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Tag: self released

Quiet Is the New Loud “Hidden Code” (Self Released, 2020)

Dieci tracce, sessanta minuti e un’unica storia che si srotola nell’arco di 46 anni, dal 1945 al 1991, ma è la parte centrale, ambientata nella San Francisco degli anni ’60 ad esserne il cuore pulsante. Così si presenta Hidden Code, il primo album della band triestina post-rock Quiet Is the New Loud. 

Un progetto rock strumentale decisamente interessante e fuori dagli schemi della discografia contemporanea, dove il singolo rapido tende a vincere sul disco e i concept album, che richiedono una certa attenzione e lentezza, sono sempre più rari. Al contrario, qui non c’è solo una storia da seguire – un vero e proprio noir che ruota attorno a quei cardini della vita che sono amore e morte – ma si potrebbe dire addirittura da ricostruire. L’ascoltatore deve così rimettere insieme i pezzi, prestando soprattutto attenzione ai numerosi salti temporali, e in questo modo diventa una parte attiva dell’album. Certo, nulla vieta di ascoltare Hidden Code come un semplice disco di rock strumentale, per rilassarsi o per caricarsi a seconda dei vostri gusti, ma così si rimarrebbe solo sulla superficie di questo lavoro. 

Ogni canzone infatti è collegata ad un pezzo del noir e queste didascalie sono leggibili sia sul sito Bandcamp sia presenti fisicamente nel packaging dell’album, che diventa quindi fondamentale per comprendere appieno la narrazione dietro a questo lavoro. O forse dietro non è la parola più esatta, dato che storia e musica si compenetrano, sono indissolubili e inscindibili l’una dall’altra: una vera e propria soundtrack che scandisce i vari avvenimenti nella vita dei due protagonisti. 

Ed è una soundtrack decisamente rock, che alterna momenti di quiete come l’inizio di Mistakes, Lights and Breaths ad altri che sono vere e proprie esplosioni di suoni, come il finale di Like A Daydream or a Fever, o ancora quel climax musicale che è Nemesys, che rappresenta un po’ un punto di svolta per il che questa band triestina ha voluto raccontare. 

Tensione, angoscia, amore, desiderio di vendetta: tutte queste sensazioni viaggiano, senza quasi mai proferire parola, tra chitarra, basso e batteria. Però, ad un ascolto più attento, prendono forma e diventano visibili come una fotografia, seppur mentale. Hidden Code si potrebbe così definire un album sinestetico, dove la musica non si esprime mai attraverso le parole, ma solo tramite i suoni e anche – o forse soprattutto – per immagini. 

Un lavoro difficile da realizzare, ma decisamente ben riuscito. 

 

Quiet is the new Loud

Hidden Code

Self released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Naftalina “La Fine” (Self Released, 2020)

1999 – 2020 Odissea nel Pop Punk

 

Erano altri tempi. 

Quando prendevi il telecomando e bastava comporre dei numeri sulla tastiera per venir catapultata in un altro mondo. Avendo cugini più grandi (che ringrazio di cuore), il nostro canale preferito era MTV. Non quello che guardate ora. Era tutto diverso. A rotazione, carrellate di videoclip, programmi, live, una meraviglia. Poi il declino. Ma questa è un’altra storia.

Girava un post punk revival melodico, i Green Day, Sum 41, Blink 182, i Fall Out Boy e Jimmy Eat World, erano il nostro pane quotidiano. La sera tardi in programmazione potevi trovare roba più “acida” o “strana” , e noi italiani andavamo forte. Verdena,  Punkreas, Prozac+, Derozer, Porno Riviste e i Succo Marcio. Spaccavamo le classifiche. 

Anche in Italia era arrivato il contagio del pop punk, e per fortuna.

