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Tag: the national

First Two Pages Of Frankenstein

Avviso per i più sensibili: anche questo disco ti spaccherà il cuore, cosa quasi scontata per i fan de The National ma, se ti stai approcciando per la prima volta a questa band alt rock di Cincinnati naturalizzata Brooklyn, mi sembra doveroso avvertirti.
Bene, ora che hai preparato i fazzolettini, possiamo cominciare.

Esce oggi l’attesissimo ultimo disco de The National, colmo come sempre di feat di una certa importanza, per la celeberrima etichetta 4AD. 

Attesissimo perché il cantante Matt Berninger ha affermato in un’intervista che la band stava avendo diversi problemi: “una fase molto buia in cui non riuscivo a trovare testi o melodie e quel periodo è durato più di un anno. Anche se siamo sempre stati ansiosi e abbiamo litigato spesso durante la lavorazione di un disco, questa è stata la prima volta in cui ci è sembrato che le cose fossero davvero arrivate alla fine”.
Ma, fortunatamente, The National sono stati sempre dei maestri nel saper estrapolare la bellezza anche nella sofferenza e nel dolore, e quindi “siamo riusciti a tornare insieme e ad affrontare tutto da un’angolazione diversa, e grazie a questo siamo arrivati a quella che sembra una nuova era per la band”, afferma il chitarrista/pianista Bryce Dessner.
Il disco inizia con una ballata al pianoforte semplice e romantica, Once Upon a Poolside, che parla della paura di perdersi, emozioni amplificate anche dalla presenza di Sufjan Stevens. Altra canzone da dedicare al proprio partner è sicuramente New Order T-Shirt, singolo che anticipava il disco, con un testo ricco di nostalgia e piccoli dettagli che solo chi è veramente innamorato nota dell’altro. Inoltre, questo singolo, ha portato anche ad una collaborazione con i suddetti New Order per vendere magliette limited edition omaggianti la band di Manchester e donare il ricavato in beneficenza.
Il vero scossone, però, l’ho avuto all’ascolto di Your Mind is Not Your Friend, composta assieme alla cantautrice e chitarrista Phoebe Bridgers, dove attraverso dolci note di piano si parla della paura di affrontare i lati più oscuri della propria mente a causa delle malattie mentali. Altra firma inconfondibile stile National l’abbiamo nel brano The Alcott, caratterizzato da melodie di archi e piano molto scarne e testi introspettivi e quasi brutalmente struggenti. Scritto in collaborazione con la regina dell’Indie Folk Taylor Swift, lei e Berninger interpretano il ruolo di una coppia che cerca in tutti i modi di far rinascere il proprio rapporto ormai finito, ma che nell’ultima strofa sembra aver trovato una nuova luce: “I tell you that I think I’m falling back in love with you”. Dopo esserci disidratati a suon di lacrime, fortunatamente il disco si conclude con un brano positivo e colmo di speranze. Send for Me è caratterizzata da una melodia più strutturata e ritmata, e dalla certezza che c’è sempre qualcuno pronto per te a raggiungerti nel momento del bisogno.

Strazianti ma necessari, The National sono come quel pianto liberatorio che fai a fine di una dura giornata, quello che ti aiuta a superare le ansie e ti dona la carica necessaria per affrontare qualsiasi avversità. Questo nono disco, conferma le enormi capacità introspettive e catartiche della band attraverso melodie semplici che permettono al testo di farla da padrone. Insomma, i Nick Cave americani. E nonostante le due decadi di carriera, la loro capacità di emozionare rimane invariata, anzi ancora più profonda ed viscerale, senza mai diventare ripetitiva.

Alessandra D’aloise

The National @ La Prima Estate

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• The National •

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Courtney Barnett

Giorgio Poi

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LA PRIMA ESTATE

Lido Di Camaiore (Lucca) // 21 Giugno 2022

 

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Foto: Letizia Mugri

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COURTNEY BARNETT

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GIORGIO POI

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Syd For Solen 2022

Dice il detto “tra i due litiganti, il terzo gode”.

Così è stato per il Syd for Solen: dopo uno scontro fratricida tra festival danesi la settimana precedente (NorthSide vs. Heartland), il neonato festival di Copenhagen, piazzandosi nel secondo weekend di Giugno, si è potuto accaparrare nomi di tutto rispetto della scena internazionale, liberi anche dagli impegni del Primavera Sound a Barcellona.

