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The Smashing Pumpkins: una storia d’amore

Il primo amore non si scorda mai e il mio primo amore, musicalmente parlando, sono The Smashing Pumpkins.

Il primo vero momento significativo della nostra storia è nel 1998 con la pubblicazione di Adore. Ad essere sincera, non ricordo esattamente il momento del colpo di fulmine che ha iniziato il tutto, forse non c’è nemmeno stato, forse è stato un lento convergere verso questo gruppo che in un momento storico in cui il grunge era allo sbaraglio per la morte di Kurt Cobain e il brit pop non era nelle mie corde, The Smashing Pumpkins erano coloro che avevano qualcosa da dirmi, in cui riuscivo a riconoscermi.

Che cosa, di preciso, mi affascinasse così tanto della loro musica, non riesco ancora a razionalizzarlo dopo più di vent’anni di ascolto: in primis furono le atmosfere gotiche, graffianti e rabbiose del singolo Ava Adore, ma poi fu la dolcezza e la malinconia delle storie raccontate in punta di dita sul pianoforte che mi fecero innamorare.

Adore nel 1998 fu un album innovativo, coraggioso nella scelta di sopperire con synths e drum machines al temporaneo allontanamento del batterista Jimmy Chamberlin – tranne che per un brano, la toccante For Martha, in cui la batteria viene affidata a quel Matt Cameron di Soundgarden e Pearl Jam come a sottolineare che dopotutto l’animo grunge che aveva avviato il gruppo non è stato del tutto archiviato come “passato”.

Già l’anno prima i Radiohead avevano fatto da apripista ad una svolta elettronica nella produzione di un gruppo rock e critici ed ascoltatori avevano accolto Ok Computer osannandolo, mentre Adore provocò frattura tra la band e i fan e tra i fan e la critica. Il coraggio, il genio visionario ed imprevedibile di Billy Corgan non fu capito da chi si aspettava un altro Mellon Collie and the Infinite Sadness, ma per chi come me in quegli anni viveva l’inquietudine della fine dell’adolescenza e l’ansia dell’ingresso nell’età adulta, fu un posto sicuro dove andarsi a rifugiare.

Innamorarsi di un gruppo nel momento più controverso della sua produzione mi ha permesso di approcciarmi a tutto quello che venne prima in modo più critico, forse con meno aspettative, anche se dopotutto, di che aspettative stiamo parlando? Prima di Adore The Smashing Pumpkins erano un gruppo grunge rock, diamante grezzo, dopo Adore una gemma scintillante dalle molteplici sfaccettature, un diamante però, purtroppo, classificabile VS1: inclusioni molto piccole ma pur sempre difetti, che alla lunga si sarebbero tramutati nel disastro e dissoluzione della band come l’abbiamo conosciuta fino al 2000.

Ma torniamo alla nostra storia d’amore: Adore è stato l’innamoramento, Machina l’attesa del ritrovarsi di quando si vive una relazione a distanza ed il primo sentore dell’aspettativa delusa.

Non sono passati neanche due anni da Adore e siamo di fronte ad un nuovo cambio di stile, una ricerca di un’identità difficile da trovare: “Amore mio, sei cambiato, non ti riconosco più”. Da una parte l’hard rock graffiante del primo singolo The Everlasting Gaze strizzava l’occhio a chi amava The Smashing Pumpkins di Tales of a Scorched Earth, il secondo singolo Stand Inside Your Love cercava (e ci riusciva) di abbracciare gli animi decadenti che avevano amato Adore, mentre con Try Try Try si cercava una svolta pop che non è mai per fortuna veramente arrivata. Il risultato? Un guazzabuglio non del tutto convincente. Lo disse la critica, lo sapevano i fan, lo sentiva anche il gruppo che nel frattempo aveva ritrovato Jimmy Chamberlin ma aveva sostituito la bassista fondatrice D’Arcy con Melissa Auf Der Maur delle Hole.

Cosa succede quando uno dei due nella coppia è confuso e non sa più cosa vuole? Amaramente, ci si lascia. In questo caso, l’occasione fu il tour di addio alle scene.

