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Måneskin “RUSH!” (Epic/Sony, 2023)

“C’era una volta una band che passò da Via del Corso a Las Vegas ad aprire il concerto dei Rolling Stones.”

Quante volte abbiamo sentito paragonare la storia dei Måneskin a una favola? Più o meno un’infinità. 

Delle novelle Cenerentole, che cominciano suonando tra le strade di Roma e, grazie alla spavalderia tipica degli animali da palco e a una buona dose di talento, passano prima da X-Factor (pur non vincendolo), poi al Festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest (questi, vincendoli entrambi).

Il resto, come si suol dire, è storia: Rolling Stones, valanghe di premi, tour mondiale.

Però, in questa favola, qualcosa si è incrinato.

Il loro ultimo album, RUSH!, si discosta nettamente dai loro lavori precedenti e in particolare da Teatro d’ira – Vol.I, che, anche se non un secondo volume, quanto meno lasciava presagire un proseguimento su quella strada. 

Invece RUSH! è un album frutto della foga degli ultimi due anni, della contaminazione statunitense e dell’apertura al mercato internazionale, ma forse dai singoli pubblicati in questi ultimi mesi – da Mammamia a Supermodel – potevamo aspettarcelo. 

Non che questa svolta pop-punk con velleità sempre più trasgressive (ma comunque senza abbandonare qualche elemento più melodico e stile ballad) sia brutta tout court. Anzi, ci sono tracce pregevoli – Gasoline e Timezone su tutte – ma non mi azzarderei a dire che hanno portato quella rivoluzione alla musica italiana che ci stavamo tanto immaginando.

RUSH! è infatti un album che di italiano ha molto poco: si vede già nella distribuzione linguistica, dato che solo tre tracce su 17 sono in italiano. La sensazione che si ha è quella di un album fatto a uso e consumo del pubblico americano e/o abituato a sonorità di questo tipo già da tempo, che quindi non percepisce nulla di nuovo e men che meno di rivoluzionario. 

Ed è un po’ un peccato, perché ci si poteva aspettare qualcosa di più dalla band che sembrava stesse riportando il pop-rock nostrano in auge anche all’estero senza il bisogno di conformarsi a modelli già noti. Ci stavano provando e avevano raggiunto già bei risultati con quel grande pezzo che era Coraline nel disco precedente (e a cui cercano di avvicinarsi timidamente con Il Dono della Vita).

Hanno fatto bene? Hanno fatto male? Non sta a me giudicare, ma sicuramente resta un po’ di amaro in bocca per quello che poteva essere e – evidentemente – non è più.

 

Måneskin
RUSH!
Epic/Sony

 

Francesca Di Salvatore

Pinguini Tattici Nucleari “AHIA!” (Sony, 2020)

Da una band che ha deciso di chiamarsi Pinguini Tattici Nucleari ci si aspetta sempre un po’ qualche colpo di genio. E stavolta la genialità si è palesata durante la conferenza stampa – o meglio videoconferenza stampa, “covid oblige”, come direbbero i francesi – per la presentazione della loro ultima fatica, l’EP AHIA!. La band ha infatti scelto come moderatore Valerio Lundini, comico romano diventato una vera e propria star televisiva e di internet grazie alla sua trasmissione Una Pezza Di Lundini.

Tutta la prima parte della conferenza si è svolto in questo clima surreale tipico delle interviste di Lundini, con un susseguirsi di domande che viaggiavano tra serietà ed ironia e risposte che reggevano il gioco. Il connubio tra la band e il comico funziona così bene da sperare di vederli come ospiti nel programma di Rai2. 

L’evento in realtà era una sorta di doppia promozione, dove da un lato si parlava del disco e dall’altro del romanzo di esordio di Riccardo Zanotti, sempre dal titolo AHIA! (decisamente appropriato per questo 2020), e che insieme vanno a comporre le due parte di un unico progetto artistico. Il libro e l’EP sono legati tra loro soprattutto da temi che si ritrovano sia in un uno che nell’altro, come il rapporto con la famiglia o il concetto di maschera, ha detto Zanotti.

La scelta di far uscire un EP, al contrario del solito LP, è stata invece ponderata: sette erano le canzoni pronte e rifinite e sette ne sono uscite. “Poche ma incisive” ha detto Elio Biffi, il tastierista della band, e ad ascoltare AHIA! non si può che dargli ragione. Si parte con Scooby Doo, il secondo singolo pubblicato dopo La Storia Infinita, che con la sua intro che strizza l’occhio alla trap è un po’ una dichiarazione d’intenti: questo sarà un lavoro di sperimentazione, definito più volte “pop art”, che mischierà vari stili in modo eterogeneo. 

Oltre alle sonorità trap, troviamo ad esempio Pastello Bianco, una ballad sulla fine di una relazione più classica e “sanremese”, anche se hanno assicurato che il ritorno all’Ariston non è previsto per il futuro prossimo, nonostante l’istituzione sia stata citata più volte nel corso della conferenza, oppure Ahia, il pezzo che chiude il disco e riprende le origini più folk della band. 

Il cambiamento, l’evoluzione e la ricerca di nuovi linguaggi — pur senza tradire ciò che si è e ciò che si vuole dire — diventano quindi una componente fondamentale di questo EP, ma in realtà, ad ascoltare anche i loro pezzi precedenti, sono sempre state delle costanti nella loro musica e i fan lo sanno bene. 

Ma AHIA! è soprattutto un lavoro pop e non nel senso di commerciale, che è una parola che fa piegare anche la musica alla logica di mercato: questo pop va inteso come popolare e di massa, frutto della consapevolezza — nata dopo il successo al Festival di Sanremo che li ha portati ad un’ulteriore consacrazione, questa volta a livello nazionalpopolare — di arrivare ad un pubblico molto più ampio, variegato e a volte anche più giovane di prima. Una bella sensazione, hanno raccontato, ma allo stesso tempo una responsabilità e una sfida stimolante, perché diventare mainstream — spogliando il termine di tutte le connotazioni negative — significa anche parlare a gente con cui prima si aveva meno a che fare.

Restano però tutti quei riferimenti culturali – dal DAMS al McFlurry alla parola “cringe” — che hanno reso la band bergamasca un punto saldo per la generazione di fine anni ’90: quella dei bambini che videro “quella puntata della Melevisione/Interrotta da torri/Che andarono in fiamme” e della “bambina che baciava Harry Styles in TV”, per citare Scrivile Scemo, probabilmente il pezzo più ballabile del disco.

Sono tutti temi concreti e quotidiani, quelli dell’EP ed in generale della loro discografia, ma sentir cantare di neo-convivenza, di tradimenti che sono più fraintendimenti che tradimenti, di solitudini e difficoltà con l’università in modo così scanzonato e diretto, a volte allegro e a volte meno, è in qualche modo di conforto. Ed è fantastico che questa concretezza e quotidianità siano state sdoganate nella musica, se non altro per sentirci meno soli, a maggior ragione in questo periodo di incertezza e aleatorietà.

Insomma, è un bene che AHIA! sia uscito, anche se per il momento non potrà essere vissuto a pieno come la musica richiede e cioè dal vivo, urlando sotto ad un palco insieme ad altre migliaia di persone. È un bene perché è un barlume di normalità – quella che ci manca anche se non è sempre un granché — in un momento in cui di normale non c’è niente o quasi. 

E abbiamo decisamente bisogno di tornare a commuoverci o a ridere sulle cose normali.

 

Pinguini Tattici Nucleari

AHIA!

Sony

 

Francesca Di Salvatore

The Winstons “Smith” (Tarmac\Sony, 2019)

“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”

Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).

Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma anche un gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.

La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica. 

Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.

Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.

Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.

La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.

Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione. 

Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.

Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.

L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.

Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday, donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.

Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale. 

Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,  pezzo allucinogeno e coinvolgente.

Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.

Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.

 

The Winstons

Smith

Tarmac\Sony, 2019

 

Marta Annesi