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Tag: vasco abbondanza

Anti-Flag “20/20 Vision” (Spinefarm Records, 2020)

Se molte band perdono in interesse per un’assenza di tematiche e contenuti, gli Anti-Flag hanno il problema opposto: gli scenari internazionali che soffiano venti di guerra imminenti, sono forse l’ennesima rampa di lancio per i ragazzi di Pittsburgh.

20/20 Vision è il nuovo album di una lunga serie, ma anche l’ennesimo guanto di sfida che i paladini della musica politicizzata internazionale della nostra generazione lanciano al “palazzo”.

Il rilancio del punk rock idealista passa necessariamente dalla Pennsylvania. 

Gli Anti-Flag evolvono senza perdere mordente, si districano in un turbinio di sonorità all’apparenza discordanti tra loro, ma legate come un nodo stretto in gola da una lunga carriera, che ha il sapore di un percorso coerente e imprescindibile. 

Chi ha avuto la costanza di seguire la band fin dagli albori troverà e subirà particolari flashback riconducibili ad album datati, chi invece avrà il primo approccio alla band con questo album, non rimarrà deluso dalla pienezza degli spunti messi in tavola. 

La varietà, per l’appunto è la colonna portante di questo lavoro. 

Un mastering azzeccato e avvolgente, suoni corposi dove batteria, basso ed elettriche si tramutano in una singola bolla di adrenalina. Una mescolanza di intro e outro che fanno da filo conduttore, quasi a voler dare al tutto l’aria di un concept album.

Il marchio di fabbrica rimane immutato, viene solamente puntellato di sfumature che danno uno scatto di maturità e flessibilità. Lo si capisce sin da subito con Hate Conquers All.

Le liriche di Chris#2 restano inconfondibili, lo scream mai invasivo e il trasporto emozionale, degno di un live ben riuscito incarnano tutta la voglia e l’attitudine esplosiva di questo mattatore. 

Il “cantato” di Justin Sane invero sembra aver avuto una sensibile modifica, a volte poco riconoscibile rispetto alle sue trentennali performance, tipologia di canto anomala, abbandonando l’accento grezzo verso una più appoggiata denuncia melodica. Esula dal discorso il primo singolo Christian Nationalist, vero e proprio cavallo di battaglia in cui si ritrova il frontman di vecchia data.

Con Don’t Let the Bastards Get You Down salutiamo dal lunotto posteriore dell’auto The Clash, ma anche The Terror State del 2003 prodotto da Tom Morello dei Rage Against The Machine.

Con a Nation Sleep ti addormenti di colpo e ti svegli in un’appendice di Underground Network, tempi raddoppiati, tecnica e velocità a fondersi in puro hardcore melodico. 

Luci soffuse nella ballad filo radiofonica Un-American, brano degno di una nostrana Virgin Radio per intenderci, che spalanca le porte ad un finale trionfale supportato da trombe e fiati per i titoli di coda redatti da una nostalgica ed energica Resistance Frequencies.

L’innesco di qualche brano pop punk potrebbe far storcere il naso agli intramontabili nostalgici, ma la musica come la vita è fatta di lampadine che si accendono e questa volta gli Anti-Flag hanno addobbato un albero di Natale. L’irriverenza di You Make Me Sick  non ha bisogno di presentazioni, il titolo serve un assist automatico.

Emerge tutto il fuoco che ancora brucia dentro questi ragazzi del popolo, artisti che hanno fatto della musica un tramite per abbracciare gli ultimi. 

Non è scontato mantenersi nella giungla del sociale quando le sorti del mondo da tanto tempo hanno sempre gli stessi protagonisti ma con facce diverse. 

Gli idealisti che amano il punk rock però possono avere ancora qualcuno in cui credere, in cui appellarsi. 

Gli Anti-Flag incarnano ancora una scuola di etica e tecnica, sopratutto nel mondo del “tutto e subito” dando una lezione importante, quella delle priorità. 

A conti fatti la vita dell’uomo viene prima del successo, cosi come il messaggio di unione viene prima della musica stessa.

 

Anti-Flag

20/20 Vision

Spinefarm Records

 

Vasco Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo Nove

“Stare lontano da lei non si vive, restare senza di lei mi uccide”

 

Lucio Dalla

 

 

Ti affezioni a certi oggetti, a certe semplici abitudini, a certi gesti. Ti affezioni nel prendere la via dell’ordinario senza snaturare, sgretolare e inaridire giornalmente lo stimolo di fare.