 

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Era il 27 Settembre 2000, al palazzetto di Casalecchio di Reno a Bologna. Era il primo vero concerto che andavo a vedere in macchina da sola. Il biglietto, comprato in un torrido pomeriggio estivo post maturità con la mia migliore amica del liceo, era la materializzazione di un’impetuosa presa di coscienza della nostra nuova condizione di adulti, persone che possono prendere decisioni seguendo le loro passioni per fare esperienze. Quella sera per me fu un’esperienza musicale e di vita: il concerto prima, il fatto di dovermi arrangiare a compilare un modulo di constatazione amichevole per essere rimasta coinvolta in un tamponamento a catena in tangenziale poi.

Di quel concerto porto nel cuore immagini sfocate, ancora non avevo l’abitudine di portarmi una qualche sorta di macchina fotografica con me per aiutarmi a ricordare, ma sul palco The Smashing Pumpkins erano come nelle foto dei booklet degli album: i lunghi abiti neri, la presenza magnetica di Billy Corgan, giovane pelato e schivo, le canzoni che amavo e che speravo di ascoltare, dai singoli mainstream fino ad un paio di oscuri pezzi tratti da Machina II… ma uno su tutti è il ricordo di quella notte, l’ultimo bacio tra due amanti, una memoria così intensa da essere quasi tangibile: un pianoforte a coda sul palco, un fascio di luce che illumina Billy Corgan, Blank Page con i suoi rimpianti, fantasmi, un addio struggente, la speranza di un futuro comunque ancora tutto da scrivere.

Da lì a poco il gruppo si sciolse, ci perdemmo di vista per non trascinare una storia finita, ma non era facile riempire il vuoto lasciato dalla consapevolezza che non ci sarebbero più stati nuovi album e nuovi tour de The Smashing Pumpkins. Certo, nuovi gruppi stavano attirando la mia attenzione e stuzzicando il mio gusto musicale, ma come ogni volta che una storia d’amore si chiude, ci si riduce a guardare indietro ai ricordi, in questo caso ai dischi passati, finché al dispiacere di un futuro che non ci sarà si sostituisce il conforto di quello che c’è stato.

È nei primi anni 2000 quindi che riscopro e creo un legame fortissimo con Siamese Dream facendone la colonna sonora della preparazione all’esame di Analisi I, uno di quei rari album che sono perfetti così come sono, nella loro interezza e allo stesso tempo a livello di singolo brano.

La stessa cosa non mi sento di poter dire invece di quello che per l’opinione pubblica è il loro capolavoro, Mellon Collie and the Infinite Sadness: un’opera magna di due ore di musica ma a cui a distanza di tanti anni e tanti ascolti fatico a trovare un senso, una coerenza stilistica o un percorso concettuale che mi porti dall’intro al pianoforte del primo disco attraverso il picco compositivo di Tonight Tonight alla rabbia di Bullet with Butterfly Wings, dal divertissement di We Only Come Out at Night alle nuances hardcore della già menzionata Tales of a Scorched Earth. Se The Smashing Pumpkins ed io ci fossimo conosciuti nel 1995 invece che nel 1998 e Mellon Collie fosse stato il nostro primo appuntamento, sarebbe stata una di quelle serate in cui parli tanto ma superficialmente di tutto, scattano delle scintille, ci sono baci appassionati, ma poi ci si perde, ci si distrae e qualcosa non porta al secondo appuntamento.

Ad ogni modo, come dicevamo all’inizio, il primo amore non si dimentica mai e nel tempo capita di incontrarsi di nuovo, una visione sfuggente dall’altro lato della strada, un passante con il suo profumo che ti risucchia nel passato. Questi momenti sono stati i tentativi non troppo brillanti di Billy Corgan di riaccendere l’interesse per il suo gruppo con Zeitgeist e Teargarden by Kaleidyscope, passaggi sfuggenti di un’ombra che accarezza la pelle. Mancava qualcosa, mancava qualcuno, mancava il tocco di James Iha, silenzioso quanto incisivo ingranaggio per rendere il meccanismo di nuovo perfetto come una volta.

