla mente il mare.

Non penso che si tratti di una scelta casuale perché le sensazioni che si provano ascoltando questo cd potrebbero essere paragonate a quelle che si hanno perdendosi a guardare il mare al tramonto.

Spaziando e contaminando tra loro generi diversi, il gruppo riesce a suscitare un mix di sensazioni differenti nell’ascoltatore, che ha il suo faro nella voce dolce di Giulia, che non lo abbandona mai.

Si passa da canzoni più ritmate, come Ending Fire, a brani più lenti, come Waves, che ci cullano nel mondo suoni dei Seaward.

Un album intenso, profondo che ricorda appunto i suoni del mare. Come quando da piccoli appoggiavamo una conchiglia all’orecchio per farci dondolare dal rumore delle onde.

 

Laura Losi

 

 

FLOAT

TRACKLIST & CREDITS
1. Fools / 2. Driving / 3. Second Part / 4. Walls / 5. 17 Beauty / 6. Feel / 7. Waves / 8. Hometown / 9. Ending Fire / 10.Not Afraid To Die Alone

Prodotto da Zibba.

Registrato al Bombastic Recording Studio di Imperia. Mixato da Simone Sproccati al Crono Sound Factory di Vimodrone (MI). Masterizzato da Andrea “Bernie” De Bernardi (Eleven Mastering Studio)

Testi di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba. Musica di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba.

Label: Platonica
Edizioni: Warner Chappell Music Italiana / Platonica
Distribuito da Believe Digital

Produttore esecutivo: Materiali Musicali, con il sostegno di MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa SIllumina.

I LOREN e l’esordio con l’album omonimo. E con il cuore.

Il 14 dicembre è una data importante per i Loren dal momento che uscirà il loro album omonimo.

La giovane band è composta da cinque ragazzi tutti fiorentini e il legame con la loro città d’origine è forte in molti dei loro testi.

Un nuovo gruppo che arricchisce la famiglia indie-rock di Garrincha dischi.

Melodie orecchiabili che di primo acchito ti fanno venire voglia di ballare ma che ad un secondo ascolto, più profondo e più attento, ti portano a concentrarti sui testi.

Perché le loro melodie fanno quasi passare le parole in secondo piano ma, credetemi, perdersi il senso di questi testi
sarebbe un vero peccato.

Suoni ottimisti e allegri che vanno di pari passo con parole ricche di speranza che strizzano l’occhio ad un futuro radioso.

Ottimismo, secondo me, è la parola chiave per decodificare tutto il disco.

Ci salveremo tutti è la traccia numero uno. Già dal titolo capiamo qual è la visione della vita dei Loren: non c’è spazio per la sconfitta o la tristezza.

Le cose del passato si incontrano con quello che il futuro ha in serbo per noi. L’unione tra il passato e il futuro è la chiave verso la salvezza; è così che una cicatrice si trasforma in un tatuaggio.

Un album eclettico ricco di riferimenti ad artisti italiani e internazionali: i Loren hanno un background di tutto rispetto che va da Cremonini ad artisti internazionali come i The killers.

Dieci tracce che ci accompagnano in un viaggio musicale: passiamo da ballate, come Blister, a canzoni dal piglio più rock, Psicosi e Tutti fermi, o ancora a brani che se chiudi gli occhi ti fanno venire in mente l’estate, Roland Garros.

Menzione d’onore, a Giganti, la canzone che mi ha toccato di più di tutto l’album. Una celebrazione del passato e della fiorentinità. Ma sopratutto una celebrazione dei momenti di vita vissuta; perché oggi, abituati come siamo a passare il nostro tempo al telefono rischiamo di perderci i momenti importanti.

Questi cinque fiorentini sono da tenere d’occhio perché hanno tanto da regalare. E non escludo che riusciranno a fare come il loro idolo Batistuta: a zittire uno stadio, ma con il suono della loro musica.

E’ quello che gli auguro.

 

Laura Losi

Genova e la musica: un pomeriggio con i Banana Joe

Il 13 dicembre prossimo al Mikasa di Bologna, suoneranno per la prima volta i Banana Joe, band tutta genovese fresca di secondo posto al Rock Contest 2018.

Noi di VEZ abbiamo già conosciuto i ragazzi e ne abbiamo anche recensito l’album Supervintage (uscito il 26 ottobre, Pioggia Rossa Dischi, ndr), un freschissimo primo lavoro che travolge e talvolta, commuove, per quel sound grunge anni ’90 che, shakerato, non mescolato, fa breccia nel cuore di noi amanti del moderno/passato e della psichedelia dei fantastici sixties.

E poi li abbiamo conosciuti durante il Concerto per Genova quando ci hanno accolto sorridenti a concerto ultimato. Disponibili e gentili, con quell’attitude seria ma rilassata di chi ama seriamente il proprio lavoro e lo fa con passione, ci hanno salutato con la promessa di rivederci presto.

Oggi abbiamo intervistato Andrea, frontman e voce del gruppo.

 

Andrea, una domanda al volo, su due piedi: ma quanti anni avete? Siete davvero giovanissimi!

Beh, io di anni ne ho 25, Emanuele ne ha 30. In verità chi abbassa la media è Fulvio, il nostro chitarrista: ne ha 24.

 

E come vi siete conosciuti?

Fulvio e io ci siamo conosciuti ad una grigliata estiva sulle rive del Varenna a San Carlo di Cese (dei nostri amici ci hanno addirittura scritto sopra una canzone). Una festa dove si è mangiato tanto e si è anche bevuto, diciamo (ride). Abbiamo iniziato a jammare con batteria e chitarra e abbiamo capito che in qualche modo sarebbe stato bello poter lavorare assieme.