Collocato a Søndermarken, cuore verde di Frederiksberg, delizioso quartiere subito ad Ovest del centro della capitale danese, tra casette in mattoni a vista, aiuole ben curate e hygge a palate, il grande prato circondato da alberi secolari è stato calcato da un numero variabile tra dieci e quindici migliaia di persone al giorno, che hanno visto alternarsi su due palchi gruppi emergenti e icone affermate.

Venerdì in particolare, giorno più tranquillo dei tre a livello di presenze, più che ad un festival è sembrato di assistere ad una scampagnata tra amici: gruppetti di persone sparse sull’erba, birra d’ordinanza in mano, la gente si è goduta l’indie rock di Velvet Volume, PRISMA e Goat Girl in completo relax prima che l’atmosfera si iniziasse a scaldare con il rap di Slowthai. È per i Foals che si inizia a vedere quella massa di gente che tanto è mancata di fronte ad un palco, massa che non farà che aumentare per il primo headliner della tre giorni, Liam Gallagher.

Il nostro caro Liam sale sul palco con un grugno che già urlava smaronamento a mille e non arriva neanche alla fine della prima canzone per trovare da dire con i ragazzini in prima fila che sfoggiavano delle maglie da calcio evidentemente non gradite al nostro. Per quanto l’umarèll albionico non si smentisca nell’immobilità delle sue performances, le emozioni che suscitano le hit dei bei tempi che furono targate Oasis scuotono corpi e anime di chi ascolta.

Il picco del festival si ha però nella seconda giornata. Se il buon Sandro Ciotti fosse ancora vivo, vi reciterebbe la lineup più o meno così: “inizia la giornata sul palco principale Anna Calvi a seguire la favolosa Sharon Van Etten per lasciare poi spazio agli eterei Slowdive [respiro] deviamo verso il palco piccolo per l’esordio in terra danese delle Wet Leg per poi ripiegare sul palco principale per il set conclusivo di questa giornata soleggiata e bellissima con The National”. Sabato è stato come gustarsi un vassoio di pasticcini belli farciti, appaganti, da godersi uno alla volta e assaporare fino in fondo il sapore distintivo di ognuno.

Il pasticcino più gustoso è stato, almeno per la sottoscritta, il set de The National: coinvolti e coinvolgenti (a Copenhagen sono di casa, NdA), hanno dato al pubblico uno delle loro migliori performances, con un paio di nuovi pezzi interessanti – anche se non così d’impatto come fu ascoltare dal palco dell’HAVEN KBH Carin at the Liquor Store prima dell’uscita su disco – e un continuum di canzoni tratte da tutta la loro discografia, così densa di titoli meravigliosi da non far rimpiangere quelli lasciati fuori dalla scaletta. Il concerto si chiude con la malinconica About Today, da assorbire nota per nota guardando tra le fronde degli alberi la magia del cielo ancora chiaro delle notti nordiche.

Domenica le previsioni davano una lineup un po’ più varia in termini di sound e rovesci sparsi. Purtroppo l’acquazzone più grosso si è avuto al secondo pezzo dei Parcels che ha costretto il gruppo a battere in ritirata e sospendere il concerto almeno finchè il diluvio non si è trasformato in pioggerella. Sarà stata la musica coinvolgente, la voglia di far festa, ma quando il sole ha bucato le nubi l’ovazione del pubblico è stata assordante. Il pomeriggio procede con il pop svedese delle First Aid Kit e il soul di Leon Bridges per arrivare alla festa conclusiva, il set dei Jungle che hanno fatto saltare e ballare in un rito collettivo di riappropriazione della vita sociale negata dai due anni di pandemia.

Si chiude così questa prima edizione del Syd for Solen, festival che ci auguriamo ritorni il prossimo anno e che, nonostante qualche aggiustamento da fare soprattutto riguardo alla quantità di food trucks presenti, ha saputo coniugare la dimensione cittadina della location con la dimensione internazionale degli ospiti in modo squisitamente impeccabile.

Francesca Garattoni

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The National “I am easy to find” (4AD, 2019)

Sono passati solamente due anni da Sleep well beast, un disco così bello che tutt’ora è fatica toglierlo dallo stereo, che The National sono pronti a dare al mondo il loro ottavo album I am easy to find.