E poi succede un giorno, il 18 Ottobre 2018 alla vigilia del mio compleanno, che i pianeti si riallineano e il destino riporta me e The Smashing Pumpkins nel luogo in cui ci siamo salutati per l’ultima volta. Sono passati 18 anni, io sono cambiata, loro sono cambiati. Ci ritroviamo per tre ore di concerto in cui mi è passata davanti agli occhi la mia vita da adulta fino ad ora: mi sono rivista diciottenne davanti allo stesso palco, sicura della mia scelta per i cinque anni a venire di studi universitari. Un ricordo flash del 2007, io che esco dal mio primo appartamento in cui ho vissuto da sola, nel cuore di Capitol Hill a Seattle, e vado al negozio di dischi proprio attraversata la strada a comprare una copia di Zeitgeist a scatola chiusa, spaventata e allo stesso emozionata come quando si riceve un messaggio dal tuo ex che non senti da anni, solo per renderti conto che aveva sbagliato numero o che l’edizione speciale dell’album che avevi preso dallo scaffale era, per errore, senza cd. E poi gli anni di ricerca, scientifica, musicale e di vita, attraverso lavori, concerti e persone, accompagnata da nuovi amori, alcuni passeggeri altri più duraturi, fino a convergere di nuovo nello stesso tempo e luogo, a Bologna.

Tre ore catartiche, che sono state un pugno nello stomaco e una carezza, che mi hanno fatto svegliare e capire perché, incrociando lo sguardo limpido degli occhi senza età di Billy Corgan, in questi anni i tanti concerti dei Pearl Jam, gruppo su cui ho trasferito il mio amore più per la loro città di provenienza che per la loro musica, non sono mai riusciti ad emozionarmi fino in fondo come invece riescono The Smashing Pumpkins su un palco: perché il mio cuore non era con loro, perché la mia identità musicale non è rappresentata dai buoni senza macchia e senza paura, ma da un ribelle spavaldo che non ha paura di urlare al mondo, di farsi amare ed odiare in egual misura ed intensità, che oggi sa chi è e si vuole bene per la persona che è diventata, lui a 52 anni, io a quasi 38.

Da quella sera The Smashing Pumpkins ed io abbiamo ricominciato a frequentarci e a vederci più spesso per festival e concerti, come amici ora, che hanno condiviso una profonda passione in gioventù ma che sono cresciuti e che possono guardare al presente, al passato e al futuro con l’affettuosa serenità di chi sa che il primo amore ti accompagnerà sempre.

 

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Testo e Foto di Francesca Garattoni

 

Luciano Ligabue, l’amore e il “tenere botta”

Oggi sono chiamata a raccontare, da brava VEZ, la storia del mio cantante del cuore e ho deciso di sentirmi libera di esprimere tutto quello che per me ha significato e se necessario, condividere anche parti di me che non tutti sanno.

È una catarsi e la voglio fare così, sulla testata che ho contribuito a fondare e della quale sono orgogliosa, come lo sono dei collaboratori che giorno dopo giorno regalano un pezzo del loro cuore a questa piccola ma tanto #LoVez realtà.

E se dovesse essere oltremodo necessario, utilizzerò anche quel gergo emiliano-romagnolo che CI appartiene. Appartiene a noi figli della pianura, della bassa, della riviera, della terra dei partigiani, che ancora non abbiamo perso la voglia di ridere e sorridere dei guai (grazie Vasco eh ndr).

È il 1990 e ho dieci anni. Anni ancora abbastanza semplici dove tutto si risolveva attorno alla scuola, il nuoto, i libri, il cinema, Freddy Mercury e Franco Battiato. In classe con me c’è la mia più grande amica d’infanzia, Susanna, che come nella maggior parte dei casi poi ho perso lungo il meraviglioso cammino che è la vita di un adolescente medio. Ha con sé una musicassetta bianca, non ricordo se originale o taroccata. Qualcuno ricorda il walkman della Sony con le cuffie tonde unite dal cerchietto di metallo?

Quel giorno ho fatto conoscenza con Luciano Ligabue. Lo Zio, come lo chiamo da quella volta, e l’album è l’omonimo Ligabue, bianco, con pezzi di testo e un sole azzurro disegnato sulla copertina.

 

 

LIGABUE

 

 

 

Per questo album ho deciso di appuntare sulla mia bacheca magica dei ricordi la canzone Marlon Brando è sempre lui perché <<quel fascio di luce che parte dal proiettore e dal maggiolone>> mi ha sempre fatto pensare ad una serata holliwoodiana dove sentirmi anche io un po’ una star.

