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Tag: tindersticks

Tindersticks @ Theater Akzent

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• Tindersticks •

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Theater Akzent (Vienna) // 23 Aprile 2022

 

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Tindersticks “Distractions” (City Slang, 2021)

Allora, chiariamo subito che partiamo male. Molto male.

Sto parlando di Distractions, il nuovo disco dei Tindersticks.

Siamo seri, dai, questa Man Alone (Can’t Stop Fading) è una canzone che, doveste un giorno trovarvi nella situazione di dover riempire una cristalliera di sole gemme della band di Stuart e compagni (e ce ne sono a dozzine), senza dubbio scartereste tra le prime. Che poi mi ricorda un sacco gli LCD Soundsystem, che piacciono a tutti voi, lo so, ma a me non sono mai andati giù, nemmeno quando facevate diventare This Is Happening uno dei dischi imprescindibili della storia della musica tutta.

Fine sfogo.

Comunque stiamo parlando dei Tindersticks, motivo per il quale anche fossero alle prese con una rivisitazione raggaeton di Tiny Tears o Until The Morning Comes ska non si skippa, non ci si allontana dalle casse, non ci si distrae, si sta pazientemente in attesa che passino questi 667 secondi (!), sperando che le cose cambino. Radicalmente possibilmente.

Presto (non tanto, invero) accontentati. I Imagine You ci riporta dove vogliamo stare. O dove io voglio stare. Il recitativo baritonale di Staples è quello di cui avevo bisogno, che meraviglia, con quell’attacco che pare preso in prestito dai Sigur Ros di (), poche note, qualche sussurro, non serve poi molto a creare la magia. 

Poi è la volta di A Man Needs A Maid. Toh, guarda, stesso titolo di quella di Neil Young. Ma ancora quella batteria elettronica dannazione. Ah ma è proprio quella di Neil Young! Ma sai che a dirla tutta non mi dispiace, anche se il paradosso è che sembra più vicina ai Tindersticks la versione del dio canadese rispetto a quella dei Tindersticks stessi.

Altro giro, altra cover, altra drum machine o qualche tipo di artificio. È la volta di Lady With The Braid, originale di Dory Previn del 1971. Mai sentita nominare. Nemmeno la canzone. Ma che testo magnifico! Poi in questa nuova veste viene totalmente dismesso il vestito folk cantautorale in vece di una più austera e composta, che siamo sempre i Tindersticks, ricordiamolo al mondo. 

You’ll Have To Scream Louder fa parte del versante soleggiato della band inglese, addirittura Stuart A. Staples te lo puoi immaginare farla dal vivo e ballarla col suo iconico (non è vero) passo col quale fa scivolare i piedi in un verso e nell’altro, su queste congas e queste chitarre funkeggianti.

Ma basta scherzare, Tue-Moi è il classico pugno nello stomaco che ti manda diritto al tappeto, un toccante, sofferto, sentito brano, piano e voce, in lingua francese, sull’attacco al Bataclan di qualche anno fa. 

Ma ahinoi è già tempo dei titoli di coda su questo tredicesimo capitolo in studio per la band di Nottingham, giunta ormai al trentesimo anno di vita. Ed è un meraviglioso finale, poche storie, questa The Bough Bends, coi suoi quasi dieci minuti di durata, è la perfetta nemesi dell’iniziale Man Alone (Can’t Stop Fading). 

E anche a sto giro, cari miei amori, fate un disco brutto la prossima volta.

 

Tindersticks

Distractions

City Slang

 

Alberto Adustini

Tindersticks @ Philharmonie, Berlino (DE)

Philaharmonie, Berlino (DE) // 04 Febbraio 2020

 

“Non ho mai pensato che nella vita, per procedere, bisognasse necessariamente andare in linea retta”.

La dice Marco Paolini, ne Il Milione. La faccio mia, per oggi, perchè seguire un’unica direzione, un filo (immaginario o meno), per raccontare cosa è stato il live dei Tindersticks alla Philharmonie Berlin, mi risulta davvero difficile. 

Ci sono diversi piani di lettura, diversi aspetti, alcuni più rilevanti di altri, diversi punti di vista, come se tenessi in mano un poliedro irregolare, un diamante, e ruotandolo nella mano ci guardassi attraverso da ogni faccia, ognuna diversa dall’altra.

Arrivo a Berlino il giorno precedente al concerto, in compagnia di una coppia di amici e della mia signora, e siamo tutti e quattro eccezionalmente, per la prima volta, senza prole (rimasta a testare i nonni sulla distanza delle 48 ore. Spoiler: prova brillantemente superata). Trascorriamo la giornata in giro per la città, tra l’East Side Gallery, il Memoriale per gli ebrei, il Museo Ebraico, combattendo contro un vento tagliente che non dà un attimo di tregua. Anzi, verso le 19, mentre a piedi risaliamo Postdamer Straße in direzione Philharmonie, si aggiungono delle fine gocce di pioggia fredda, a rendere il tutto più invernale e complicato.

Ad ogni modo guadagniamo l’ingresso e nemmeno troppo timorosi cominciamo a dare uno sguardo intorno. Il foyer è già piuttosto affollato e praticamente ogni persona sta sorseggiando del vino bianco da un piccolo calice o della classica birra, qualcuno addenta un Brezel. Butto una furtiva occhiata al listino prezzi e penso che tutto sommato l’acqua che ho nella mia bottiglietta non è poi male. 