Mi ricordo, però, in particolare di una band, che adoravo, i Naftalina. Erano due ragazzi e una ragazza poco più grandi di me. Li passavano in radio, in tv. Io guardavo la ragazza, Klari (basso e voce) e sognavo di diventare così da grande. Il loro primo album Non Salti Come Me fu un vero successo. Balzarono subito nelle classifiche con il singolo Se, tra tour e ospitate in TV passò un anno, al termine del quale iniziarono a registrare il nuovo album, considerato troppo rock dalla major che nel gruppo ricercava sonorità più pop. Non si sono voluti piegare alla volontà dell’etichetta, quindi il gruppo si sciolse. Nel 2008 riapparirono in una nuova veste e scomparvero di nuovo.

Tornano definitivamente (?) insieme Peter (voce e chitarra) e Klari, nel 2018, e finalmente adesso riusciamo a sentire questo nuovo album La Fine, anticipato dal videoclip di Error 404, parodia di Bitter Sweet Simphony, dove troviamo uno splendido Auroro Borealo nei panni dell’incazzosissimo Richard Ashcroft, solo più sfigato.

Mantengono le loro radici, accordi semplici, chitarre distorte e ritornelli orecchiabili come in Labile, ma i testi sono più ricercati e adulti, per esempio in Distorta parlano delle donne moderne, regine di Instagram, fashion blogger e legate alla vita paradossalmente finta dei social.

La voce melodica di Klari si fonde con quella acida e particolare di Peter, sporcando i brani di un’aura punk e alternativa, ricordando i nostrani Prozac+ o gli internazionali Sonic Youth. Ma le melodie ricadono nel pop punk.

Non mi dirai, forse il pezzo più tosto dell’album, chitarre tiratissime e batterie picchiate ad arte.

La loro crescita si denota dagli argomenti che affrontano, come in Kalief Browder, dove raccontano a loro modo la storia di un ragazzo di colore americano suicidatosi per le violenze e le angherie subite all’interno del carcere (gli ultimi minuti della canzone sono un’intervista allo stesso).

Nel album è presente anche un brano più soft (ma solo a livello musicale), Sopra di me, che parla di perdita e solitudine, in un ambient più malinconico.

La voce di Peter, in Nostrand Avenue è quasi ingenua e innamorata, per scoppiare in chitarre aspre e batterie ritmate, la presenza della tastiera e delle trombe lo rende il pezzo più pop dell’album.

Dopo 20 anni tornano, con le stesse sonorità da garage band che li ha portati al successo, ma con testi più motivati e profondi.

Per tutti quelli che hanno visto la propria adolescenza in toni pop punk sarà un ritorno al passato con la coscienza da adulto.

Per quelli che non hanno vissuto questo periodo, sarà una bella scoperta.

E mentre ci godiamo La Fine, aspettiamo già il prossimo album.

 

Naftalina

La Fine

Self Released, 2020

 

Marta Annesi

Holy Swing “To the Burn and Turn of Time” (Self Released, 2019)

(Through the looking glass)

 

Uscito a novembre, To the Burn and Turn of Time rappresenta il nuovo inizio degli Holy Swing, band bergamasca fresca di numerosi cambiamenti — dalla formazione al nome, passando per il sound — nonostante le influenze post hardcore si sentano forte e chiaro anche in questo nuovo progetto.

L’album spazia tra un’autoanalisi decisamente più spostata verso l’autocritica e il racconto delle relazioni con gli altri, a volte autentiche e altre meno, ma di cui alla fine abbiamo bisogno per uscire da quella bolla di incomunicabilità e ripiegamento su noi stessi dove a volte sembra tanto comodo rifugiarsi. Proprio a questo si riferisce in particolare Paper Kings, ultima traccia del disco. “In the end you’ll know that all you were was just a fraction of a cell” – siamo tutti parte di un qualcosa di più grande di noi.

Le immagini che emergono dalle nove canzoni sembrano tutt’altro che positive, a cominciare dal “plastic garden” in cui è difficile far crescere qualcosa di vero di Twin Primes, ma è quando si parla di se stessi che si scava nel fango. È su questo che sono incentrate, ad esempio, Flower Bed, raccontata dal punto di vista di chi riconosce di essere distruttivo, Parfit’s Glass e Your Dopamine, dove invece ci si rende conto delle proprie mancanze, ma si cerca di non trovare scuse per affrontarle. Ad accompagnare quest’indagine tanto intensa quanto sofferta, esplosioni di chitarre e batterie.