Dal 1991 al 1994 vivo i miei felici anni delle medie. Fanno davvero cagare per tutti gli anni delle medie, dove puzzi, non si capisce talvolta se crescerai tendente al brutto, accettabile o addirittura un figo e dove l’abbigliamento è un mix di dubbio gusto tra un’infanzia in fase di abbandono e un’adolescenza non ancora ben interiorizzata. Ad ogni modo, sempre nerdissima e coerente, ho il mio nuoto, i miei libri e il mio cinema in supersconto grazie al DLF (figlia di un ferroviere, eh eh).

E ho la mia musica.

In questo periodo escono tre album dello Zio Lambrusco Rose Coltelli & Pop Corn, Sopravvissuti e Sopravviventi e A che ora è la fine del mondo?

Lo so che Urlando contro il Cielo è la preferita di molti, ma non voglio appuntare sull’immaginaria bacheca quell’energico brano e lascio spazio a Sarà un bel souvenir per il primo album, perché trovo che la frase <<peccato soltanto che ci sarà il tempo in cui dovremo dire adesso è meglio riposare>> riassuma perfettamente la paura della morte che ho da che ne ho memoria.

 

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Con Sopravvissuti e Sopravviventi invece arriva la prima vera canzone che mi ha fatto ridere: Lo zoo e qui. In questo album del 1993 di chicche ce ne sono diverse ma questa canzone rappresenta in strofe le domande esistenziali che già a undici anni mi pongo: perché sono qui? Perché si suppone che io mi debba vestire di rosa, pizzi e merletti? Perché devo giocare con le bambole? Perché devo andare in Chiesa?

Insomma, PERCHE?

Risale a questo momento infatti la decisione di staccarmi dalla Chiesa e di non frequentare il catechismo per la cresima. Ed è da questo momento che mi rendo conto che le persone hanno la necessità di etichettarti per riuscire a trovarti uno spazio nella loro vita e forma mentis.

E se non sei etichettabile, allora non esisti. Succede, sopra ogni cosa durante l’adolescenza.

Per me invece le aggregazioni obbligate e il “perché lo fanno tutti” non hanno senso e <<il cavallo da soma, la scimmia da spalla>> e la mandria di animali improbabili elencati da Ligabue rappresentano la società. Quasi come se non ci fosse bisogno di andare allo zoo per vederli, basta scendere in strada. Grazie Zio, e grazie a quei sopravviventi.

Nel 1994 capisco che effettivamente ai concerti di Ligabue avrei potuto spaccarmi ammerda e sudarmi anche le unghie dei piedi. Fremo dalla voglia di andare ad un concerto dello Zio e sono consapevole che imparare a memoria A che ora è la fine del mondo? mi avrebbe permesso di scannarmi alla transenna come un drago di Game of Thrones. Quindi lo faccio, imparo tutto a memoria e attendo quel giorno, che poi sarà a Pesaro solo due anni dopo.

Il 1995 è l’anno del botto di Ligabue con Buon Compleanno Elvis o almeno così dicono. In realtà per me non è così. Quel botto nel mio piccolo cuore di tredicenne l’aveva già fatto quando avevo ancora il grembiulino.

È Leggero a farmi sentire bene. È leggero che mi dice <<Leggero, nel vestito migliore, nella testa un po’ di sole ed in bocca una canzone>> e quindi si, va tutto bene. Un inno a quella leggerezza che è molto lontana dalla superficialità ma necessariamente vicina al cuore svuotato dopo una lunga battaglia e che decide di volersi riempire di nuovo delle piccole cose che portano felicità.

<<E ti attacchi alla vita che hai>> mentre alla fine di ogni concerto, lo Zio presenta la propria band sulle ultime note di questo meraviglioso inno alla vita.

Trascorrono 4 anni prima che Ligabue faccia uscire un nuovo attesissimo album dopo il clamoroso successo di Buon Compleanno Elvis, e c’è da chiedersi se non sia perché incapace di produrre un qualcosa di tale caratura o perché appunto per la qualità ci vuole tempo.

 

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Nel 1999 esce Miss Mondo e la critica si divide.