Suonare uno strumento non è del tutto un gesto meccanico, nemmeno sempre un rito sacro per carità. Suonare uno strumento è un collage di situazioni, condizioni e stati mentali, correlati indissolubilmente anche allo stato fisico. Lo paragono a volte al modo in cui scendevo in campo nel mio passato calcistico. Che sia stato allenamento o partita ufficiale, ogni primo passo e ogni prima palla toccata, ogni prima giocata, sanciva il tipo di relazione mentale che avrei avuto da li alla fine dei giochi.

Cosi succede per la prima pennata sulla chitarra. Lo senti il manico, se morbido o ostile, le senti le dita della mano che scandiscono il ritmo, se seguono la linearità del vento oppure no, lo senti il feeling con lo strumento, un po’ come appoggiare l’orecchio sul petto dell’amata e sentirne il pulsare del cuore, capendo che quel frangente di tempo è perfetto cosi e nessuno te lo potrà portare via.

E penso probabilmente in maniera folle o del tutto surreale che spesso sia proprio la tua “arma” spara note a dettarti i tempi, a darti e trasmetterti quel che ti manca in corpo in quel preciso momento, un po’ come ad accompagnare lentamente la palla in rete sulla linea di porta dopo un assist al bacio di un compagno di squadra (se vogliamo ritornare nella metafora calcistica).

Hai magari fatto una partita imbarazzante fino a quel momento ma l’aver insaccato quel pallone, palesemente per meriti che ti appartengono ben poco, fa decollare il match nel corpo e nell’anima, e da quel punto la musica cambia, la scossa è arrivata, si cambia registro, arriva qualcosa a compensare il vuoto di giornata.

Ed è cosi con lo strumento quindi, capisci che ti trasmette , che ti parla, probabilmente rendendoti indietro quello specchio di intensità e passione datole in precedenza.

Mi ha sempre affascinato e davvero mi ha illuminato di vita una leggenda giapponese che narra un concetto molto semplice ma che se preso sul serio rischia veramente di farti vedere il mondo con un’altra ottica. La storia vuole semplicemente dare un’anima alle cose, agli oggetti. Un’anima toccata dalle tante o poche persone che ne hanno fatto o ne fanno uso. Può sembrare pazzia, ma ripeto che lo è per chi si adegua a rispettare regole morali fondate sulla moderazione dell’anima.

Questa per me è divenuta una certezza abbastanza consolidata e a dir la verità è una convinzione che permette ai miei momenti di out cosmico di non sentirmi mai veramente solo. Mi incentiva all’applicazione pensare e credere che la mia chitarra preferita, storica (per giunta giapponese) ha la facoltà di sentirmi e consigliarmi, seguirmi ed aiutarmi, capirmi e perdonarmi.

Emma, questo è il suo nome.

Lei è una modestissima Takamine acustica, amplificata, mancina. Una chitarra semplicemente onesta, adatta perfettamente a me che sono un musicante che canta canzoni proprie in chiave punk folk, ma con la vena cantautorale stretta al nodo dell’orgoglio.

Chitarra che non si esalta in troppi virtuosismi, ma lo fa in linee guida che facciano da cuscino alle parole per renderle più morbide possibili. Legno chiaro, un’”ascia” normale che però nel corso di questi anni ha raggiunto una maturazione d’esperienza importante, trasformandola per me in un sacro e venerabile prolungamento del mio essere.

Ne ha viste più o meno di cotte e di crude in questo lasso di tempo e mi chiedo alle volte cosa racconterebbe se avesse la facoltà di parola per solo dieci minuti. E qui un classico legame “professionale” o di circostanza diviene un rapporto vero, legame profondo, una promessa reciproca che regala alla passione, al progetto, che poi è semplicemente la tua vita, una vena poetica e romantica.

Il tempo passato assieme, dai primi palchi blasonati, alle serate a chilometri infiniti da casa per esibirsi davanti a nessuno. Alle serate al fiume, alle giornate nel bosco, agli acustici col side project cantando i brani dei cantautori della mia vita. Alla “Pasquella”, vero e proprio rito sacro musicale Romagnolo nelle notti del 5 e 6 gennaio, ai campeggi estivi ed invernali, ai video clip girati in ogni condizione atmosferica, ai matrimoni degli amici, alle notti insonni a casa e a tutte le prove di questi anni.