To the Burn and Turn of Time è dunque un’alternanza di pezzi incendiari e altri più dimessi, senza però mai perdere un animo profondamente rock e quella rabbia necessaria per urlare ciò che si pensa.

 

Holy Swing

To the Burn and Turn of Time

Self Released, 2019

 

Francesca Di Salvatore

 

The Softone “Golden Youth” (Self Released, 2019)

Dalle pendici del Vesuvio arriva un album carico di emozioni, di sonorità delicate accompagnate da una voce particolare e rilassante.

Giovanni Vicinanza in arte The Softone torna sulla scena musicale dopo cinque anni di pausa ed emozioni (positive e negative) da condividere. Autoprodotto, questo album è stato ispirato dai paesaggi vesuviani, ma mixato e chiuso a Milwaukee, negli USA.

Un cantautore vecchio stampo, che ci regala un album colmo di sensazioni reali, uno spaccato di vita vera.

Un full length di 12 pezzi che si apre con un’Intro (tema armonico del quinto pezzo I Wish), e chiude con un’Outro, in cui affronta varie tematiche con uno stile pop folk, acustico, e con l’ausilio di vari strumenti (violino, pianoforte, chitarra acustica) che conferiscono un’atmosfera intima, privata.

Il secondo pezzo è Alone and Weird, in pieno stile pop, il quale possiede un ritmo e una positività derivante dalle lacrime degli angeli caduti, che ripuliscono l’anima dell’artista per purificarlo e permettergli di  intraprendere questo viaggio (dell’album), infondendo la forza e l’incoraggiamento per comunicare all’ascoltatore le sue più profonde emozioni.

Vicinanza ci spiega subito che questa forza da cui attinge proviene da un lutto recente, la morte della madre, alla quale dedica una preghiera straziante e al contempo dolcissima, Sweet Mom, resa ancor più malinconica dall’assolo di sax.

In contrapposizione alla perdita e al dolore, ci propone però anche la gioia di un dono sceso dal cielo per alleggerire questa perdita inestimabile, Little Star, in cui ci trasmette la felicità della paternità usando uno stile blues.

La nostalgia per il passato, per una giovinezza perduta, la brutalità del diventare adulti, è espressa intensamente in Golden Youth, pezzo che da nome all’album. Il concetto della malinconia per l’adolescenza, i bei ricordi e la leggerezza di questa età è presente anche in The Place. L’era della spensieratezza lascia una scia di tristezza però quando ci rendiamo conto delle scelte che abbiamo fatto, delle situazioni che ci siamo lasciati sfuggire e di quel tempo che non tornerà più.

L’età adulta arriva senza quasi che ce ne accorgiamo, portando con sé perplessità sulle decisioni che abbiamo preso, sulla strada che abbiamo imboccato: spesso ci domandiamo se potevamo fare di più, essere di più, e l’artista, in Still Believe, mette in evidenza questi dubbi esistenziali, cercando rassicurazioni. Sulla stessa tematica di insicurezze esistenziali è Lost Memories, un monito che il cantante fa se stesso, per tutte quelle volte che ha preferito la vita effimera, allontanandosi dalle cose concrete.

Psycho Visions, sul finire dell’album, è un pezzo a metà strada tra i Pink Floyd e Brian Eno, un viaggio mentale per sfuggire dalla realtà, una visione extracorporea dell’anima intenta a vagare nello spazio-tempo.

In questo suo album, Giovanni Vicinanza crea un universo di emozioni composto da pianeti di sofferenza, via lattee di malinconia e soli di felicità. Il tutto immerso in un’atmosfera pop-folk-rock dove lascia intravedere la sua anima umana, colma di dolore e sazia di gioia.