C’è chi lo considera un capolavoro denso di significato, chi lo distrugge come un’accozzaglia di insensatezza e chi lo ignora. Da questo momento nasce la spaccatura tra coloro che si definiscono “veri fan” e quelli come me, che invece abbracciano il cambiamento nella sonorità e si lasciano accompagnare da Luciano verso il nuovo millennio con la consapevolezza che il cambiamento in fondo è positivo.

Questa diattriba che ancora oggi procede ha in sé una religiosità che è facilmente accomunabile allo Scisma d’occidente tra ortodossi e cattolici, o tra gli sciiti e i sunniti dei paesi arabi. Da sempre indifferente a tutto questo, riassumo questo momento di velata crisi del fan club con un avete sdrinato tre quarti di palle.

Nel 1999 dicevamo esce Miss Mondo.

Nel 1999 ho 17 anni e muore una persona che assieme a mio padre, mia madre e ai miei nonni materni ha contribuito a crescermi. La perdita di mia zia paterna ha contribuito a scavare quel buco nero, divenuto ormai voragine, aperto da mio nonno quando avevo 5 anni e ampliato successivamente dalla scomparsa di mia nonna, solo 3 anni prima di mia zia.

Questo album lo temo e lo amo.

Apre ferite e poi le cicatrizza.

Solleva il velo della mia apparente durezza e mi si avvicina dolcemente con sei braccia che mi stringono. E mi sento sola e in compagnia. Vuota e piena.

Questo album rappresenta quello che ero, che sono e che tento di essere. Il riassunto di tutto l’album è quella meravigliosa Sulla mia strada che con umiltà ci sprona a vivere a modo nostro, nel bene e nel male. Ricordandoci di sorridere.

Decisamente la canzone di Ligabue che preferisco. Quella che ha scritto per quelli come me, i sopravvissuti.

Questo è il modo in cui Luciano Ligabue mi ha detto che non sarei mai più stata completamente sola ed è così che compare all’improvviso alla radio nel momento preciso del bisogno.

Ligabue c’era nel 2002 con Fuori come va? Il settimo album in studio nonché primo album del nuovo millennio dove in qualche modo tenta di tornare alle origini del proprio sound preparando così la strada al fatidico 2005 e all’uscita dell’album Nome e Cognome. Album che viene anticipato dalla data del 10 settembre al Campovolo, all’epoca primato europeo del numero di partecipanti per un concerto tenuto da un solo artista.

 

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Ligabue c’era appunto anche nel 2005 quando ho preso coscienza di avere necessità di un supporto psicologico per affrontare una realtà solitaria che per tanto tempo avevo tentato di nascondere a me stessa, raccontandomi costantemente che bastasse colmarla con tanta musica e concerti, libri, film e il mio amore per gli animali.

Realtà che però se tenti di nascondere torna a galla sempre più prepotente e quello che ti manca, le persone care che non ci sono più, devono servirti per costruire rapporti nuovi e solidi e non per vivere nel passato.

Realtà che, come dice lui <<è più forte di me, in questo gioco d’amore si può solo guardare come va a finire>> ed impegnarsi ogni giorno per migliorarla.

E se la critica mossagli dei tre accordi in croce che si ripetono è vera e lo dice lui per primo con il testo di In Pieno Rock’n’Roll <<gli accordi migliori sono sempre quei tre>>, Luciano Ligabue ha comunque la capacità di farti coraggio in mille modi differenti, con un infinito dizionario di emozioni e parole che sembrano inanellarsi senza ripetizioni.

Arrivederci, mostro! (2010), Mondovisione (2013), Made in Italy (2016) e Start (2019) sono gli ultimi album dell’artista, che oltre ai 12 lavori in studio dei quali fanno parte, vanno a comporre un più ampio spettro di attività che passa dal cinema alla scrittura, dalle raccolte agli album live.

Ligabue è stato un compagno di vita e continuerà ad esserlo.

E lo vorrò con me quando avrò di nuovo l’occasione di poter diventare madre.

 

Sono qui per l’amore, e per tutto il rumore che vuoi

E i brandelli di cielo che dipendono solo da noi,

per quel po’ di sollievo che ti strappano dall’ombelico,

per gli occhiali buttati, per l’orgoglio spedito,

con la sponda di ghiaia che alla prima alluvione va giù

ed un nome e cognome che comunque resiste di più.