Come ogni album de The National, il primo ascolto non è mai facile ma è quello che rivela al subconscio dell’ascoltatore le atmosfere e il contesto: se Sleep well beast era un album notturno, cupo, introspettivo, prodotto tra le quattro mura di casa, questo nuovo I am easy to find è un album fresco e femminile, la cui produzione abbraccia Europa e Stati Uniti.

Con gli ascolti successivi, si prende invece coscienza di qualcosa di diverso dai precedenti album e una domanda prende forma: com’è possibile che i National siano riusciti a fare un album così tanto tipicamente loro ma allo stesso tempo così non loro?

Che cos’è che definisce l’identità musicale del gruppo? Il timbro baritonale e sexy della voce di Matt Berninger o gli arrangiamenti e le melodie dei gemelli Aaron e Bryce Dessner?

Tante domande, ma tutte lecite dal momento che nella maggior parte dei brani la voce di Berninger è affiancata, se non del tutto sostituita, dai contributi vocali delle artiste che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, tra cui Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle, Gail Ann Dorsey e Kate Stables, mentre le melodie si avvalgono degli strumenti di un numero cospicuo di musicisti e membri d’orchestra, incluso l’amico Justin Vernon.

Eppure, questa famiglia allargata non solo non ha messo a repentaglio l’identità musicale del gruppo nel risultato finale, ma l’ha esaltata. Togliere per dare valore: quando viene a meno la connessione immediata voce-di-Berninger = The National, allora l’orecchio cerca e trova in altri elementi l’identità del gruppo, ed ecco che emerge l’intro al pianoforte di Oblivions o il rullare di Rylan, elementi identificativi che farebbero riconoscere una canzone de The National anche ad un sordo.

I am easy to find è un esercizio corale sapientemente diretto, una costellazione di brani come palloncini che fluttuano in cielo, legati al nucleo dei cinque membri del gruppo da nastri colorati.

Ogni singola traccia del disco ha un elemento di originalità al suo interno che non la fa assomigliare a nient’altro della produzione de The National, però allo stesso tempo, proprio quando l’originalità potrebbe far spaventare l’ascoltatore, arriva quell’elemento peculiare, unico e familiare, che conforta e dà sicurezza.

Questa dinamica di spingere un po’ più in là il confine di ciò che è la sonorità National e poi tornare in territori conosciuti, espansione e contrazione, non-aver-paura-ad-allontanarti-io-sono-qui, non è solo a livello dei singoli brani, ma anche proprio a livello dell’intero album.

La sensazione, ascoltando tutti i 63’ e 35’’, è che il disco respiri: la tripletta di brani di apertura — inspira — continua il discorso dove Sleep well beast l’aveva lasciato; Oblivions, The pull of you e Hey Rosey — espirasono diverse, tentano ognuna qualcosa di nuovo, e ci riescono con grazia; I am easy to find — inspira — riporta l’ascoltatore nella zona di comfort, per poi lasciare spazio ad altre due tracce — espira — che aprono a nuovi ritmi e nuove sonorità. Arriva e se ne va Not in Kansas — inspira — tipica ballata che dipinge paesaggi assolati da Midwest; altri due brani — espira — diversi, dagli altri e tra di loro: So far so fast è rarefatta e femminile, Dust swirls in strange light sembra quasi composta per una funzione religiosa. Hairpin turns e Rylan — inspira sono tutto quello che amiamo dei National; Underwater — espira — è un inframezzo strumentale che prepara alla commovente chiusura dell’album — inspira — con Light years.

Dopo vent’anni di carriera, possiamo dire che The National con questo loro lavoro abbiano tentato qualcosa di nuovo, in modo cauto forse, e ci siano riusciti con l’armonia e l’eleganza che li contraddistingue.

 

The National

I am easy to find

4AD, 2019

 

Francesca Garattoni

NorthSide 2018 • Day 2

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NorthSide 2018 @ Ådalen, Aarhus – Denmark // June 8, 2018
D A Y  2

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Queens Of The Stone Age

 

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The National

 

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A Perfect Circle

 

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Liam Gallagher

 

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N.E.R.D.

 

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Cigarettes After Sex

 

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Rival Sons

 

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MC50

 

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Testo e Foto: Francesca Garattoni

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