Sommersa di risate, sommersa di lacrime, sommersa di gioie ma anche di tanto odio tramutato poi in ispirazione e necessità di emergere da ceneri un po’ troppo dense. Parte della famiglia insomma, parte di un modo di pensare e parte integrante di ogni ricordo che meriti di essere scalfito nel firmamento della memoria. Posso dire, appellandomi alla questione che ho esposto in precedenza che la mia chitarra mi conosce come un fratello o una sorella, nell’intimo, nella profondità del labirinto che traccia l’impellenza di fare musica.

Il principio di condivisione spinge ad affezionarsi e a legarsi per la vita a certe cose, per questo rimarrà sempre con me anche quando sarà ora di congedarla. Non puoi essere indifferente a questo se vivi coi nervi scoperti la musica come un’attitudine, come dovrebbe essere vissuta la politica per capirci bene, senza fini, se non quelli del benessere personale e comune.

Sarà difficile mandarti in pensione mia cara, ma l’usura e il tempo stanno parlando chiaro. Mi accorgo però del tuo sforzo, noto realmente che in certe situazioni chiedi una tregua, me lo fai capire e sento la stanchezza nel tuo corpo di legno che no sarà mai solo un involucro di suoni senza linfa.

Dopo mille revisioni, botte, sudate e sventagliate di sangue, cerchi la tua giusta cerimonia di chiusura, pronta per essere appesa al muro della stanza più importante di casa, in modo da essere sempre sotto la supervisione del mio sguardo, in modo che nei momenti di solitudine possa parlarti in maniera franca come fatto fino ad ora.

Può sembrare una cosa da matti parlarti, ma in fondo, chi sono realmente i normali?

Non di certo noi, e nemmeno vogliamo esserlo, per questo anche se le tue corde andranno a risuonare sempre meno e non sarai più cosparsa di birra e sudore, tu sarai sempre la mia fedele compagna di viaggio. Per sempre mia cara Emma, fedele ed intramontabile amica.

 

 

Diario di una Band – Capitolo Otto

Canzoni che ti salvano la vita Che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” Che ti danno la forza di ricominciare Che ti tengono in piedi quando senti di crollare Ma non ti sembra un miracolo Che in mezzo a questo dolore E tutto questo rumore A volte basta una canzone Anche una stupida canzone Solo una stupida canzone A ricordarti chi sei

 

Brunori Sas

 

 

Avete presente quei giocattoli degli anni ‘80 ‘90 che tornano come pezzi da collezione introvabili?

Ovviamente parlo come uno che è nato nella precisa metà degli anni 80, quindi perdo letteralmente il senno quando alla visione di certi giocattoli, veri e propri cimeli, riassaporo tempi andati ed incredibili flashback roboanti di scalpore emotivo. Sapori, odori, sensazioni. Come un sottilissimo filo invisibile legato al polso che senza preavviso ti strattona verso una capsula del tempo dall’efficienza immediata. Ricordo i “Masters”, il caschetto biondo discutibilissimo di He-Man e la faccia di mio fratello Mattia quando ci regalarono il castello di Grayskull. Coltivo e rinnovo un affetto smisurato per i “Ghostbusters”, dalla Ecto 1 in bacheca al fucile protonico che sparava cartucce gialle di plastica leggera, il giubbotto di jeans nero con il simbolo intramontabile degli acchiappa fantasmi e la visione a dir poco dozzinale di entrambi i film, capendo solo dopo i trent’anni di sapere a memoria ogni battuta dei lungometraggi. Ci sono le videocassette delle “Ninja Turtles” e la sigla di “Mazinga”, le canzoni (perché erano due e straordinarie entrambe) di “Carletto il principe dei mostri” e “Devilman”, la corsa a scuola cantando “Denver” e l’idiozia della ricreazione imitando “Pingu”. In realtà Pingu tutt’ora emerge in qualche aperitivo lungo con gli amici.

C’era 90°minuto a cena dai nonni e la Domenica Sportiva che sanciva innegabilmente la fine del week end coi gol di Van Basten e Maradona e l’attesa già spasmodica del piccolo spazio dedicato alla serie B con la speranza facessero vedere i gol del Cesena in trasferta. C’era guardare di straforo “Colpo Grosso” e l’harem di Umberto Smaila, c’erano “Bayside School” e “Willy il principe di Bel Air”, c’erano le “Micro Machine” e la fissa per lo “YO YO”… insomma un’infinita officina di ricordi che ora in maniera onesta ma spesso agrodolce vanno giustamente a mortificare l’asettico sviluppo dei nostri calvari giornalieri.