Sono qui per l’amore per riempire col secchio il tuo mare,

con la barca di carta, che non vuole affondare.

 

 

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Testo di Sara Alice Ceccarelli

Foto di Luca Ortolani

 

Pixies, una monografia personale

Era il 1986, i Nirvana e l’intera ondata grunge non erano ancora apparsi sulla scena, ma l’avrebbero fatto da lì a breve in tutta la loro devastante potenza deflagratoria e con il migliore arsenale sonoro a disposizione.

Erano gli anni del cosiddetto college rock, da una parte c’erano i REM di Michael Stipe, belli e di sani principi, dall’altra i Pixies, capitanati da uno strano tizio che si faceva chiamare Black Francis, con una voce isterica e qualche chilo di troppo.

Facciamo però un passo indietro. Stava finendo il secolo e io avevo iniziato il liceo. Ai tempi ero una silenziosa e insicura ragazzina di provincia. E chi non è mai stata “la reginetta del ballo” lo sa quanto sia difficile essere adolescenti timidi e abitare in provincia.

Per fortuna, proprio per le persone come me, esiste il rock, con il suo enorme potere consolatorio. Così, visto che oltre ad essere timida e insicura, ero pure incazzata e un po’ stramba, avvicinarsi al grunge fu facilissimo.

Finalmente non ero più sola, eravamo in tanti a sentirci inadeguati, strani e completamente fuori posto. Per tutti noi c’erano loro: i Pixies. Gli alieni della scena garage. Estranei al grunge, pur essendone i padri fondatori.

Oggi, nell’era dell’apparenza, una band come i Pixies non sopravviverebbe un giorno. Troppo originali, troppo menefreghisti, troppo caustici, troppo – apparentemente – normali. Per fortuna però, il loro esordio risale al 1986 e, forse, si badava meno a tutte queste cose.

I Pixies sono una delle cose migliori successe al mondo del Rock, e non sorprende che perfino i Nirvana abbiano cercato ispirazione proprio nella loro musica, alla fine degli anni Ottanta.

Kurt Cobain ammise infatti di essersi ispirato a loro, o come disse lui stesso “di averli derubati” per scrivere Smell Like Teen Spirits. Kurt voleva essere come i Pixies, suonare con loro, o almeno essere in una loro cover band. Ascoltando la musica dei Nirvana si trova la stessa identica onda anomala presente nella musica dei Pixies.

Si parte morbidi, quasi innocui, fino a salire, sempre più rumorosi e duri. Impossibile non essere d’accordo con quello che disse Manuel Agnelli quando affermò che ”i Pixies erano i Nirvana qualche anno prima. Ma più bassi e brutti”.

La storia dei Pixies, come dicevo, inizia nel 1986, quando il cantante Black Francis, all’anagrafe Charles Thompson, incontra il chitarrista Joey Santiago, a Porto Rico. Come nelle migliori storie del rock, i due mettono un annuncio su un giornale: “Cercasi bassista appassionato di Husker Du e Peter Paul & Mary“. Ed è qui che entra in gioco l’affascinante Kim Deal, che porta con sé l’amico batterista, David Lovering. Kim è la regina nera dei Pixies che con la sua personalità ha letteralmente rubato la scena e il ruolo di leader al non convenzionale Francis.

Ma andiamo con ordine: il loro primo album Come On Pilgrim, è un lavoro sicuramente acerbo, ma che dimostra già un enorme potenziale della band di Boston. E’ sufficiente leggere i testi per capire di cosa sto parlando. Sono surreali. Francis Black e i suoi hanno inventato un nuovo linguaggio, lo spanglish. Metà inglese, metà spagnolo. “Non lo facciamo per accattivarci il pubblico latino-americano”, ha spiegato in un’intervista Kim Deal, “è che talvolta lo spagnolo suona più percussivo e riesce a definire meglio quello che cerchiamo di dire”.

Tra il 1987 e il 1992 i Pixies incidono due album incredibili: Surfer Rosa e Doolittle. Ascoltarli, ancora oggi, mi crea un curioso solletico alla corteccia cerebrale. Surfer Rosa viene osannato da critica e pubblico. In tanti lo definiscono l’ultimo capolavoro “post-punk”. Tra i tanti pezzi dissonanti e ossessivi che si possono trovare al suo interno ci sono anche Gigantic e Where is my Mind, che è diventato uno dei loro brani più conosciuti anche grazie a film come Fight Club. La chiusura del disco è la psichedelica Caribou. Si tratta di un lavoro sorprendente che, come un diamante, cambia aspetto ad ogni ascolto.