Era però il caso di trovare un vero batterista, perché appunto Fulvio suona la chitarra. Abbiamo invitato Lele, che già conoscevamo, al nostro primo live quando abbiamo aperto la data dei Combine, gruppo tedesco di origine iraniana.

E così siamo riusciti ad avere il nostro batterista, mentre prima c’erano solo turnisti.

 

Chi scrive la musica e i testi?

Ogni pezzo ha una scrittura a sé. Talvolta sono io che scrivo la musica e Fulvio magari scrive i testi. Oppure Lele il testo e Fulvio la musica. Oppure è un lavoro fatto assieme, in contemporanea. In realtà è molto difficile capire chi ha scritto cosa.

La risposta giusta sarebbe: “Musica e testi li scrivono i Banana Joe. Assieme”

 

E i Banana Joe, hanno un luogo del cuore, un luogo che amano e dal quale sono ispirati?

Ah per prima cosa i vicoli di Genova. Tutti i vicoletti di Genova.

Girando la movida genovese siamo sempre lì, tra i suoi caruggi e sicuramente questi hanno avuto una grande importanza nella scrittura dei pezzi e dei testi.

La periferia poi riveste per noi un ruolo davvero basilare. Genova Bolzaneto e Genova Sampierdarena sono due quartieri che siamo soliti frequentare poiché il primo è dove abbiamo il nostro studio di registrazione e poi in entrambi ci sono dei piccoli bar che somigliano tanto a quei baretti di periferia che amiamo tanto.

Una menzione in particolare va anche ai Giardini di Plastica, che in realtà si chiamerebbero Giardini Baltimora.

È uno spazio che dà il nome ad un pezzo che andrà nel nostro prossimo album ed è una zona che ci è rimasta molto impressa. Quando eravamo piccoli era uno spazio degradato anche se in realtà era nato come luogo per far giocare i bambini.

Sai quei parchetti dove le famiglie alla domenica portano i bambini a giocare, e dove appunto ci sono tutti questi giochi in plastica? Ora è in riqualificazione.

 

Noi ci siamo incontrati al Concerto per Genova, esperienza che per me da emiliano-romagnola è stata molto toccante. Come l’avete vissuta questa tragedia da “errore umano” e con che spirito avete partecipato al concerto?

Abito vicino a dove è successo il crollo del ponte (Ponte Morandi, ndr). Ero fuori a fare la spesa, pioveva a dirotto e ho sentito un boato. In quel momento pensi a tutto ma sicuramente non ad una cosa come questa.

All’inizio infatti non ci credevo. Mi sembrava una cosa impossibile. Per andare alle prove ci passavamo sotto ogni giorno. Lele infatti era a 300 metri dal luogo del crollo.

Ogni volga che passiamo di là, perché ora hanno aperto nuovamente la strada, viene un po’ di magone perché non sembra vero. Non vedere più quel ponte è una cosa sulla quale non fai mai l’abitudine.

Suonare a questo evento è stato bello, poiché Genova è una città attiva, ma solo in determinate situazioni. A livello culturale sembra molto provinciale, e questo anche per quanto riguarda la musica e i locali. Sembra quasi chiusa.

In questa circostanza invece abbiamo notato che le persone si sono attivate per far capire che la popolazione c’è. E così ci si rialza dal basso, e si va avanti.

 

Ma parliamo del Rock Contest 2018. Un bel secondo posto….

Sì, bellissimo. Il Rock Contest io l’ho conosciuto tramite il cantante del gruppo Lo straniero, gruppo piemontese di La Tempesta Dischi. È un contest molto ben organizzato e con un livello molto alto delle band in gara.

I live sono gestiti nel migliore dei modi e mi è stato riferito che molte band vogliono partecipare. Delle circa 800 domande pervenute, solo una trentina sono state selezionate.

La finale è stata bellissima e in giuria giudici del calibro di Maria Antonietta e de I Ministri. Presenti anche etichette come Woodworm. Una gran bella vetrina per noi genovesi competitivi e anche se avremmo desiderato il primo posto, siamo davvero orgogliosi.

E scherzi a parte, fosse stato per me avrei fatto vincere tutti. Ottimo livello e ottimi compagni di avventura.

 

Qual è il vostro rapporto con la stampa e più in generale con tutti i media?

Se non ci fosse la stampa non si conoscerebbe la musica.

Noi con i giornalisti ci siamo sempre trovati bene ed è veramente piacevole sapere che ci sono persone interessate a te e che vogliono conoscere la tua storia.

L’informazione in Italia rispetto agli altri paesi è comunque ad un livello piuttosto basso. E per questo va protetta e incentivata, non di certo fermata.

 

Ultimissima domanda, qual è la cosa che amate di più fare quando non vi occupate di musica?

A me piace tanto il cinema, Fulvio si dedica alla cucina perché è un cuoco provetto e di Lele posso dirti che ama tantissimo fare il papà. Ha un figlioletto di 6 anni e quando ne ha tempo, anche lui ama andare al cinema come me.

Una cosa che invece ci lega come gruppo, togliendo appunto la musica, è il fatto che siamo dei cazzoni! No seriamente, le nostre prove in studio sembrano puntate di Zelig. Lavoriamo con impegno e serietà, ma l’umorismo è uno dei nostri collanti principali.

 

7b

Banana Joe & Me, Concerto per Genova, 17 novembre 2018

 

Grazie mille Andrea e grazie ai Banana Joe.

Ci vediamo il 13 al Mikasa di Bologna.

E lì, ci andremo a bere una birra.

 

Sara Alice Ceccarelli

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