E cosa possiamo dire in merito della musica?

Sono certo che la musica fino all’avvento di internet e dei famigerati masterizzatori avesse un peso umano sicuramente differente, si prendeva con i guanti, ci si documentava per interessi, c’era una cultura del tutto più “paziente”.

Per carità, non scannatemi, adesso è tutto pocket, è tutto smart, è tutto di facile accesso e le possibilità di ricerca sono assolutamente quintuplicate. Il concetto che voglio trasmettere è che forse si è arrivati ad un punto di saturazione tale, ad un livello di possibilità talmente amplio che anche la ricerca verso un genere o una band particolare perde di senso ed efficacia.

Io per primo sono legato come una sorta di schiavo moderno alla magnificenza di Spotify. In casa, sul lavoro, in macchina, appena sveglio, prima di dormire, in campeggio, in vacanza, in tour con la band. Comodità e possibilità ad un prezzo più o meno ragionevole, insomma il costo esatto di due birre medie al pub. Però è chiaro che bisogna diversificare la strada e l’esperienza di come si è arrivati a sto punto partendo da un fulcro generazionale di base e avere la totale cognizione di ciò che non si è perso lungo il cammino.

I cinquantenni ora come ora sono i soggetti più a “rischio” nella giungla di Facebook e dei social network, per l’inesperienza sul campo, non per demeriti intellettuali o cognitivi, ma semplice abitudine di azione. Col serio rischio di demolire sottilissimi argini di decenza con fake news e un mondo nuovo all’apparenza disordinato che scombussola l’ormone ormai indirizzato al declino, si può incappare nella più totale e illogica strumentalizzazione del canale. In maniera speculare, con connotati diversi ma concettualmente similari le nuove generazioni hanno lo stesso tipo di bombardamento, subire delle circostanze senza conoscerne la fonte ne la motivazione. Non generalizzo in merito ma per lo meno una grande fetta non ha la cultura e la sacralità del gestire e manovrare la musica col rispetto che merita. Non è una colpa che si deve additare ai soggetti in questione. La struttura egemonica dei colossi musicali non lascia troppo all’immaginazione, il martellamento mediatico è a prova di scudo e ribellione, la RICERCA MUSICALE non è più tale semplicemente perche è divenuta una RICERCA di MERCATO. Ed è qui che muore la sovranità dell’anima e del passare le notti a guardare il cielo.

E qui arrivo al punto bisogna trovare una soluzione, una speranza, un simbolo.

Su due piedi penso solo a una cosa. IL VINILE.

Cazzo il vinile ancora oggi quanto spinge? Quanto regala? Quanto gusto trasmette tenerlo in mano, sfilarlo con cura e poggiarlo sul gira dischi con flemmatica cura? Impagabile. Potrà sembrare un viaggio anacronistico ma è il vero e unico viaggio della speranza che ci resta. Una forma di contatto coi nostri genitori, una formula alchemica che soddisfa più sensi in blocco, quello della vista, il senso del tatto e il senso dell’udito. Quel fievole saltellare accompagnato da un soffio leggero che esce dalle casse prima che parta l’inconfondibile sonorità che solo il disco può regalare esploda nella sua magnificenza.

Si potrebbe e si dovrebbe fare un discorso di questo tipo a chi vuole approcciare alla musica, raccontare le scorribande in scooter verso la “Sound and Vision” non appena la paghetta entrava nel marsupio della Napapijri e setacciare ogni angolo infausto del negozio di dischi che diventava in quel lasso di tempo una caccia al tesoro troppo importante. Non si poteva tornare a casa con un album scontato e quindi partiva la guerra di chi difendeva il punk all’italiana, chi si faceva paladino del metal, chi con lo skate oramai adottato come un estensione del proprio corpo non vedeva altro che la California in ogni sua forma. C’era dialogo e c’era competizione, sana e genuina, di quelle battaglie costruttive che ora comprendo meglio e ne faccio tesoro come una lezione di filosofia.

Semplicemente non ci siamo accontentati e abbiamo cercato e cercato la nostra strada fino a capire quale fosse il lido giusto in cui approdare, senza però perdere la libertà di scoprire e sperimentare.