 

The Softone

Golden Youth

Self Released, 2019

 

Marta Annesi

Sleepwait “Sagittarius A*” (Self Released, 2019)

L’Album de Loin

 

XII secolo, Francia.
Il poeta e trovatore Jaufré Rudel regala al mondo uno dei primi componimenti su un topos che arriverà intatto, per forza evocativa e diffusione di esperienza, fino ai nostri giorni. Lui lo chiama L’Amour de Loin, ovvero L’Amore di Lontano, quello che un quattordicenne qualunque esperimenta a settembre, quando deve separarsi dalla conquista estiva, sfortunatamente domiciliata in altra regione.

La lontananza, in amore, è un’arma ben affilata. E’ una sana palestra per l’esplorazione del sentimento nella sua essenza, ripulito e alleggerito dal peso di quotidianità, dispiaceri, fatiche. L’assenza è meditazione, la negazione diventa sublimazione.

Partiamo da qui, per parlare di un altro tipo di esperienza, nato e vissuto in e con lontananza. Un progetto che prende vita nel 2015, quando un biologo evoluzionista, Filippo Bravi, e un ingegnere meccanico, Mauro Chiulli, si trovano, rispondendo a un annuncio sul web. Inizia una collaborazione a distanza, di Udine il primo, a Bologna il secondo, che vede i Nostri lavorare al loro primo disco per quattro lunghi anni. La lontananza tra i due però è solo geografica. Hanno un terreno comune, che non ha fisicità e che si nutre di passioni e culture condivise e che è possibile rendere materico, con devozione, con lavoro, con volontà. La stessa forza che Rudel profuse nel raccontare quell’amore lontano, che lui raggiungerà partecipando alla II crociata (e, ovviamente, morendo tra le braccia dell’amata, ça va sans dire).

Qui non ci sono crociate, ma un lavoro ben confezionato, con strumenti e liriche coerenti rispetto ai riferimenti citati dagli Sleepwait nella presentazione dell’album, Tool, Mastodon, Alice in Chains. Ecco, questo disco ha il pregio di essere figlio di quel gusto, di quelle linee matematiche e quell’iconografia musicale. Ha però il difetto di essere in qualche modo chiuso in confini fin troppo definiti. Le prime due tracce ci introducono molto bene in questa strana dicotomia interna, perché se per un lato, per come è stato costruito, questo disco è un piccolo miracolo, dall’altro è a fuoco da subito. Sia chiaro, può essere un pregio, ma il gioco dei riferimenti è fin troppo palese, io amo l’ellissi.

La terza traccia è già la title track, e ci regala una fotografia piuttosto precisa di quello che poi è l’humus cui attinge l’intero lavoro: richiami alle ritmiche dei Tool, anche a livello di cambi e passaggi all’interno dello stesso pezzo. Un sapiente gioco di altalena tra l’aggro e il progressive, giocando sulle sfumature, arpeggi che sono promesse non mantenute e liquidissimi giri di basso. Il cantato passa dalla litania al gridato, giocando a nascondino tra livelli ed emotività. Maynard James Keenan docet. 

Poi accade che gli Sleepwait, dichiarati gli intenti e messe le carte in tavola, inizino a sciogliersi, come fosse un live. Curioso per un lavoro in remoto, però la mia pancia dice che le tre tracce successive, da Virgilio a Istanbul, sono le più interessanti, perché hanno più variazioni, perché sembrano aprire il ventaglio di citazioni. Giuro, ci ho sentito Tyler Bates della colonna sonora di 300.

Il lavoro prosegue poi tornando sui binari cari a Tool, A Perfect Circle, Kyuss. Il disco si appesantisce nella costruzione dei brani, forse si avvita sull’esposizione. Questo però spiega anche perché lavori come Fear Inoculum difficilmente verranno scelti per accompagnarvi in ascensore. Salvo non siate in un condominio di Ballardiana memoria.

Scrivere a distanza un album è impresa ardua, soprattutto per un’opera prima. Ai due autori il merito di aver impiegato il giusto tempo e la necessaria pazienza per confezionare un album con riferimenti chiari e di indiscutibile coerenza. La qualità c’è, si sente, si ascolta, si vede anche, nel gioco di immagini che evocano i testi. 

 

Sleepwait

Sagittarius A*

Self Released, 2019

 

Andrea Riscossa