La loro è musica abrasiva, isterica e, in qualche modo, grottescamente pop. Le canzoni sono corte, in perfetto stile Ramones per capirsi. “Difficile sopportare quei riff cattivi per più di due minuti” dirà una volta Kim.

 

 

 

 

Doolittle invece è un disco che ho letteralmente consumato. Una cavalcata di 12 pezzi, che parte con Debaser e termina con There goes my gun. In mezzo c’è il meglio che la musica abbia prodotto in quegli anni: Here Comes Your Man, Wave Of Mutilation, Monkey Gone To Heaven, Gouge Away e La La Love You, il brano che non ti aspetti, uno dei più assurdi di sempre, che con fischietti, cori femminili e schitarrate ironizza sul concetto di storia d’amore. L’intro di Debaser è indimenticabile: “I am un chien, anda-luuu-sia!”, che fa riferimento al cane andaluso del film di Buñuel, pronunciato in un francese stentato e ridicolo. E non solo, basti pensare al “Rock me, Joe” di Monkey Gone To Heaven. I testi di Debaser parlano di suicidio, di nevrosi, di depressione, di droga, di prostituzione e di disastri ecologici. Siete un po’ smarriti? Pensate a come si sarà sentito chi l’ha ascoltato nel 1989.

Purtroppo però, niente dura per sempre, e anche la verve creativa dei Pixies è destinata all’inesorabile tramonto. Nel 1990 esce Bossanova, l’anno successivo Trompe Le Monde. Due lavori confusi, lontani dai precedenti. Anche a causa di continue tensioni tra Kim Deal e Black Francis, nel 1992 i Pixies si sciolgono. La storia però non finisce qui.

Di solito quando un grande gruppo del passato decide di riunirsi, lo fa partendo da qualche concerto, per poi tornare in studio e produrre materiale nuovo. I Pixies no. Dal 2004 al 2012 hanno fatto concerti, per otto lunghi anni, senza mai entrare in sala di registrazione. Nessun inedito, niente di niente. Il motivo è semplice, quasi lapalissiano, a raccontarlo è Joey Santiago: “suonando molto dal vivo non avevamo tempo di entrare in studio”.

Black Francis aveva bisogno di tempo per scrivere brani adatti al nuovo suono. Nel 2013 arrivano EP1, EP2 ed EP3, con quattro pezzi ciascuno, e infine il tanto atteso Indie Cindy, che unisce al suo interno i brani dei tre EP, senza ulteriori aggiunte. A Giugno 2013 Kim Deal abbandona la band e da quel momento in poi al basso la sostituisce Paz Lenchantin.

Tralasciando gli ultimi lavori, non troppo degni di nota, quello dei Pixies è un universo bizzarro e sconclusionato. All’interno dei loro album si può trovare tutta la psicopatia del mondo del Rock: le nevrosi dei Pere Ubu, l’acidità lisergica dei Velvet Underground, l’isteria dei Violent Femmes. Hanno shakerato tutto insieme e l’hanno servito in un bel bicchiere con l’ombrellino.

Senza i Pixies, con grande probabilità, oggi non esisterebbe quello che viene chiamato “indie”. La loro influenza è stata indelebile. Anche sui miei gusti musicali.

Il linguaggio dei Pixies, il loro modo di scrivere canzoni, ha fortemente influenzato la maggior parte dei gruppi o dei musicisti che ho amato: i Nirvana, Pj Harvey, i Radiohead, per nominarne solo alcuni.

I Pixies per me sono stati un incontro fortuito, quello che quando accade cambia tutto. Fino a quel momento ero una ragazzina timida che guardava film in bianco e nero e passava un sacco di tempo a leggere libri. E’ stato come conoscere per la prima volta qualcuno come me, sfigato e altrettanto perso: “è fatta” mi sono detta, “allora non sono sola”.

 

Daniela Fabbri

Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

Pearl Jam 1

 

  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri