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Tag: slint

Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

Fact: stamattina credo di essermi rotto mignolo (e forse anulare) del piede sinistro, cocciando violentemente contro il divano, il quale, poveretto si trova da svariato tempo in quella posizione del soggiorno ma che stamattina per un qualche remoto motivo ha deciso di frapporsi fra me e la mia destinazione;

Fact #2: due anni fa grossomodo mia mamma ha inopinatamente preso l’iniziativa di cestinare la maglietta degli Slint che avevo acquista al TPO di Bologna il 5 marzo 2005 ed è accaduto solamente perché per lavori in corso nella mia futura casa ero stato costretto ad un trasloco temporaneo, giusto per precisare;

Fact #3: molti anni prima del concerto di cui sopra, con ogni probabilità a ridosso dell’uscita del disco che oggi di anni ne fa 30, l’io bambinetto di quasi 10 anni, fuggendo dalle grinfie della sua (che sarebbe mia) mamma (la stessa di prima), con un improvviso cambio di direzione causò la frattura (o slogatura, ora non ricordo l’esito degli esami strumentali che vennero effettuati all’epoca) della di lei caviglia. Ricordo che col fiatone mi voltai a guardare il misfatto. E allora pensai “Ti sta bene, così siamo pari per quella volta, tra 20 anni circa, in cui deciderai di buttare la mia maglietta più preziosa (che aveva un minuscolo forellino sulla schiena, NdA). Aveva le date del tour sulla schiena. Davanti La Foto. Quella. Quella della copertina.

Era bellissima.

Non credo di averla ancora perdonata.

Ora.

Tutto sto preambolo per dire cosa?

Beh c’è senza dubbio una certa ricorsività in tutto ciò, perché esce Spiderland e mia mamma si azzoppa, Spiderland fa 30 anni e mi azzoppo io. Più o meno a metà quel concerto che resta uno (IL?) dei momenti più memorabili della mia vita. Perché dai, diciamocelo, gli Slint erano sciolti da tempi immemori, non era a memoria ancora partita sta corsa al tour evocativo che poi è stata una pratica iper abusata negli ultimi anni (sia chiaro, non sono affatto contrario a queste iniziative, anzi: c’ero per i Built To Spill, per i Black Heart Procession, per i Neutral Milk Hotel e molti altri), per cui quando credo sul retro di Rumore o di qualche rivista del genere lessi della notizia fu uno shock (sì, first reaction), perché accadeva qualcosa che al tempo non credevo sarebbe mai stata possibile (di fatti poi, al live dei June of 44 di qualche anno fa fui meno sorpreso e un po’ anzi ricordo che fuori dal Locomotiv mi atteggiavo e fingevo disinteresse perché avevo uno storico alle spalle, ma in realtà a Information and Belief stavo piangendo).

E poi che altro. Non lo so, è difficile da dire. Utilizzo quella copertina per tutti i profili social attualmente in uso, ho un pseudo blog chiamato For Dinner, non sono mai stato a Louisville nel Kentucky e quei 39 minuti li conosco meglio di ogni altra cosa con la quale io abbia mai avuto a che fare. 

E anche oggi, e trent’anni dall’uscita, a diciamo 19, 20 dal primo ascolto, trasalgo spesso, e grossomodo negli stessi punti, che sono molti, e ne voglio scegliere uno per traccia:

su Breadcrumb Trail all’attacco di “Spinning ‘Round, my head begins to turn. I shouted, and searched the sky For a friend”. Perché quel motivo lo hai già sentito da poco, ne sei ancora rapito, poi c’è quel piccolo intermezzo recitato e poi di nuovo giù nell’abisso ed io sinceramente ancora oggi fatico a contenere tanta bellezza;

su Nosferatu Man quasi tutta la seconda parte, quel lungo intervallo solo strumentale, perché se lo ascolti in cuffia e ti concentri sul ritmo che imprime la batteria le chitarre ti danno un effetto così straniante che rischi di perdere il pieno possesso delle facoltà mentali;

su Don, Aman mi fa impazzire che sia una canzone che si regge su due sole chitarre, nient’altro. E il momento in cui attaccano le distorsioni al termine del crescendo di “Don left, And drove, And howled, And laughed, At himself. He felt he knew what that was”. I classici momenti epici e dove trovarli. Ah, per inciso le chitarre sono una di Pajo, eh vabbè, e l’altra è di Britt Walford, che nelle altre cinque sta dietro le pelli (e la foto che vedete, scattata da me medesimo, è proprio relativa a questo brano;

su Washer cosa dire… sarebbero così tanti i momenti da segnalare che dico che il passaggio “Wash yourself in your tears / And build your church / On the strength of your faith” è illegale sia stato partorito da un ventenne;

su For Dinner, che è la cosa più bella successa alla musica in ogni tempo (fino al 16/09/2005 e non dirò mai perché a meno che qualcuno non arrivi con la risposta) l’ipnotico finale, da 4:11 a 4:51 grossomodo (dio mio quanto adorò la serialità);

per la conclusiva Good Morning, Captain non dirò quel disperato “I miss you”, no. Troppo ovvio. Ciò che mi fa impazzire è quello che accade poco prima, dal minuto 6:01 fino al finale, il crescendo orchestrato dalla batteria di Walford, che per tre giri tiene le briglie corte agli altri tre, dosando i colpi, per poi mollare tutto al quarto e scatenare il pandemonio, ed il resto è storia.

Il finale non c’è perché devo fare ghiaccio perché qua se non migliora la situazione mi tocca andare a fare una visitina al Pronto Soccorso a fare un paio di radiografie.

 

Alberto Adustini

Contare la Musica: 6

Inedia. 

Etimologicamente il termine è composto dalla desinenza in -, privativa, ed – edia, mangiare, (edibile, per fare un esempio, ha la medesima radice). Nei dizionari il primo significato riportato è relativo alla mancanza di alimentazione, ovviamente, ma come spesso accade molte parole hanno più sfumature e nel nostro caso inedia assume anche un’accezione più figurata, spirituale, uno stato d’animo simile, anzi superiore alla noia, al tedio. Mi piace pensare che l’inedia, in quest’ultimo senso, si manifesti quando cessiamo di alimentare la nostra persona, interiormente, al di fuori ovviamente della banale routine scandita dalla colazione, dal pranzo, dalla cena e spuntini vari.

Avevo iniziato a buttar giù queste righe lo scorso venerdì 17 aprile, impulsivamente quasi, in un impeto di reazione allo stato mentale in cui mi trovavo, ovvero schiacciato in maniera allarmante dalla serialità che avevano assunto le mie giornate. Un andazzo che iniziava a gravare in maniera difficilmente sostenibile, sfociato in quello che per quanto mi riguarda è il segnale di allarme massimo: non sapere che musica ascoltare.

Oltre quaranta giorni di smartworking ormai sul groppone costituivano un fardello di tutto rispetto, inutile nascondersi, e sebbene tutto si può dire delle mie giornate tranne che si somiglino, sono parimenti inscritte in una sorta di macro routine che, alla lunga, può lasciare scorie (ad ogni modo, quanto bello è il termine parimenti?). Intendiamoci, il problema non era (è) lo smartworking, forse più grande invenzione dell’uomo dopo il pile, quanto piuttosto il dover rimanere chiusi in casa. Che non venga frainteso.

Quindi mi trovavo a scorrere Spotify, ignorando volutamente le playlist indie, gym, relax, e altri vili tentativi di spersonalizzarmi, preso dallo sconforto perché nulla pareva soddisfare le mie esigenze contingenti, quando è spuntata, in maniera del tutto inaspettata, la sagoma in controluce, china sul pianoforte, di un ragazzotto inglese a cui voglio un bene dell’anima, Keaton Henson. La copertina era quella di Impromptu On A Theme From Six Lethargies (Mahogany Sessions).

Ora non vi tedierò (non stavolta) sul mio amore di lunga data per questo straordinario, unico artista, però dopo aver fatto play per sentire questa inedita improvvisazione (impromptu appunto) tratta dal suo ultimo disco dello scorso anno Six Lethargies ed essere travolto letteralmente da cotanta magnificenza, ho ricevuto quella che in ambito religioso si potrebbe definire rivelazione, manifestatasi sotto forma di numero (no, non il 42): il numero 6.

Il 6, che è numero malvagio, pratico, oblungo, idoneo e scarsamente totiente, è anche il numero di lettere che compone la parola inedia e il numero di lettere che compone sia Keaton che Henson, che ha composto finora sei dischi, l’ultimo dei quali, Six Lethargies, contiene per l’appunto sei brani (ma dai???). 

Ora, che ci crediate o no, e sempre vi siate ripresi da questa serie di pazzesche, non volute, coincidenze, per molti anni, oltre venti, ho giocato a calcio. Non me la cavavo male, ma il punto è un altro: da un punto della mia carriera in avanti ho chiesto (e quasi sempre ottenuto) ai miei allenatori di farmi giocare con il numero 6, sebbene facessi l’attaccante o all’occorrenza il centrocampista. Perché? È presto detto: era il numero di maglia di Youri Raffi Djorkaeff, che militava nell’amalapazzainteramala. Il suddetto Djorkaeff, nell’anno del Signore 1997, in data 5/1 (che sommati, fatalità…), giorno nel quale la mia dolcissima madre festeggiava *****nta anni, realizzava un indimenticabile gol in rovesciata, che mi segnò a tal punto dallo spingermi, in pieno spirito d’emulazione e nel pieno dei miei quindici anni (le cui cifre sommate…), a voler giocare sempre col quel numero sulla schiena.

Concluso il momento amarcord non ho potuto non pensare che nell’ambito che più mi interessa, quello musicale, il sei ricorre in maniera quasi stucchevole, con rispetto parlando. Perché? 

È presto detto, e badate bene, questa è solo una selezione, tarata sui miei gusti, altrimenti potremmo fare le ore piccole. 

Bene, sei sono le tracce contenute in Spiderland degli Slint, il miglior disco di tutti i tempi. Sì, quello della copertina in bianco e nero dei ragazzetti in ammollo. Miglior disco di tutti i tempi. Segnatelo. E non poteva essere altrimenti. Ma sei sono le gemme incastonate in quel diadema che risponde al nome di Whatever You Love, You Are, dei Dirty Three, se avete voglia di un po’ di musica strumentale fatta da chitarra, batteria e dal violino ribelle di Warren Ellis. Se invece quello che cercate è una buona dose di malinconia, se volete dilaniarvi il cuore con uno dei dischi più struggenti mai concepiti, fiondatevi con tutte le dovute cautele su Down Colorful Hill dei Red House Painters, che si snoda su sei malinconiche pennellate.

Sulla distanza delle sei tracce è anche un altro dei miei dischi da isola deserta, quel Rusty, unico disco dei meravigliosi Rodan, se al post rock degli Slint volete aggiungere un pizzico di math. La progressione Rodan – Slint non può non continuare che con i June of 44, il cui Tropics and Meridians consta di esattamente sei tracce, tra le quali quella Anisette che rimane una delle migliori canzoni post/math rock mai scritte. Vediamo, chi manca all’appello? Ah già i For Carnation. Qual è il loro disco migliore? Beh, direi Marshmallow, così su due piedi, anche se l’omonimo The For Carnation, con quel miracolo di Emp Man’s Blues in apertura (all’inizio sentirete poco, poi il volume sale, abbiate pazienza), non è da meno. Vabbè, possiamo prenderli entrambi, hanno sei canzoni ciascuna. Che poi se parliamo di post rock, non possiamo prescindere dai ragazzotti di Chicago, i Tortoise, cervellotici quanto basta, non sempre centratissimi, ma quel loro Millions Now Living Will Never Die è un signor disco (grazie @fourgreatpoints per la segnalazione). Oltre che a contenere ovviamente sei brani. E ad avere un titolo di sei parole poi.

Seguendo un ordine diacronico, abbandonati quindi gli anni ’90 ed entrati in pompa magna negli anni ’00, quelli che più di tutti, nell’ultima “infornata” hanno saputo raccogliere l’eredità di mostri sacri quali Mogwai o Godspeed You! Black Emperor, rimanendo appunto in ambito post, ritengo siano gli Explosions In The Sky. Per cui credo sia giusto onorarli con la chiusa di questo divertissement, che per dirla alla V, vira verso il verboso: So Long, Lonesome, sesto (e ultimo ovviamente) brano di All of a Sudden I Miss Everyone.

Perché mai come nel mio caso risulta vero: sei quello che ascolti.

 

 

Alberto Adustini