Scrivendo queste righe mi accorgo della fortuna che ho avuto, non me ne faccio vanto come una mia conquista, il merito va ai miei genitori che di vinili e musica “buona” sono tutt’ora ghiotti ed è stato forse facile crescere con questa mentalità. Essendo sempre stato libero di scegliere ogni mia mossa, senza che mi fosse recriminato mai nulla anche quando della musica non me ne fregava troppo e pensavo solo a diventare un calciatore.

Insomma non si può recriminare un intera generazione se le cose vanno da schifo, se la politica collassa, se lo sport è un concorso di bellezza e se la parola e il dialogo sono stati soppiantati da uno smartphone. Loro, i giovani, ci sono nati in questo brodo fetido e non possono agire diversamente se non hanno esempi.

Quindi lunga vita a chi ci prova con la forza dell’interesse e della determinazione, a chi spende parole, tempo e penseri affinché vengano presi e coltivati da menti che hanno bisogno di essere plasmate. A chi non resta nelle quattro mura di casa, a chi spalanca le finestre ed alza al massimo volume la propria musica, la colonna sonora della propria vita. Una dedica ai miei colleghi di Vez Magazine, pionieri moderni di una vecchia ed immortale regola di vita, L’amore per la musica, fiero di farne parte al vostro fianco.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Diario di una Band – Capitolo Sette

 

“Non vivo la crisi di mezza età dove “dimezza” va tutto attaccato

Voglio essere superato, come una bianchina dalla super auto

Come la cantina dal tuo superattico

Come la mia rima quando fugge l’attimo

Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo

Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene”

 

Caparezza

 

Che sia la forza di un concetto, la vita presa di petto, un desiderio, un sospetto

Che sia la forza di mille comete, continuare a bere di gusto dopo aver sedato la sete

Che sia toccare per davvero la luna, quando anche le stelle prima o poi ci porteranno fortuna

Che sia un fiume in piena alla luce dell’alba, in mezzo al casino gestire la calma, col peso di piuma

sfiorare la calca, combattere il male con un colpo d’anca

Che sia la birra gelata dopo il lavoro serrato, il dovere gestito con tocco fatato, un tocco di fino, un

gol su punizione, colpendo la porta e il tifoso nel cuore

Che sia prospettiva e rimprovero onesto, l’immensità sacra nella vittoria di un gesto

Che sia una montagna all’occhio profana, scalare la vita con rabbia puttana, una roccia che fa da

scalino alla notte, il whisky perfetto proteggendolo in botte

Che sia lo sviluppo di una pace maggiore, quando l’universo si presenta come il vero Signore

Che sia marmellata sbordante sul pane, il sospiro finale sul punto di atterrare

Che sia un ballo stupido ma pieno di vita, gli applausi che fanno bruciare le dita, come fiori di luce

sparati da un mitra, bello come Marco Pantani in salita

Che sia un viaggio lungo e non scarno di ostacoli, afferrare la curiosità con mille tentacoli,

custodire i segreti del vino e degli acini, il sacrificio perenne della schiena degli asini

Che sia un’esistenza colorata di rosso, del tramonto, del sangue, debellare il “non posso”

Che sia un passo veloce, spedito e raggiante, che sia comunicare con tutte le piante, una corsa

infinita sull’otto volante, una risata da lacrime dal frastuono incessante

Che sia non avere buttato via il tempo, l’aver costruito mantenendo il fermento, anche quando ero

spento, anche quando dalla finestra vedevo solo cemento, quando la paura superava l’intento,

quando ho scelto un animo attento, quando ho deciso di comandare il vento

Che sia frustrazione quando si fallisce il bersaglio, cadere e ogni volta e fomentare il bagaglio,

magari curare il dettaglio, credere a un abbaglio e godere dello sbaglio se placherà il travaglio

Che sia legittima intesa, che sia una guida tenace e distesa, lontano da offesa, offesa verso il

pensiero totale, lontano dallo sporco inconcepibile del mare

Che sia un’abbuffata di more nel bosco, una voce mai udita che però riconosco, un’ossessione erotica dal profilo un po’ losco

Che sia leggiadria della mano sul manico, di basso, di chitarra, soppiantare il rammarico, un cannone di musica perennemente carico, incrociare lo sguardo dopo l’attesa sul valico, che sia un onesto “ragazzi ora niente panico”

Che sia lo scorrere di mille immagini, di ponti, di corde, distruzione degli argini

