Skip to main content

Tag: spettacolo

Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

DSC8582 min
Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

foto gruppo Marco Rossi min
I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

WhatsApp Image 2019 05 06 at 20.58.16 min
Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

La magia degli Avantasia a Milano

Attraversare Milano è sempre un incubo per me. Traffico lento, strombazzare di clacson, moto che sfrecciano sui marciapiedi. Insomma, un’esperienza tremenda.

Per evitare di dover guidare più del dovuto in quella giungla urbana in cui vige la legge del più forte, decidiamo di parcheggiare ad una ventina di minuti dall’Alcatraz e di farci una passeggiata.

Perchè anche se Milano è famosa per lo smog, con l’arrivo della primavera e dell’ora legale, che ci regala qualche momento di luce in più, tutto sembra più bello.

La nostra meta, come detto prima, è l’Alcatraz dove suonano gli Avantasia, per la loro unica data italiana del Moonglow Tour.

Devo ringraziare il mio amico Alessandro, che eroicamente ha anche fatto da autista durante questo viaggio, per avermi fatto scoprire questa band di cui, fino a qualche mese fa, ignoravo l’esistenza. Anche se siamo solo ad aprile per me hanno già vinto il premio come “scoperta dell’anno”.

Varchiamo le porte della discoteca alle 20.15 e c’è già una folla di gente riunita e scalpitante in attesa che i loro beniamini facciano la loro comparsa sul palco.

Ce la siamo presa comoda perché l’orario d’inizio segnato sul biglietto era alle 20.30…ma quando mai un concerto inizia all’ora prestabilita?

Le luci si abbassano e in sala inizia a risuonare You Shook Me All Night Long degli AC/DC seguita dall’Inno alla Gioia.

Guardo l’orologio: sono le 20.30. Incredibile.

Terminata la musica classica cade il sipario (no, non è un errore di battitura) e lui, Tobias Sammet, è li, in posa plastica, avvolto nella penobra.

Non si parla, niente presentazioni, si parte subito: Ghost in The Night. 

Rimango folgorata, è nato un amore.

La voce di Tobias è un qualcosa di indescrivibile. Potente e avvolgente: da brividi.

La prima cosa che noto dopo la mia folgorazione iniziale è la bellissima scenografia: sullo sfondo c’è la copertina di Moonglow, che ricorda le immagini di Tim Burton, mentre alberi con lanterne e cancellate, che richiamano alla mente un maniero vittoriano in rovina, incorniciano il tutto.

Ma non c’è tempo per perdersi dietro alla scenografia. 

La voce e il modo in cui Tobias si muove sul palco sono magnetici e continuo a seguirlo con gli occhi.

Al termine della canzone prende il microfono e ci preannuncia che lui e i suoi Avantasia ci faranno compagnia per le tre ore seguenti.

Il pubblico a quel punto impazzisce e tutti quelli presenti nel locale iniziano ad urlare e a chiamare “Toby”, come si farebbe con un vecchio amico che non vedi da anni e incontri dall’atro lato della strada.

E così una dopo l’altra gli Avantasia ci regalano le canzoni del nuovo album e i successi del passato, quelli che da vent’anni a questa parte li hanno resi un gruppo che vale la pena di conoscere.

Ma non è solo un concerto, è una festa sul palco accanto a Tobias oltre ai tre coristi (Adrienne Cowan, Ina Morgan e Herbie Langhans) duettano, alternandosi Ronnie Atkins, Jørn Lande, Geoff Tate, Eric Martin e Bob Catley. 

Tutti fanno parte della grande famiglia che sono gli Avantasia, una realtà nata da un’idea di un ragazzo, poco più che ventenne, che è stato in grado di coinvolgere artisti di ogni livello.

Tobias Sammet ama il suo pubblico, parla con lui e lo coinvolge; ride e scherza con quelli che condividono il palco con lui perché è questo che la musica dovrebbe essere: divertimento (per chi la esegue e per chi la ascolta).

Alle 23.30 dopo Farewell (da brividi cantata con la corista Adrienne Cowan) tutti quelli che hanno preso parte allo spettacolo salgono sul palco.

Li contiamo: sono in 14. 

L’ultima esibizione è un pezzo corale. Tutti cantano, tutti gli artisti che hanno preso parte a questa serata magica ci regalano un ultimo pezzo di loro, prima di salutarci, esibendosi in Sign of the Cross/The Seven Angels.

Quando ci apprestiamo ad uscire sono ancora sotto l’effetto dell’incantesimo della loro musica. 

Le tre ore del concerto non ci sono bastate e gli Avantasia ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso casa, per farci sognare ancora un po’.

 

Laura Losi

Il Musical e l’Italia: il successo targato Disney

Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente? Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.

Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovrana  indiscussa dell’intrattenimento. 

Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.

Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.

Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensi il 28° Classico Disney: La Sirenetta. 

Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.

 

ariel min min
L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway

 

Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia Aladdin.

Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.

Non passò molto tempo, però,  prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.

Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop? 

Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical. 

Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto. 

Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri. 

L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante ma  ci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.

 

newsies min min
Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.

 

Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.

Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.

Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film. 

Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e The Little Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.

Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.

I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.

Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.

Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.

Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo. In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico. 

Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfo  illimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.

Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.

 

Disneys The Lion King min
Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.

 

Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico. 

La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.

Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.

Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisori  che hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.

 

arabian night min min
Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra

 

Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo. 

Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.

Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical. 

Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità. 

 

n2 beauty and the beast
Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”

 

Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:

Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.

Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..

Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.

Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse. 

Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro. 

In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente. 

Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?  

 

Valentina Gessaroli