Poco dopo le 19:30 viene aperta anche la sala concerti e impaziente raggiungo il mio posto. E la meraviglia. Davvero. Nelle settimane scorse avevo letto diversi articoli e spiegazioni circa l’architettura della Philharmonie, nella quale ogni singolo dettaglio, ogni particolare, ogni elemento risulta funzionale alla resa acustica dell’esecuzione. Dal legno degli schienali delle poltrone (kambala), alle 136 piramidi appese al soffitto che hanno lo scopo di assorbire i bassi, agli elementi sopra il palco che prevengono la dissipazione del suono e ad altre nozioni delle quali capisco poco ma che affascinano molto.

La sala si riempie piuttosto rapidamente e poco dopo le 20, abbassatesi le luci, i cinque Tindersticks, tutti vestiti di scuro, sulle note di A Street Walker’s Carol, raggiungono il palco.

I tre superstiti membri originali della band, Staples al centro, Neil Fraser alla chitarra a destra, David Boutler alle tastiere, xilofono (e piattini) a sinistra, Dan McKinna al basso e l’americano Earl Harvin (mio MVP) alla batteria e percussioni.

Prima piccola doverosa digressione: il mio primo contatto con i Tindersticks, inglesi, attivi dal 1991, risale ai primi anni 2000. Non ricordo di preciso l’anno, ma ero nel periodo in cui acquistavo dischi con una certa assiduità ed avevo l’usanza, insieme ad un paio di amici, di comprarne, di tanto in tanto, di artisti sconosciuti, fidandoci esclusivamente della copertina. La mia scelta quel dì, pescando dallo scaffale delle offerte, cadde su Can Our Love.., che ancora oggi rimane uno dei dischi con la copertina più brutta di tutti i tempi (a parer mio s’intende).

Fu amore, immediato e totalizzante. E duraturo, se a distanza di vent’anni sono disposto a farmi 1043 km (secondo Google Maps) per vederli dal vivo. Le atmosfere notturne, No Man In The World, la voce baritonale, nasale, di Stuart A. Staples. E soprattutto le copertine. Dio mio le copertine. Qualche settimana più tardi acquistai anche Curtains il loro terzo disco, l’omonimo debutto e l’omonimo secondo disco (già, il primo e il secondo album dei Tindersticks si intitolano entrambi Tindersticks). Questi quattro dischi (ma anche alcuni successivi) hanno una peculiarità: la bellezza delle loro musica è inversamente proporzionale alla bellezza della loro copertina. O direttamente proporzionale alla bruttezza. Insomma, per capirsi, sono dischi meravigliosi con un artwork alquanto discutibile. Ecco.

Si parte con Before You Close Your Eyes, con Stuart A. Staples, frontman e attore principale, ad ondeggiare dolcemente nel mezzo, prima di avvicinarsi al microfono per deliziare la platea adorante con la sua inconfondibile voce, e quel disperato, dimesso I never cry for our love/I never cry. 

Una delle prime sensazioni che provo, superato l’iniziale momento di sopraffazione emotiva e conseguente azzeramento delle facoltà cognitive, è la qualità dell’esecuzione. Voi direte “eh, grazie, sei solamente in una delle sale da concerto migliori al mondo!”; vero, però c’è dell’altro. C’è di più. E ne ho la riprova quando parte How He Entered, direttamente da The Waiting Room, un recitativo con una metrica non convenzionale, ovvero che fugge dal canonico 4/4. La narrazione di Staples poggia su una trama più scarna della versione su disco, che guadagna in espressività e funge da incontrovertibile banco di prova, senza appello, per la band, che ne esce in maniera sontuosa: di fronte ad un irreale devoto silenzio, su di un palco che non permette la minima sbavatura, che ti permette di riconoscere indistintamente un tocco di piattini (quelli da dita per intenderci) in mezzo a due chitarre, un basso, una batteria e il piano, non puoi fingere, non puoi nemmeno nasconderti, e la grandezza dell’esibizione dei Tindersticks risiede proprio (anche) lì, ovvero nella destrezza del gestire il piano ed il forte, di dilatare gli spazi e serrarli, di elevare il loro “pop notturno” a livelli d’eccellenza e raffinatezza (Willow, la conclusiva For The Beauty, tra le molte).

La scaletta, come logica vorrebbe, verte per quasi la metà sull’ultimo No Treasure But Hope, alla quale si alternano brani che coprono quasi totalmente la discografia della band. E faccio una seconda piccola digressione: delle mie ipotizziamo quindici canzoni preferite dei Tindersticks, se dovessi stilare un elenco, non ne è stata fatta nemmeno una; quindi esatto, niente Tiny Tears, Until The Morning Comes, We Are Dreamers, la già citata No Man In The World, Dying Slowly. Sì, hanno fatto A Night In, e Pinky In The Daylight, però che bello quando un artista non diventa vittima (o succube) del volere popolare, del bambino viziato, e anzi porta il pubblico fuori dalla cosiddetta comfort zone. È lì che la musica aggiunge valore, diventa educativa, diventa arricchente. È lì che si espandono gli orizzonti. 

È lì che voglio stare.

L’ha detto meglio di tutti Edward Morgan Forster: Spoon feeding in the long run teaches nothing but the length of the spoon.

Staples e soci si congedano con una magnifica A Night So Still, ennesimo suggello ad una vera e propria lectio magistralis musicale, misurata ma non pigra, elegante senza essere mai boriosa, alta ma mai altezzosa. Si alzano le luci e mi alzo in piedi assieme a tutto il resto del pubblico per tributare il giusto riconoscimento ad una band a cui devo molto e che stasera mi ha fatto sentire un privilegiato. 

 

Alberto Adustini