Che sia il più schietto vagabondare, l’arte dell’ozio unita a quella di amare, un colpo di sole che fa tentennare, l’onda perfetta su cui ricominciare

Che sia un ritrovo, un patto, un incontro cercato, ritrovare la strada su cui si è camminato, ritrovare lo spirito di un nonno ormai andato, far brillare il suo sguardo ancor determinato

Che sia finire la storia di chi non c’è riuscito, stringer mano alla vita ed accettarne l’invito, il patrimonio invisibile di chi l’ha capito, la libertà reticente di chi non può aver finito

Che sia la nuvola che soddisfi ogni mia sete, che sia il fuoco che sorregga le scelte mie incomplete, che sia la spinta verso il vuoto, che l’acquario dove nuoto, non accontentarsi della sufficienza, che sia un matrimonio con la determinazione e con la pazienza.

 

 

La speranza, come un compartimento stagno deve essere sempre presente, come un nucleo operativo centralizzato che coordina le scelte artistiche e non. Fare i conti con i propositi ha velature abbastanza paradossali, il gratificante sentore iniziale, la chimica che interagisce sul corpo dando sventagliate di compiacimento e soddisfazione, per poi elaborare l’idea e pensare in mezzo secondo a come sviluppare il proposito all’atto pratico. Sicuramente scrivere canzoni può avere il rovescio buono della medaglia, non essendoci una legge scritta e immacolata su come comporre brani.

Si può mettere in mostra la propria vena anarchica, partendo dal testo, da un soggetto, da una storia, da un giro di chitarra, da un po’ quello che si vuole. E la noia resta davvero alla larga quando si cerca una corrente sempre nuova per fare musica, stimolante e utile anche al fine personale di crescita artistica e perché no umana. Reinventarsi nella forma e nel colore come dicevano i Litfiba, perché è questo fare musica, reinventarsi, stupire se stessi, impressionare se stessi è la chiave di lettura per catturare l’ascoltatore ed il lettore.

Insomma abbiamo passato la vita a credere che si potesse colorare solo dentro alle righe, non uscire dai margini e vedere le sbavature come una proiezione di errore imprescindibile. Non voglio lazzo e non voglio neanche confini, sia in termini artistici che in termini esistenziali. “Combattere” la vita con la curiosità e la necessità fottutamente accesa nello scoprire cosa c’è oltre la montagna è la presa di posizione più romantica e interessante che un singolo individuo può regalarsi.

Significa vivere, non accontentarsi, migliorare chi si ha vicino e migliorarsi.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Diario di una band – Capitolo Uno

“Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma 
la foto della scuola non mi assomiglia più  ma I miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro sarà sempre attraverso questo cuore.
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni ma resterà qualcosa in questa strada. 
Non mi è concesso più di delegarti I miei casini. Mi butto dentro vada come vada.”

Jovanotti

 

Capitolo Uno

 

Abbiamo sempre bisogno di attaccarci a qualcosa, per esigenza, per noia, per paura, per sfida, per non sentirsi dalla parte di un’utilitaria da rottamare. Massimo rispetto sia chiaro, a chi macina chilometri in maniera incessante, riconoscendo i propri limiti che spesso sono dettati dalle possibilità e non dalle intenzioni.

Fare parte di una band è un po’ cosi, un crocevia tra l’officina di un meccanico e la potenza di un decollo di un 747, avendo ovviamente il controllo della cloche.  La parola “band” parla di tutto e parla di niente, può prendere le sfumature più improbabili come può cadere nella banalità più sgretolante. Chiunque può utilizzare il termine band, non tutti però hanno il privilegio e la credibilità di poterla rapportare alla concretezza della vita vissuta.

Un po’ come se la musica ad un certo punto passi in secondo piano, un po’ come se la musica stessa sia a decidere come comporre la tua vita e quella dei tuoi compagni di viaggio. Una rovesciata come stile di vita, un capovolgimento di fronte, talmente incisivo che ti permette di sederti, di metterti comodo e farti scegliere dalla musica stessa senza temere paure verso il futuro.

Alchimia che si sviluppa in base a quello che hai voluto diventare fino al punto di incontro indissolubile con la musica, come un rito pagano, come un matrimonio, una promessa: “Musica ho scelto te in ogni momento, cercando di metterti al centro di ogni mio stato d’animo… ora tocca a te prenderti cura di me perché ho bisogno di risposte dalla vita e tu sei stata sempre presente nel bene e nel male, mi fido”.

Chi può conoscerti come ti conosce la musica?  Forse la mamma, forse un fratello o una sorella, forse la tua band.

Diventare parte di un meccanismo, abbattere il ponte del tempo, abbandonare lo smarrimento esistenziale e non aver paura di rischiare quel qualcosa in più che ti ha tenuto per troppo tempo per le palle. Mettersi in ballo con le scarpe più comode e decidere di ballare fino a quando le gambe avranno la forza di sorreggerti. Insomma, siamo tutti bravi a raccontarci le favole, a perdonarci la pigrizia e a mollare alle prime difficoltà.

Vero e per nulla sbagliato, però la vita all’interno di una band è un concorso di colpe e di coscienze, di pacche sulle spalle e calci in culo costruttivi, di risate e discussioni, atte sempre al fine massimo ch’è costruire una storia che meriti la pena di essere vissuta. Ne deve valere la pena, ne deve valere soprattutto l’allegria.

Vivere all’interno di una famiglia ti mette di fronte a scelte, a caratteri distinti e a sacrifici.

Quando capisci che una band funziona? Lo capisci quando ti puoi scornare prima e dopo un concerto per dei punti di vista distanti, ma riesci con senso del dovere a mantenere senza sforzo l’integrità umana basilare, il dire “grazie” o  “per piacere”, rispetto sacrale verso gli addetti ai lavori, vero tappeto fatto di storie e persone che permette lo scorrimento giusto di uno show. Questo è quello che fa dei componenti di una band degli uomini e non delle comparse senza luce.

Concetto scontato? Purtroppo no, negativo.

Se nella musica di inizio anni 2000 si poteva ancora parlare di politica, di voglie impresse e di straordinari concetti corali appoggiati su di una base etica solida, ora non abbiamo la stessa stabilità di appoggio. Lo stiamo dando per scontato, la stiamo dando come una banale circostanza quella dell’educazione, la sua assenza è il vero cancro sociale, supportato in malo modo da una popolazione che si è abituata a guardare solo i colori del proprio giardino e disposto a tutelare spesso nemmeno i colori del proprio recinto ma accontentandosi in maniera remissiva di fiori in scala di grigio.

Suonare in una band e viverla ai miei giorni è un atto di responsabilità verso me stesso in primis, è un atto di responsabilità verso chi spende il proprio tempo ad ascoltare la mia musica e venire ai miei concerti, e terzo, è un atto di responsabilità verso chi ha formato la tenacia e la paura della mia penna e della visione del mio mondo.

Suonare in una e per una band è un atto d’onore, di rivoluzione, un atto d’amore verso la vita. Per questo ora soffro nel vedere la scena musicale italiana trasformarsi in “o-scena” musicale italiana. Senza presunzioni, né autocompiacimenti sia chiaro, non risiede nel nostro DNA questa triste attitudine, non siamo nati per le auto-celebrazioni, né per dissetarci con le nostre stesse lacrime.

Quello che vorrei fosse rispolverato è che l’ascoltatore accenda la lampadina della curiosità, della ricerca. Tralasciando la tecnica o il virtuosismo, ma ricercando artisti che mettono cuore e sentimento, che abbiano speranza nella gente e un senso di comunità genuino che possano fare di tre accordi banali una nave da crociera che porta in lidi sconfinati. Utopia o banale speranza, chiamatela come volete ma poco importa, suonare in una band deve essere equilibrio, come lo deve essere il rapporto con il  proprio partner.

Voglio che si torni a trovare equilibrio non come premio straordinario da privilegiati, nemmeno imporlo come un fottuto bilanciamento necessario, voglio che l’equilibrio sia una scelta perché non è per tutti ed è maledettamente giusto sia cosi. Voglio che l’equilibrio sia una scelta di essere. Voglio essere uno zaino protonico che cattura i fantasmi della gente, li trasporta dentro a un amplificatore che di conseguenza li scaraventa fuori, finalmente innocui.

Suonare in un band per come la vivo io è credere nelle persone, credere che si possano annullare le distanze, credere nel rispetto verso la penna, la vera arma che deve sancire un ritorno alla serenità e all’indipendenza intellettuale.

Confido in me, nella musica e soprattutto nella mia band, la famiglia che mi sono scelto perché mi da l’equilibrio necessario che mi tiene vivo.

 

Vasco Bartowski Abbondanza